Il Gesù tormentato di Pier Paolo Pasolini
Articolo di Sylvie Queval* pubblicato sul sito Protestants dans la Ville (Francia) il 24 gennaio 2019, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Nel 1897 i fratelli Lumière girano La vita e la passione di Gesù Cristo: da allora non si sono più contate le versioni cinematografiche della vita di Cristo. Tutti i generi vi hanno partecipato, compreso il musical, rappresentato da Jesus Christ Superstar del 1969.
Alcuni film fecero scandalo (è il caso di L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, 1988), altri hanno fatto di Gesù un supereroe (come Il Re dei Re di Nicholas Ray, 1961) o ne hanno fornito un’immagine dolorista (La Passione di Cristo di Mel Gibson, 2004).
La sobrietà del bianco e nero di Pasolini è qualcosa di molto diverso. Il Vangelo secondo Matteo (1964) è un film atipico: l’ateo e marxista Pasolini realizza un film che segue scrupolosamente il testo del vangelo di Matteo, tanto da ricevere il premio dell’Ufficio Cattolico Internazionale del Cinema.
La sequenza del Monte degli Ulivi illustra molto bene il progetto del regista, che non cerca di attuare una ricostruzione storica di quella che poteva essere la Palestina del primo secolo della nostra era, e che inoltre si rifiuta di “sacralizzare un soggetto sacro”, secondo le sue stesse parole. Pasolini rende visibile il dubbio dell’uomo Gesù, la cui solitudine viene sottolineata dalla città addormentata sullo sfondo.
La sequenza si apre con l’arrivo di Gesù e dei discepoli nell’uliveto. Il suono in sordina dei violini si va attenuando poco dopo che Gesù si allontana da Pietro, Giacomo e Giovanni, ai quali aveva chiesto di seguirlo e di “vegliare con lui”.
In un quasi silenzio opprimente, la cinepresa inquadra in primissimo piano il volto di Gesù, la cui fronte si imperla di sudore.
Uno zoom indietro ci fa scoprire che Gesù sta camminando avanti e indietro; la cinepresa, tenuta sulla spalla dell’operatore, segue il movimento esitante e sobbalzante dei suoi passi. Gesù poi cade in ginocchio e l’inquadratura è di nuovo sul suo volto, in primissimo piano.
Per tre volte la cinepresa indugia sulla città in secondo piano, per poi tornare sul volto di Gesù, coperto di sudore. Vediamo un fortissimo contrasto tra la città calma, rischiarata solamente dalla luce di qualche torcia, e il volto angosciato di Gesù, e tra il piano lungo che pone la città a distanza e il primo piano che ci fa entrare nell’intimità del suo volto.
Alzando la testa verso il cielo, Gesù dichiara “Padre mio, se fosse possibile che questo calice si allontanasse da me! Ma non quello che io voglio, bensì quello che tu vuoi” (Matteo 26:39), poi si alza e torna dai tre discepoli, di cui la cinepresa inquadra i volti addormentati, mentre la musica riprende a suonare.
La resa per immagini dei versetti 38-40 del capitolo 26 del vangelo di Matteo si svolge per un minuto abbondante, durante il quale Pasolini, sfruttando tutte le risorse del linguaggio cinematografico, esprime visivamente il dubbio, la solitudine, l’abbandono; come ha scritto un critico su Le Monde (17 giugno 2003), con questo film “il testo si fa immagine”.
È un Gesù abbandonato da tutti e solo con la sua angoscia quello che descrive Matteo, ed è proprio questo il Gesù mostrato da Pasolini, il quale dichiarò: “Io non credo che Cristo sia figlio di Dio […] ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”.
Una bella confessione di fede!
* Sylvie Queval è stata docente e ricercatrice di filosofia all’Università di Lilla 3. Dopo l’emeritazione ha cominciato ad animare il circolo Évangile et Liberté della regione dell’Aude.