Il Magistero e la vita. Fare luce sull’amore omosessuale
Intervista di Gimpaolo Petrucci a Gianni Geraci pubblicata su ADISTA Segni Nuovi n.6 del 17 febbraio 2024, pp.14-15
“Nella buona e nella cattiva sorte. Gli omosessuali cristiani e la scommessa di costruire una relazione per sempre” è l’ultima fatica di Gianni Geraci (fondatore dell’Associazione “Il Guado” di Milano, socio dell’associazione “La Tenda di Gionata”, storico animatore della galassia di gruppi di credenti Lgbtqi+ italiani), edita gratuitamente da “La Tenda di Gionata” – associazione nata in seno al Progetto Gionata su fede e omosessualità – e arricchita da una postfazione del teologo Andrea Grillo.
Attingendo alla storia e al patrimonio di riflessioni prodotte in ambito ecclesiale sul tema e sul significato dell’amore coniugale, e attingendo alla propria esperienza di vita, l’autore cerca di rispondere al quesito: «Si può riconoscere un valore coniugale all’esperienza che vivono molte coppie omosessuali?».
Il volume può essere scaricato gratuitamente in versione Pdf dal sito del Progetto Gionata. Oppure, se ne può richiedere una versione cartacea – ugualmente gratuita – all’indirizzo email tendadigionata@gmail.com . In occasione della pubblicazione del libro, Adista ha contattato l’autore, Gianni Geraci, per scambiare alcune impressioni.
Nel 1999 Giovanni Paolo II affermò che «è incongrua la pretesa di attribuire una realtà coniugale all’unione fra persone delio stesso sesso». Forte della tua esperienza, tu scrivi invece che «una relazione tra due persone dello stesso sesso non solo può essere una relazione coniugale, ma può durare per tutta la vita e andare anche oltre».
Nel dire che «è incongrua la pretesa di attribuire una realtà coniugale all’unione fra persone dello stesso sesso» Giovanni Paolo II partiva da due premesse che si sono rivelate sbagliate: la prima è che la condizione omosessuale debba «essere considerata come oggettivamente disordinata», come recita il documento del magistero a cui si fa ancora riferimento nella Chiesa cattolica quando si para di omosessualità (cfr. Homosexualitatis Problema, 3); la seconda è l’idea che nel comportamento omosessuale ci sia qualcosa di non naturale.
Queste due premesse sono state smentite man mano che le persone omosessuali sono uscite dall’anonimato e hanno iniziato a non nascondere le loro relazioni di coppia nella loro “banale” normalità. Ci si è così accorti che sono moltissime le coppie omosessuali che durano nel tempo e che non si fondano su un’attrazione narcisistica, ma che durano perché servono a rendere migliore la vita di chi ne fa parte e la vita delle persone che le frequentano.
Le premesse sbagliate, all’epoca, erano anche giustificate, perché noi omosessuali, quando ci rivolgevamo a un sacerdote, in genere gli raccontavamo una vita fatta di trasgressione, di solitudine e di sofferenza. Le cose, però, con il passare del tempo, sono cambiate e, quindi, se davvero la Chiesa vuole restare fedele ai principi che hanno ispirato i “no” di un tempo, deve capire che è arrivato il tempo dei “si”.
Ed è stata la stessa Congregazione per la Dottrina della Fede ad affermare che: «l’insegnamento sul “disordine oggettivo” dell’orientamento omosessuale fa riferimento al terzo livello, non infallibile, dell’insegnamento e che quindi può cambiare» (cfr. Nugent R., “Dichiarazione di padre Robert Nugent in risposta alla notificazione vaticana”, in Gramick J., Nugent R. Anime gay. Gli omosessuali e la Chiesa cattolica, Roma, 2003, p. 233).
Si tratta in sostanza di prendere atto di quanto, qualche anno prima, aveva dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità quando aveva definito l’omosessualità «una variante naturale del comportamento umano».
E se un papa che vive nella solitudine dei palazzi apostolici è parzialmente giustificato quando non si rende conto di certi cambiamenti, le persone che incontrano ormai tutti i giorni delle coppie omosessuali sono molto meno giustificate quando negano l’evidenza di tante esperienze in cui, per dirla con un’espressione usata da Giovanni Paolo II nel discorso di cui parli, l’amore è «un impegno che si assume con un preciso atto di volontà che lo qualifica e lo rende amor coniugalis».
La Dichiarazione della Congregazione della Dottrina della Fede (CDF) Fiducia supplicans è stata accolta dai diversi episcopati in maniera non sempre felice. E, sebbene apra alle benedizioni delle coppie omosessuali, mette tanti paletti e tanti distinguo per ribadire che le relazioni omosessuali restano sempre di “serie B”… Un passo avanti o la solita storia?
Di sicuro Fiducia supplicans è un passo avanti rispetto a un altro responsum, scritto poco meno di due anni fa, nel quale lo stesso Dicastero affermava che «la Chiesa non dispone, né può disporre, del potere di benedire unioni di persone dello stesso sesso». La CDF non teneva conto allora del fatto che una benedizione non si nega a nessuno (come dimostra la prassi con cui, al termine delle celebrazioni liturgiche, il celebrante benedice tutti i presenti, senza dire prima: “Se c’è qualche coppia omosessuale è pregata di uscire prima della benedizione!”).
Fiducia supplicans rappresenta allora un passo avanti che cerca, allo stesso tempo, di tranquillizzare i cattolici che hanno paura dell’omosessualità e pensano con terrore all’ipotesi di un’analogia tra l’esperienza delle coppie omosessuali e quella delle coppie eterosessuali che si sposano. Le reazioni di alcuni episcopati, d’altra parte, possono essere comprensibili, perché in molti Paesi del mondo è considerata assurda l’idea che nell’omosessualità ci sia qualcosa di positivo.
È giusto tener conto delle difficoltà di questi episcopati a benedire relazioni omosessuali, ma allo stesso modo credo sia altrettanto necessario tener conto delle opposte difficoltà di altri episcopati che, in società più libere ed egualitarie, vogliono andare incontro alla richiesta di benedizione che viene da molte coppie dello stesso sesso. Una Chiesa davvero “cattolica”, cioè universale, deve accettare le differenze tra i vari Paesi e rispettare entrambe le sensibilità.
Nel libro parli del concetto di “generatività”, a partire dalla Genesi. Generare non significa solo “fare figli” ma anche vivere relazioni capaci di generare “vita” fuori da esse: una sorta di generatività non biologica che si manifesta nella cura degli altri, del bene comune, del pianeta…
Il secondo racconto della Creazione, quello di Genesi 2, su questo punto è molto chiaro. Dio dà all’uomo un aiuto che gli sia simile nel coltivare e nei custodire il giardino in cui lo aveva posto. Qui l’espressione «crescete e moltiplicatevi» non c’è più, mentre vengono sottolineati il compiti di curare il creato e di essere «una sola carne». Anche i termini sono diversi da quelli utilizzati da Genesi 1, proprio perché all’autore interessa molto di più sottolineare ciò che hanno in comune l’uomo e la donna (non a caso li indica con lo stesso termine declinato al maschile e al femminile).
Nell’udienza generale del 17 dicembre scorso, papa Francesco ha detto che la castità è una «virtù che non va confusa con l’astinenza sessuale» e va piuttosto intesa come «volontà di non possedere mai l’altro. Amare è rispettare l’altro, ricercare la sua felicità». Nel libro parli di “castità” in maniera simile, contrapponendola alla continenza.
Nel libro utilizzo un’espressione felice di don Leandro Rossi che, alla fine degli anni Novanta, parlando sul tema “Quale castità per le persone omosessuali?”, aveva affermato che «castità significa mettere il sesso al servizio dell’amore». Purtroppo, quando si parla di sessualità, nella Chiesa, spesso ci si rifiuta di volare in alto e si riduce la castità all’astinenza sessuale. Da questo punto di vista credo che la precisazione di papa Francesco, anche se non dice niente di nuovo, è stata particolarmente utile e particolarmente felice.
Il rifiuto dell’inclusione delle relazioni omosessuali in quelle coniugali sembra, dunque, il riverbero di incrostazioni antiche e pregiudizi culturali nella tradizione cattolica più che il frutto di una seria e approfondita ricerca teologica.
A partire da fine anni Ottanta, nella Chiesa ci si è rifiutati di prendere atto di quello che emergeva nelle società occidentali: che la vita di molte coppie omosessuali, cioè, non poteva essere associata né a un vizio né a una malattia. Questo ha portato al paradosso: da un lato, alcuni moralisti attenti alla realtà arrivavano a dire che l’esperienza delle coppie omosessuali non poteva essere condannata a priori (per es. Enrico Chiavacci, Giannino Piana, Leandro Rossi); dall’altro, il magistero cattolico si chiudeva sempre di più all’ipotesi di qualunque riconoscimento di quanto di buono c’è in queste coppie.
Conosco preti che, in quegli anni, non osavano pubblicare niente sull’argomento, perché avevano paura di mettersi nei guai. L’avvento di papa Francesco non ha certamente cambiato la dottrina, ma ha portato a un clima nuovo, in cui chi fa teologia su certi argomenti ha iniziato a sentirsi più libero e ha iniziato a cercare delle risposte all’esigenza di aggiornare la prassi ecclesiale tenendo conto di quello che adesso sappiamo e che quarant’anni fa non sapevamo ancora.