Il gesuita James Martin: “abbiamo bisogno di costruire un ponte tra comunità LGBT e la Chiesa cattolica”
Riflessioni* del gesuita James Martin** pubblicate sul sito del settimanale cattolico America (Stati Uniti) il 30 ottobre 2016, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Negli Stati Uniti le relazioni tra la comunità LGBT cattolica e la Chiesa Cattolica sono state a tratti litigiose e astiose, a tratti amichevoli e cordiali. Le tensioni che caratterizzano questo complicato rapporto derivano in gran parte dalla mancanza di comunicazione e, purtroppo, anche da una buona dose di diffidenza tra i cattolici e le cattoliche LGBT e la gerarchia. Dobbiamo costruire un ponte tra questa comunità e la Chiesa.
Vi invito a camminare con me su questo importante ponte. Per fare questo vorrei riflettere su come la Chiesa vede la comunità LGBT e viceversa, perché i ponti normalmente portano in ambedue le direzioni. Come sapete, il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che i cattolici sono chiamati a trattare le persone omosessuali “con rispetto, compassione e sensibilità” (n° 2358). Cosa vuol dire?
Mediteremo su questo e su un’altra questione: in che modo la comunità LGBT può trattare la Chiesa “con rispetto, compassione e sensibilità”? Naturalmente i cattolici e le cattoliche LGBT fanno parte della Chiesa, quindi in un certo senso questa è una falsa dicotomia: la Chiesa è l’intero popolo di Dio ed è strano discutere su come il popolo di Dio può relazionarsi con una parte del popolo di Dio. Perciò, come facciamo noi gesuiti, vorrei ridefinire i termini del discorso. Quando in questo articolo mi riferisco alla Chiesa, intendo la Chiesa istituzionale: il Vaticano, la gerarchia, i prelati e il clero.
Prima corsia
Facciamoci una passeggiata sulla prima corsia del ponte, quella che porta dalla Chiesa istituzionale alla comunità LGBT, e riflettiamo su “rispetto, compassione e sensibilità”.
Rispetto: in che modo la Chiesa può “rispettare” la comunità LGBT? Per prima cosa, il livello minimo di rispetto è riconoscere che la comunità LGBT esiste: qualsiasi comunità vuole vedere riconosciuta la sua esistenza. Rispetto è anche riconoscere che questa comunità apporta doni unici alla Chiesa, come ogni altra comunità. Riconoscere tutto questo ha importanti implicazioni pastorali: per esempio, mettere in piedi dei ministeri appositi, come fanno già molto bene alcune diocesi e parrocchie, oppure celebrare messe con gruppi LGBT, sponsorizzare programmi pastorali diocesani e parrocchiali e in generale far sì che i cattolici e le cattoliche LGBT si sentano amati e parte della Chiesa.
Alcuni cattolici obiettano che una simile pastorale sottintende una tacita approvazione di tutto ciò che le persone LGBT dicono o fanno. Mi sembra un’obiezione scorretta, perché non viene sollevata praticamente con nessun altro gruppo. Se una diocesi sponsorizza, per esempio, un gruppo pastorale per dirigenti d’azienda cattolici, questo non implica che la diocesi avalli tutti i valori della cultura aziendale americana, né che la Chiesa voglia santificare tutto ciò che gli uomini e le donne d’affari dicono o fanno. Nessuno solleva una simile obiezione. Perché? Perché il popolo comprende che la diocesi sta cercando di aiutare una particolare gruppo umano a sentirsi maggiormente parte della sua Chiesa, la Chiesa a cui appartiene in virtù del battesimo.
In secondo luogo, rispetto significa chiamare un gruppo con il nome che il gruppo stesso ha scelto. A livello personale, se qualcuno dice “Mi chiamo James ma preferisco essere chiamato Jim” voi ovviamente lo ascoltate: è semplice cortesia. Lo stesso vale a livello di gruppo: non diciamo più la parola “negri”. Perché? Perché quel gruppo preferisce essere chiamato con altri nomi: “afroamericani” o “neri”. Di recente qualcuno mi ha detto che “disabili” non è accettabile come “persone con disabilità”, quindi da adesso userò il secondo termine. Perché? Perché è questione di rispetto chiamare qualcuno con il nome da lui o lei scelto. Tutti hanno il diritto di dire agli altri il proprio nome.
Non è una questione da poco. Nella tradizione giudaico-cristiana i nomi sono importanti. Nell’Antico Testamento Dio investe Adamo ed Eva dell’autorità di dare un nome alle creature (Genesi 2:18-23). Dio cambia il nome di Abramo in Abraamo (Genesi 17:4-6). Nell’Antico Testamento il nome contiene l’identità della persona: sapere il nome di una persona vuol dire conoscerla. Questa è una delle ragioni per cui, quando Mosè chiede a Dio il suo nome, Egli dice “Io sono colui che sono”: in altre parole, non è affar tuo (Esodo 3:14). Più avanti, nel Nuovo Testamento, Gesù dà a Simone il nuovo nome di Pietro (Matteo 16:18; Giovanni 1:42). Saulo il persecutore sceglie il nuovo nome di Paolo. I nomi sono importanti anche nella nostra Chiesa odierna: la prima domanda che il sacerdote o il diacono chiedono ai genitori durante il battesimo del neonato è “Che nome volete dare a questo bambino”?
I nomi sono importanti, perciò invito i responsabili ecclesiali a stare attenti quando nominano la comunità LGBT e a lasciar cadere espressioni come “afflitti dall’attrazione omoerotica”, che nessuna persona LGBT di mia conoscenza usa, e anche “omosessuali”, che a molti sembra appartenere al gergo medico. Non raccomando nessun termine, ma “gay e lesbica”, “persona LGBT” e “persona LGBTQ” sono i più comuni. Credo che le persone abbiano diritto di darsi un nome e che usare quel nome sia una forma di rispetto. Se papa Francesco usa la parola “gay”, può farlo anche il resto della Chiesa.
Infine, rispettare le persone LGBT significa amarle come amati figli e amate figlie di Dio e farlo loro sapere. La Chiesa ha la speciale vocazione di proclamare l’amore di Dio a persone che spesso vengono trattate come scarti subumani, indegni del servizio cristiano, dalle loro famiglie, dai vicini e dai responsabili ecclesiali. Invito la Chiesa a proclamare e dimostrare che le persone LGBT sono figli e figlie amati da Dio.
Oltretutto, questi figli e figlie amati da Dio hanno dei doni, sia come individui che come comunità. Sono i doni che sono parte costitutiva della Chiesa in maniera unica, come dice san Paolo quando paragona il popolo di Dio al corpo umano (1 Corinzi 12:14-27). Tutte le parti del corpo sono importanti: la mano, l’occhio, il piede. Basta guardare ai doni dei cattolici e delle cattoliche LGBT che lavorano nelle parrocchie, nelle scuole, nelle cancellerie, nelle case di riposo, negli ospedali e in genere nei servizi sociali. Ecco un esempio tratto dalla mia vita: alcuni degli organisti e dei direttori di coro più dotati che ho conosciuto in quasi trent’anni che sono gesuita erano gay e hanno portato una gioia immensa nelle loro parrocchie, e loro stessi erano tra le persone più gioiose che ho conosciuto nella Chiesa.
Detto di sfuggita, mi cadono le braccia nel constatare che in alcuni luoghi si licenziano uomini e donne LGBT. Naturalmente le organizzazioni cattoliche hanno l’autorità di richiedere ai loro impiegati il rispetto del Magistero; il problema sorge quando questa autorità viene applicata in maniera molto selettiva. Negli ultimi anni, quasi tutte le persone licenziate sono state LGBT, in particolare persone con un ruolo pubblico nella Chiesa sposatesi con un/a partner dello stesso sesso, cosa contraria al Magistero. Ma se l’adesione agli insegnamenti della Chiesa costituisce un paletto per lavorare in un istituto cattolico, allora le diocesi e le parrocchie devono essere coerenti. Non vedo molti uomini e donne licenziati perché hanno divorziato e poi si sono risposati senza ottenere l’annullamento, eppure il divorzio e il secondo matrimonio che ne consegue sono contrari al Magistero e proibiti dallo stesso Gesù. Non vedo molte donne licenziate per aver avuto figli al di fuori del matrimonio, o qualcuno buttato fuori perché convive con un’altra persona senza essere sposato, eppure anche queste sono cose che la Chiesa condanna.
E cosa dire degli impiegati che non sono cattolici? Se vogliamo licenziare chi non è d’accordo con o non aderisce agli insegnamenti della Chiesa, licenzieremo tutti i protestanti che lavorano negli istituti cattolici perché non credono nell’autorità del Papa? Eppure questa è un’importante dottrina cattolica. Licenzieremo gli unitariani che non credono nella Trinità? Si licenzia mai qualcuno per questi motivi? No. Perché no? Perché operiamo una scelta tra gli insegnamenti del Magistero: alcuni sono più importanti di altri. Senza contare il fatto che aderire agli insegnamenti della Chiesa vuol dire, fondamentalmente, aderire al Vangelo. Per essere coerenti dovremmo licenziare gli impiegati che non aiutano i poveri, non praticano il perdono e non amano il prossimo. Forse suona bizzarro, ma se ci pensate bene, gli insegnamenti di Gesù sono i più basilari tra gli “insegnamenti del Magistero”.
Il fatto che si licenzino solo le persone LGBT è secondo me, per usare le parole del Catechismo, un “marchio di ingiusta discriminazione” che dobbiamo evitare (n° 2358). Non a caso questa settimana il nostro giornale ha pubblicato un editoriale che dice “La grande risonanza di questi licenziamenti, l’evidente mancanza di giusto processo e l’assenza di requisiti simili per gli impiegati e le impiegate eterosessuali sono marchi di ingiusta discriminazione e la Chiesa Cattolica statunitense dovrebbe impegnarsi di più per evitarli”.
Torniamo ai doni della comunità LGBT. Invito la Chiesa nel suo complesso a meditare su come i cattolici e le cattoliche LGBT sono parte costitutiva della Chiesa grazie alla loro presenza, proprio come gli anziani, gli adolescenti, le donne, le persone con disabilità, i vari gruppi etnici e qualsiasi tipo di gruppo sono parte costitutiva delle parrocchie e delle diocesi. È sbagliato generalizzare, ma possiamo comunque porci la domanda: quali sono i loro doni? La maggior parte delle persone LGBT hanno subìto fin dalla più tenera età incomprensioni, pregiudizi, odio, persecuzione e persino violenze e per questo motivo provano molto spesso una naturale compassione verso gli emarginati. La compassione è un dono. Spesso le hanno fatte sentire non gradite nella loro parrocchia e nella loro Chiesa ma hanno perseverato perché hanno una fede vigorosa. La perseveranza è un dono. Spesso perdonano preti, religiosi e altre persone legate alla Chiesa che le hanno trattate come scarti. Il perdono è un dono. La compassione, la perseveranza, il perdono, sono tutti doni.
Aggiungo un altro dono: quello dei consacrati gay e delle consacrate lesbiche che hanno fatto promessa di celibato o voto di castità. Sono molte le ragioni per cui quasi nessun consacrato gay e nessuna consacrata lesbica rivelano pubblicamente la loro sessualità: sono semplicemente persone riservate, oppure i loro vescovi o superiori chiedono loro di non parlarne, oppure sono loro stessi/e a disagio con la loro sessualità, oppure ancora temono rimproveri da parte dei loro parrocchiani. Ci sono però molti sacerdoti e molti religiosi e religiose gay e lesbiche santi e operosi, che sono fedeli alla promessa di celibato e al voto di castità, fanno il loro lavoro di costruzione della Chiesa e ad essa si offrono liberamente e completamente. Sono loro stessi/e dei doni. Riconoscere e dare un nome a tutti questi doni fa parte del rispetto che dobbiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle LGBT.
Compassione: in che modo la Chiesa può portare rispetto agli uomini e alle donne LGBT? La parola “compassione” significa “vivere con” o “soffrire con”. In che modo la Chiesa istituzionale, la gerarchia, può non solo rispettare i cattolici e le cattoliche LGBT ma anche essere con loro, vivere la vita con loro e soffrire con loro?
La prima cosa, la più essenziale, è ascoltare. È quasi impossibile capire la vita di una persona o essere compassionevoli se non si ascolta e non si fanno domande. Alcune domande che i responsabili ecclesiali potrebbero rivolgere ai loro fratelli e sorelle LGBT sono: com’è la tua vita? Cosa vuol dire crescere da ragazzo gay, da ragazza lesbica o da persona transgender? Hai sofferto? Quali sono le tue gioie? E poi: qual è la tua esperienza di Dio? Come vivi la Chiesa? Cosa speri, cosa desideri, per cosa preghi? La Chiesa deve ascoltare se vuole esercitare compassione.
In secondo luogo, i responsabili ecclesiali devono stare dalla parte dei loro fratelli e sorelle LGBT quando questi vengono perseguitati. In molte parti del mondo le persone LGBT sono esposte, usando di nuovo le parole del catechismo, a terribili atti di “ingiusta discriminazione”, dal pregiudizio alla violenza per arrivare all’assassinio. In alcuni Paesi si può venire incarcerati per essere omosessuali o per avere relazioni omosessuali e uccisi se si è un leader omosessuale. In quei Paesi la Chiesa istituzionale ha il dovere morale di schierarsi pubblicamente a fianco dei suoi fratelli e sorelle. Tenete bene a mente cosa dice il catechismo: “ogni marchio di ingiusta discriminazione” deve essere evitato. Aiutare e schierarsi a fianco di qualcuno quando questo viene perseguitato fa parte della compassione e fa parte dell’essere discepoli di Gesù Cristo; se avete dei dubbi, leggete la parabola del buon Samaritano (Luca 10:25-37).
Venendo vicino a casa nostra, in che modo la Chiesa degli Stati Uniti può dire, ove ce ne sia bisogno, “È sbagliato trattare la comunità LGBT in questo modo”? La gerarchia emana regolarmente dei comunicati in cui difende, com’è suo dovere, i rifugiati e i migranti, i poveri, i senzatetto, i bambini non nati. Questo è l’unico modo di schierarsi con qualcuno: sporcarsi le mani e magari ricevere critiche per averlo fatto. Ma dove sono i comunicati in difesa dei nostri fratelli e sorelle LGBT? Quando lo chiedo, qualcuno mi dice “Non puoi paragonare quello che affrontano i rifugiati con quello che affrontano le persone LGBT”. Ho lavorato con i rifugiati nell’Africa Orientale e so che questo è vero, ma è importante non ignorare l’altissimo tasso di suicidi tra i giovani e le giovani LGBT e il fatto che le persone LGBT sono vittime di crimini d’odio più di altre minoranze del Paese. Dopo il massacro di Orlando, mentre la comunità LGBT statunitense era in lutto, sono rimasto scoraggiato dal fatto che la grande maggioranza dei vescovi non abbia immediatamente detto una parola di conforto. Certo, qualcuno l’ha fatto, ma immaginate se l’assalitore avesse preso di mira, Dio non voglia, una congregazione metodista: i vescovi avrebbero molto probabilmente detto “Siamo a fianco dei nostri fratelli e sorelle metodisti”. Perché nel caso di Orlando non l’hanno fatto? È sembrata a molti una mancanza di compassione, un’occasione mancata per vivere con e soffrire con. Orlando invita tutti e tutte noi a riflettere su questo.
Non abbiamo bisogno di guardare lontano per avere un modello: Dio lo ha già fatto per tutti noi, in Gesù. I primi versetti del Vangelo di Giovanni ci dicono che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (1:14). Il testo originale greco è più vivido: il Verbo si fece carne e “piantò le sue tende tra di noi” (eskēnōsen en hēmin). Non è bello? Dio è entrato nel nostro mondo per vivere tra di noi. È quello che ha fatto Gesù: ha vissuto al nostro fianco, è stato dalla nostra parte, è persino morto come uno di noi. È quello che la Chiesa è chiamata a fare con tutti i gruppi emarginati (come ci ha ricordato papa Francesco), inclusi i cattolici e le cattoliche LGBT: vivere la loro vita e soffrire con loro, e anche essere gioiosi con loro! Perché Gesù è venuto per vivere la nostra vita tutta intera, non solo il lato doloroso. Le persone LGBT, anche quando soffrono persecuzioni, condividono le gioie della condizione umana. Siete capaci di gioire con i vostri fratelli e sorelle LGBT?
Sensibilità: in che modo la Chiesa istituzionale può essere “sensibile” nei confronti delle persone LGBT?
È una bella parola quella che utilizza il catechismo. Un dizionario la definisce come “la consapevolezza o la comprensione dei sentimenti delle altre persone”, il che si riallaccia alle parole di papa Francesco, secondo cui la Chiesa dovrebbe privilegiare “l’incontro” e “l’accompagnamento”. Per cominciare, è quasi impossibile conoscere a distanza i sentimenti di un’altra persona; non si possono capire i sentimenti di una comunità se non si conosce la comunità. Non si può essere sensibili verso la comunità LGBT se ci si limita a emanare documenti, predicare o twittare su di essa senza conoscerla. Una delle ragioni per cui la Chiesa istituzionale fatica molto ad essere sensibile, a mio avviso, è che molti sacerdoti, religiosi e vescovi non conoscono molti gay o lesbiche. Ci sarebbe da sorridere e dire che essi conoscono eccome dei gay: i sacerdoti e i vescovi che non ammettono pubblicamente la loro omosessualità. Ma quello che voglio dire è un’altra cosa: molti sacerdoti, religiosi e vescovi non conoscono molte persone esplicitamente LGBT. Questa mancanza di famigliarità e amicizia rende più difficile essere sensibili. Come si può essere sensibili alla situazione di qualcuno se non lo si conosce? Ecco quindi l’invito alla gerarchia di venire a conoscere le persone LGBT come amici e amiche.
Il cardinale Christof Schönborn, arcivescovo di Vienna, ce lo ha ricordato in margine al Sinodo sulla Famiglia, dove ha parlato di una coppia gay da lui conosciuta che ha cambiato completamente il suo modo di porsi verso le persone LGBT, portandolo persino a lodare le unioni omosessuali: “Si condivide la vita, si condividono le gioie e le sofferenze, ci si aiuta reciprocamente. Dobbiamo riconoscere che queste persone hanno fatto un importante passo verso il bene, loro e degli altri, anche se ovviamente questa situazione non può essere considerata regolare dalla Chiesa”. Il cardinale ha richiamato un sacerdote della sua diocesi che aveva proibito a un uomo fidanzato a un altro uomo di far parte di un consiglio parrocchiale. Detto in altri termini, il cardinale Schönborn si è schierato con quest’uomo e questo sicuramente deriva dalla sua esperienza con le persone LGBT, dalla conoscenza e dall’amicizia. Il cardinale ha poi detto semplicemente: “Dobbiamo accompagnarli”.
In questo, come in tutte le cose, il nostro modello è Gesù. Quando incontrava gli emarginati, non vedeva categorie ma persone. Voglio essere chiaro: non sto dicendo che la comunità LGBT dovrebbe essere o sentirsi emarginata; dico che, nella Chiesa, molte persone LGBT si trovano messe ai margini. Sono viste come “altre”, ma per Gesù non c’era nessun “altro”. Gesù vedeva oltre le categorie, incontrava le persone lì dove si trovavano e le accompagnava. Nel Vangelo di Luca, quando incontra un centurione romano che lo prega di guarire il suo servo, Gesù non gli dice “Sei un pagano!” ma vede un uomo in difficoltà (Luca 7:1-10). Quando, nel Vangelo di Luca, incontra Zaccheo, il principale agente delle tasse di Gerico, che probabilmente era considerato il più grande peccatore della zona, non gli dice “Sei un peccatore!” ma vede una persona che cerca di incontrarlo (Luca 19:1-10). Gesù voleva stare con quelle persone, stare al loro fianco ed essere loro amico.
Un’obiezione comune è: “No, Gesù ha sempre detto a queste persone, prima di ogni altra cosa, di non peccare!”. E l’argomentazione continua così: non possiamo incontrare le persone omosessuali perché peccano, e comunque quando le incontriamo la prima cosa che dobbiamo dire è “Basta peccare!”. Ma di solito Gesù non diceva così. Ricorderete che, nel racconto di Zaccheo, Gesù per primo spia il pubblicano che si è arrampicato sul sicomoro per scorgerlo. Gesù dice che vuole cenare a casa di Zaccheo, un segno di accoglienza nella Palestina del primo secolo, prima che Zaccheo dica o faccia qualcosa. Solo dopo che Gesù gli ha offerto la sua accoglienza Zaccheo è mosso a convertirsi e promette di risarcire le persone da lui derubate. Così, nel racconto del centurione romano, Gesù non rimprovera l’uomo per il suo paganesimo, ma prima loda la sua fede e poi guarisce il suo servo. Per Gesù solitamente prima viene la comunità, poi la conversione.
Anche il Papa lo ha detto in una recente conferenza stampa: “Le persone si devono accompagnare come le ha accompagnate Gesù. Quando una persona che ha questa condizione arriva da Gesù, Gesù non dirà sicuramente ‘vattene via perché sei omosessuale’”. La sensibilità si basa sull’incontro, l’accompagnamento e l’amicizia. E dove ci porta tutto questo? Al secondo significato della parola, che nel linguaggio comune è una forte consapevolezza di ciò che potrebbe offendere. Siamo “sensibili” alla situazione delle persone e per questo siamo “sensibili” a qualsiasi futile offesa. Uno dei modi di essere sensibili è fare attenzione al linguaggio che usiamo. Alcuni vescovi hanno consigliato di porre in un angolo l’espressione “oggettivamente disordinate”, che descrive le inclinazioni omosessuali (vedi il Catechismo, n° 2358). L’espressione si riferisce all’orientamento, non alle persone, ma comunque sono parole che feriscono e non aiutano. Dire che uno degli aspetti più profondi di una persona, quello che dà e riceve amore, è “disordinato” è cosa inutilmente crudele. Di rinunciare a questo linguaggio si è discusso al recente Sinodo sulla Famiglia, come confermato da diverse fonti. In seguito il vescovo australiano Vincent Long Van Nguyen ha detto: “Non possiamo parlare dell’integrità della creazione e dell’amore di Dio, che sono universali e inclusivi e, al tempo stesso, essere collusi con le forze dell’oppressione che opprimono le minoranze razziali, le donne e le persone omosessuali […] Con tutto questo non potremo avvicinare i giovani, soprattutto quando pretendiamo di trattare le persone omosessuali con amore e compassione e intanto definiamo la loro sessualità “intrinsecamente disordinata”. La sensibilità è anche capire questo.
Seconda corsia
Ora facciamoci una passeggiata sulla seconda corsia del ponte, quella che porta dalla comunità LGBT alla Chiesa istituzionale. In che modo la comunità LGBT può trattare la Chiesa istituzionale “con rispetto, compassione e sensibilità”?
All’interno della Chiesa è la gerarchia che possiede il potere istituzionale: essa permette di ricevere i sacramenti, permette o proibisce ai sacerdoti di celebrarli, fonda e chiude i ministeri diocesani e parrocchiali, permette di lavorare negli istituti cattolici e così via. Ma anche la comunità LGBT ha il suo potere: per esempio, i media occidentali parteggiano più per essa che per la gerarchia: questo è potere. Tuttavia, nella Chiesa istituzionale, è la gerarchia ad essere in posizione di potere. I cattolici e le cattoliche LGBT sono chiamati a trattare la gerarchia “con rispetto, compassione e sensibilità”. Perché? Perché questo, come ho detto prima, è un ponte a due sensi di marcia. Cosa ancora più importante, i cattolici LGBT sono cristiani e quelle virtù esprimono l’amore cristiano e sono parte costitutiva dell’intera comunità.
Rispetto: in che modo la comunità LGBT può mostrare “rispetto” verso la Chiesa? Ribadisco che sto parlando del Papa e dei vescovi, vale a dire la gerarchia e, in senso più lato, il Magistero, gli insegnamenti autoritativi della Chiesa.
I cattolici credono che i vescovi, i preti e i diaconi ricevano, alla loro ordinazione, la grazia per esercitare uno speciale ministero di guida nella Chiesa. Crediamo anche che i vescovi, in particolare, abbiano un’autorità che proviene dagli Apostoli. Questo è, in parte, ciò che intendiamo quando ogni domenica alla messa professiamo la fede che la Chiesa è “apostolica”. Crediamo anche che lo Spirito Santo ispiri e guidi la Chiesa. Certamente questo accade attraverso il popolo di Dio, che, come dice il Concilio Vaticano Secondo, è imbevuto di Spirito, ma accade anche attraverso il Papa, i vescovi e il clero per via della loro ordinazione e dei compiti a loro affidati. Perciò, la Chiesa istituzionale – il Papa e i concili, gli arcivescovi e i vescovi – parla con l’autorità del suo ruolo di maestra. Questi rappresentanti della gerarchia non parlano tutti con il medesimo livello di autorità (come dirò più tardi) ma tutti i cattolici e le cattoliche devono, in spirito di preghiera, prendere in considerazione ciò che insegnano. Per fare questo, siamo chiamati ad ascoltare: il loro insegnamento merita il nostro rispetto.
Quindi, prima di tutto, ascoltare, su tutti i temi, non solo quelli LGBT. L’episcopato parla con autorità e attinge a quella grande fonte che è la Tradizione. Quando i vescovi parlano su temi quali l’amore, il perdono, la misericordia e la cura per i poveri e gli emarginati, i bambini non nati, i senzatetto, i carcerati, i rifugiati e così via, non attingono solamente dai Vangeli ma anche dal tesoro spirituale della Tradizione della Chiesa. Spesse volte, soprattutto su questioni di giustizia sociale, potrebbero mettervi in crisi con una saggezza che nessun altro al mondo potrà offrirvi. E quando parlano di tematiche LGBT con parole che non vi trovano d’accordo, che vi fanno arrabbiare o vi offendono, ascoltate comunque e chiedetevi: “Cosa stanno dicendo? Perché lo dicono? Cosa c’è dietro le loro parole?”. Ascoltate, ponderate, pregate e, ovviamente, usate la vostra coscienza.
Oltre a ciò che forse per voi è il rispetto dovuto ai prelati, la gerarchia merita semplicemente rispetto umano. Spesso e volentieri mi cadono le braccia nel sentire le cose che certi cattolici LGBT e i loro alleati dicono di certi vescovi. Me lo dicono in privato ma lo dicono anche pubblicamente. Di recente un gruppo LGBT, in risposta alla dichiarazione di alcuni vescovi sul matrimonio omosessuale, ha detto che i vescovi dovrebbero smetterla “di chiudersi nelle loro torri d’avorio”. Ho pensato “Davvero? Lo direste anche ai vescovi delle diocesi povere, che vivono in ‘torri d’avorio’? Ai vescovi che svolgono il loro ministero tra i poveri, che visitano le parrocchie nei quartieri delle grandi città, sponsorizzano scuole per i poveri di quei quartieri e amministrano le opere di carità?”. Potete anche non essere d’accordo con i vescovi ma quel tipo di linguaggio non coglie la realtà, oltre che essere poco rispettoso.
Cosa ancora più seria, i cattolici LGBT e i loro alleati talvolta deridono senza pietà i vescovi per le loro promesse di celibato, le case in cui vivono e, in particolare, gli abiti che indossano. Si postano online foto di vescovi con elaborati paramenti liturgici con il proposito, nemmeno troppo sottinteso, di presentarli come effeminati, ipocriti o gay repressi. Davvero la comunità LGBT vuole comportarsi così? Davvero i gay vogliono deridere i vescovi perché sono effeminati, quando probabilmente loro stessi, da giovani, sono stati vessati per lo stesso identico motivo? Non si rendono conto di perpetuare l’odio? Come si può rimproverare un vescovo di non rispettare la comunità LGBT e, nello stesso tempo, mancargli di rispetto? Come si può criticare qualcuno per i suoi atteggiamenti non cristiani e, nello stesso tempo, assumere gli stessi atteggiamenti non cristiani?
Questo può non essere gradito a chi si sente cacciato e umiliato dalla Chiesa, ma rispettare le persone con cui non si è d’accordo non è solo un modo cristiano di comportarsi: è una buona strategia anche dal punto di vista umano. Se desiderate sinceramente influenzare il punto di vista della Chiesa sulle questioni LGBT è utile guadagnarsi la fiducia della gerarchia e l’unico modo di farlo è rispettarla, un modo che mette d’accordo il comportamento cristiano e la semplice saggezza.
Compassione: in che modo si può mostrare compassione alla gerarchia?
Prima di tutto, ricordiamo la definizione di compassione: “vivere con, o soffrire con”. Questo include conoscere la vita degli altri, quindi la compassione verso la Chiesa istituzionale include una comprensione reale e sentita della vita di chi esercita l’autorità. Nella mia vita da sacerdote gesuita ho incontrato molti cardinali, arcivescovi e vescovi. Alcuni di loro li considero miei amici. Tutti quelli che ho incontrato sono persone gentili, grandi lavoratori, uomini di preghiera; molti di loro sono stati disponibili verso di me e sono fedeli figli della Chiesa che cercano di portare avanti il ministero per il quale sono stati ordinati.
Oggigiorno, in aggiunta al normale “triplo ministero” che consiste nel “insegnare, governare e santificare” (ovvero insegnare il Vangelo, dirigere la diocesi e celebrare i sacramenti), i vescovi hanno questi compiti: a) affrontare le ricadute finanziarie, legali ed emotive degli abusi sessuali del clero, casi con cui di solito i vescovi non hanno nulla a che fare; b) coprire le parrocchie mentre le vocazioni calano rapidamente; c) decidere quali parrocchie e scuole chiudere o rafforzare per affrontare le pretese emotive e le proteste furiose, i picchetti e i sit-in di fedeli, vicini, studenti ed ex alunni; d) aiutare a raccogliere il denaro per quasi tutti gli istituti della diocesi, incluse le scuole, gli ospedali, le case di riposo per i sacerdoti e le iniziative caritative; ed e) rispondere alle proteste di fedeli furiosi che riversano nelle cancellerie delle diocesi lettere su qualsiasi argomento possiate immaginare, compresi presunti abusi liturgici durante la Messa, commenti non graditi fatti dai sacerdoti durante l’omelia, articoli non graditi nel foglio diocesano e persino un fedele che riceve un premio da un gruppo che a qualcuno non piace.
La compassione porta il nostro cuore a giudicare con una certa equità, il che significa capire che almeno alcuni leader della nostra Chiesa lottano o hanno lottato con se stessi: magari sono omosessuali che da giovani sono stati torturati dal medesimo odio che la maggior parte dei giovani LGBT sperimenta sulla propria pelle e che sono entrati in un mondo religioso che sembrava assicurare loro un po’ di sicurezza e di privacy. Questa non è certo l’unica ragione per cui sono entrati nella vita consacrata, ma sicuramente è stato un fattore di attrazione: una certa privacy, un modo di servire Dio con sincerità senza dover ammettere la propria sessualità. Alcuni di loro possono aver conservato una certa visione dell’omosessualità, anche se negli ultimi decenni la verità sull’identità gay è divenuta poco a poco più comprensibile e un fardello meno terrificante con cui vivere. Questa è la vita di molti uomini che hanno sofferto degli effetti dell’odio verso gay e lesbiche, soprattutto l’odio che era normale decenni fa, e di non essere stati capaci di ammettere quella parte profonda di se stessi. Perciò, invito i cattolici e le cattoliche LGBT ad essere empatici e pregare per questi nostri fratelli, anche se il loro passato può talvolta indurli a comportarsi da nemici. Invito a guardare a questi vescovi nella loro umanità e nella loro complessità e a riflettere sul grande carico del loro ministero. Provare a fare questo è compassione.
Molte persone LGBT ritengono che la Chiesa istituzionale, nella persona di alcuni sacerdoti e vescovi, li abbia perseguitati e vedono questi uomini come loro nemici o, come minimo, come persone che non le capiscono. Purtroppo alcuni vescovi, sacerdoti e diaconi hanno effettivamente detto e fatto cose piene di ignoranza, odio e volontà di ferire, ma io credo che questi atti siano espressione di una minoranza della gerarchia, pur essendo questa minoranza stata molto potente nella Chiesa fino a poco tempo fa; ma il vento che poco a poco sta cambiando, il papato di Francesco e gli atti di altri prelati stanno guarendo alcune di quelle ferite.
In che modo si può rispondere cristianamente se si prova ostilità verso certi prelati? A mo’ di suggerimento, vorrei raccontarvi una storia. Avevo 27 anni quando dissi ai miei genitori che stavo per intraprendere il cammino gesuita. Sbattei loro in faccia questa notizia senza nessun preavviso, anzi, non avevo nemmeno detto che ci stavo pensando. Non c’è da sorprendersi che fossero confusi e ben poco contenti, perché pensavano che la mia decisione fosse avventata. Ma anch’io ero confuso e ben poco contento, perché mi chiedevo: come fanno a non capire ciò che sto facendo? Perché non riescono a comprendermi? Per tutta risposta, il mio direttore spirituale mi disse: “Jim, tu hai avuto ventisette anni per abituarti all’idea, e poi gliel’hai sbattuta in faccia all’improvviso. Devi dare loro tempo”. È cosa tutt’altro che facile, e non voglio porre un velo sulle sofferenze che molte persone LGBT hanno subito dalla Chiesa, ma mi chiedo se la comunità LGBT non debba dare tempo alla Chiesa istituzionale: il tempo di conoscervi. Una comunità LGBT aperta e visibile è cosa del tutto nuova, anche per me. Il mondo sta solamente cominciando a conoscervi, e così la Chiesa. So che è pesante da sopportare, ma non è strano: ci vuole tempo per conoscere le persone. Perciò, la comunità LGBT potrebbe forse donare la sua pazienza alla Chiesa istituzionale. L’altra risposta cristiana, se tutto questo non dovesse bastare, se per voi certi prelati sono comunque dei nemici, consiste nel pregare per loro. E non sono io che lo dico: lo dice Gesù.
Sensibilità: torniamo a questa bella parola. Possiamo usarla nel senso di non denigrare i vescovi e la gerarchia, e non sarebbe semplicemente umana cortesia, bensì carità cristiana.
Vorrei però usare questa parola in un altro senso: vorrei invitare la comunità LGBT a ponderare più attentamente chi sta parlando e come sta parlando. Noi cattolici crediamo che l’autorità dell’insegnamento, nella nostra Chiesa, consista in vari livelli. Non tutti i consacrati parlano con lo stesso livello di autorità. Il modo più semplice di spiegarlo è dire che quanto dice il Papa in un’enciclica non ha lo stesso livello di autorità dell’omelia del vostro parroco. Esistono vari livelli di autorità del Magistero: prima i Vangelo, poi i Concili della Chiesa, poi i pronunciamenti papali, che non hanno tutti il medesimo livello di autorità: in alto stanno le costituzioni o encicliche, indirizzate alla Chiesa universale, poi le lettere apostoliche e i motu proprio, poi le omelie e i discorsi ordinari, e così via. È importante essere sensibili a questo. Ci sono anche i documenti dei Sinodi e delle congregazioni vaticane, poi, a livello locale, i documenti emanati dalle conferenze episcopali e dai vescovi locali. Ognuno di essi ha un diverso livello di autorità; vanno tutti letti in spirito di preghiera, ma è importante capire che la loro autorità non è la stessa. E naturalmente la gerarchia non è l’unico gruppo che parla con autorità: anche la santità ha la sua autorità. I santi e le sante che non fanno parte della gerarchia, come santa Teresa di Calcutta, e i santi laici come Dorothy Day e Jean Vanier, parlano tutti e tutte con autorità.
Siate poi attenti nel valutare quanto i media generalisti spacciano come “insegnamento della Chiesa”. Qualche settimana fa ho letto il titolo “Il Vaticano al clero: ’Non fate omelie più lunghe di otto minuti’” e ho pensato “Il Vaticano?”. Poi, quando ho letto attentamente l’articolo, ho scoperto una cosa diversa: non era altro che un singolo vescovo che dava un suggerimento. Il titolo era falso, il “Vaticano” non c’entrava nulla. Quindi, valutate attentamente. Vi invito poi ad essere sensibili al fatto che, quando qualcuno a Roma parla, che sia il Papa o una congregazione vaticana, sta parlando al mondo intero, non solo all’Occidente e ovviamente non solo agli Stati Uniti. Un’affermazione che da noi sembra banale può essere scioccante in America Latina o in Africa. A questo proposito, sono rimasto deluso dalla reazione di alcuni cattolici LGBT statunitensi all’Amoris Laetitia (La gioia dell’amore), l’esortazione apostolica sulla vita famigliare. In questo documento il Papa dice: “Desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita” (n° 250). Prima di ogni altra cosa, dice il Papa, le persone LGBT dovrebbero essere trattate con dignità. È un’affermazione immensa e, se ci fate caso, da nessuna parte dice cose come “disordine oggettivo”; tuttavia, alcuni cattolici e cattoliche LGBT di questo Paese hanno liquidato queste righe al grido di “Non è abbastanza!”.
Forse in Occidente queste parole sembrano insufficienti, ma il Papa non scrive solamente per l’Occidente, tanto meno per i soli Stati Uniti. Immaginate di leggere queste parole in un Paese dove la violenza verso le persone LGBT è pane quotidiano e la Chiesa rimane in silenzio. Ciò che è blando negli Stati Uniti, in altre parti del mondo è incendiario. Ciò che è ovvio per un vescovo di un certo Paese, per un altro è una sfida esplicita, potente e minacciosa. Ciò che alle persone LGBT di un certo Paese sembra arido, in un altro Paese è acqua fresca in un torrido deserto. Perciò, sono molti i modi in cui siamo chiamati ad essere sensibili.
Insieme sul ponte
Infine, invito sia la Chiesa istituzionale che la comunità LGBT a salire sul ponte dei reciproci “rispetto, compassione e sensibilità”. Forse non tutta la comunità LGBT gradisce sentirlo dire; è dura salire su questo ponte. E anche alcuni vescovi non gradiranno, perché nessuna delle due corsie del ponte è priva di ostacoli. Su questo ponte, come nella vita, ci sono dei pedaggi da pagare: costa vivere una vita di rispetto, compassione e sensibilità. Ma avere fiducia nel ponte vuol dire avere fiducia che un giorno ci si potrà andare avanti e indietro con facilità, che la gerarchia e la comunità LGBT sapranno incontrarsi, accompagnarsi e amarsi reciprocamente. Dio desidera l’unità perché vi sia la fiducia. Tutti e tutte siamo sul ponte, insieme, perché è ovvio che il ponte è la Chiesa. Dall’altra parte del ponte, per ciascun gruppo, ci saranno accoglienza, comunità e amore.
In conclusione, vorrei rivolgermi in particolare alla comunità LGBT. Nei tempi duri forse vi chiederete: cosa tiene in piedi il ponte? Cosa lo trattiene dal collassare sulle rocce aguzze? Cosa impedisce di annegare nelle acque pericolose che stanno al di sotto? Lo Spirito Santo, che sostiene la Chiesa e sostiene voi, perché voi siete amati figli e amate figlie di Dio e in virtù del vostro battesimo avete il medesimo diritto di stare nella Chiesa che hanno il Papa, il vostro vescovo oppure io. Naturalmente il ponte ha l’acciottolato sconnesso, alti dossi e profonde buche, perché la gente che compone la nostra Chiesa non è perfetta. Non siamo mai stati perfetti – chiedete a san Pietro – e non lo saremo mai. Siamo tutti imperfetti e lottiamo per fare del nostro meglio alla luce della nostra vocazione personale. Siamo tutti pellegrini sulla via, amati peccatori e amate peccatrici che seguono la chiamata sentita per la prima volta al battesimo e che continuano a sentire ogni giorno della loro vita. In breve, non siete soli. Milioni di vostri fratelli e vostre sorelle cattoliche vi accompagnano, assieme ai vostri vescovi, mentre viaggiate in maniera imperfetta, insieme, sul ponte. Soprattutto siamo in compagnia di Dio, il riconciliatore di tutti gli uomini e tutte le donne di buona volontà, architetto, costruttore e fondamento del ponte.
* I passi biblici sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme/CEI.
** James J. Martin, nato il 29 Dicembre 1960, è un sacerdote gesuita, scrittore e redattore della rivista dei gesuiti America ed ha all’attivo numerosi libri in cui affronta i temi posti dalla fede nella vita quotidiana. Vive negli Stati uniti in una Casa per Gesuiti nel cuore di Manhattan. Il 12 aprile 2017 il Papa lo ha nominato consulente Vaticano del Segretariato per le Comunicazioni .
Testo originale: James Martin, S.J.: We need to build a bridge between LGBT community and the Catholic Church.