Il matrimonio gay in Irlanda, sconfitta per l’umanità o per una dottrina sorda?
Articolo di Ludovica Eugenio pubblicato su Adista Notizie n. 21 del 6 Giugno 2015, pp.4-5
Con il 62,1% dei voti l’Irlanda ha detto “sì” al matrimonio omosessuale – contro un 37,9% di “no” – ponendosi così a fianco di altri 21 Paesi nel mondo ((Danimarca, Olanda, Belgio, Spagna, Francia, Canada, Sudafrica, Norvegia, Svezia, Slovenia, Portogallo, Inghilterra, Galles, Islanda, Argentina, Uruguay, Nuova Zelanda, Finlandia, Messico, Brasile e Usa, in 38 Stati) ma anche più avanti di essi, essendo finora l’unico ad averlo fatto tramite una consultazione popolare, nonché il più veloce, se si pensa che fino a 20 anni fa l’omosessualità era un reato penale.
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Card. Parolin: «Una sconfitta per l’umanità»
Drastica, come è noto, la reazione del segretario di Stato card. Pietro Parolin, che ha definito il passo non solo una «sconfitta per i principi cristiani» ma «una sconfitta per l’umanità» (espressione con cui, nel 2013, papa Francesco definì la guerra): «Sono rimasto molto triste di questo risultato, la Chiesa deve tener conto di questa realtà ma nel senso di rafforzare il suo impegno per l’evangelizzazione».
Paradossalmente più diplomatico il presidente della Cei card. Angelo Bagnasco, che in una intervista a Repubblica ha sostenuto la necessità di un dialogo «sereno, senza ideologie», riconoscendo che il voto espresso in Irlanda «pone interrogativi sulla nostra capacità di trasmettere alle nuove generazioni i valori in cui crediamo, capaci di un dialogo che tenga conto della concreta situazione delle persone». Sulla stessa linea il segretario della Cei mons. Nunzio Galantino: «La risposta non può essere quella dell’arroccamento fatto di paure e di arroganza né quella dell’accettazione acritica, frutto di una sorta di fatalismo né di chi batte in ritirata», ha detto in un’intervista Radio Anch’io (26/5). «La percentuale con cui è passato – ha commentato – ci obbliga un po’ tutti a prendere atto che l’Europa, e non solo l’Europa, sta vivendo un’accelerazione del processo di secolarizzazione che coinvolge tutti gli aspetti e quindi anche quello delle relazioni». Si tratta, dunque, di «una sfida da raccogliere per la Chiesa».
Da citare per dovere di cronaca il commento astioso dell’immancabile ultraconservatore card. Raymond Burke, ora cappellano dei Cavalieri di Malta. Con il suo “sì”, ha detto, l’Irlanda è andata oltre il paganesimo e ha «sfidato Dio»; già, perché se «i pagani avrebbero potuto tollerare il comportamento omosessuale, non avrebbero mai osato definirlo matrimonio».
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Card. Martin: bisogno «di un bagno di realtà»
In Irlanda i commenti sono stati più sfumati, più realisti e consapevoli della situazione: l’arcivescovo di Dublino card. Diarmuid Martin, in un’intervista con la Stampa (24/5), ha detto che il voto riflette «una rivoluzione culturale» di cui bisogna rintracciare l’origine e che costituisce «un cambiamento notevole i cui effetti concreti sono imprevedibili»: «Il matrimonio in chiesa è anche un matrimonio civile e le coppie gay che se lo vedranno rifiutare dal parroco potrebbero ricorrere ai giudici accusandoci di discriminazione se il legislatore non mette dei limiti. Nelle scuole cattoliche gli insegnanti di educazione civica saranno obbligati a dire che il matrimonio è anche tra persone dello stesso sesso. Tutto questo creerà problemi». «È chiarissimo – ha aggiunto – che se questo referendum è un’affermazione delle opinioni dei giovani, la Chiesa ha davanti a sé una grande sfida, quella di trovare il linguaggio per parlare e diffondere il suo messaggio ai giovani, non solo su questo tema ma in generale»: «Penso che la Chiesa abbia bisogno di un bagno di realtà per capire le aree in cui stiamo agendo bene e vedere se ci siamo completamente allontanati dai giovani».
Ma soprattutto, Martin ha riconosciuto che la nuova opzione legalizzata può essere per gay e lesbiche «arricchente quanto il loro modo di vivere». Molto critici sulla campagna per il “no” portata avanti dai vescovi sono i fondatori dell’Association of Catholic Priests, p. Brendan Hoban e p. Tony Flannery. «Fin dall’inizio era chiaro – scrive il primo sull’Irish Times – che la decisione dei vescovi di promuovere un secco “no” avrebbe alienato anche i cattolici più conservatori»; è una Chiesa «fuori sincrono con i bisogni delle persone».
Si è trattato di un errore non solo politico ma anche pastorale, aggiunge Flannery: «I giorni del cattolicesimo dottrinali sono finiti, in questo Paese. La gente non vuole più ascoltare discorsi e sermoni sulla morale dalla Chiesa». E la necessità di un dialogo con la gerarchia della Chiesa è molto avvertita dagli stessi gay cattolici irlandesi: «Come gay cattolici – ha detto Dave Donnellan, segretario dell’associazione Gay Catholic Voice of Ireland – la profonda gioia si è macchiata di delusione per l’opposizione della nostra Chiesa. Se il “bagno di realtà” di cui ha parlato di Diarmuid Martin non comporta il sedersi a dialogare con i cattolici Lgbt nella propria diocesi, ha ben poco valore».
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I cattolici sono più avanti della gerarchia
La stampa internazionale si spinge più in là nell’analisi del voto. Frank Bruni sul New York Times (27/5) ha osservato che in realtà i movimenti cattolici sono stati nel mondo tra i maggiori promotori dell’uguaglianza Lgbt: «Non stanno abbandonando il loro cattolicesimo – ha commentato – non esattamente, non del tutto. Una stragrande maggioranza di essi si identifica ancora come cattolico. Ma stanno incorporando la religione nella loro vita in un modo meno radicato in Roma.
Noi giornalisti spesso usiamo “Chiesa cattolica” come sinonimo del papa, dei cardinali e degli insegnamenti che hanno l’approvazione del Vaticano. Ma in Europa e nelle Americhe soprattutto la Chiesa è molto più fluida di così. Accoglie persone inclini ad obbedire in primo luogo alla loro coscienza, al loro senso della giustizia sociale. Questo impulso e questa tradizione sono cattolici quanto gli altri».
Mentre il mondo va avanti, la Chiesa si prepara con una certa inquietudine al Sinodo che proprio su questi temi è chiamato ad esprimersi. Quasi contestualmente al referendum irlandese, il 25 maggio si è svolta presso la Pontificia Università Gregoriana una giornata di studio a porte quasi chiuse (ammesso solo un gruppo selezionato di una cinquantina di partecipanti) riguardo alle innovazioni pastorali che il Sinodo dovrà affrontare, guidata dai presidenti delle Conferenze episcopali di Francia, Svizzera e Germania, tra i Paesi dove i cattolici si sono maggiormente espressi a favore di una riforma pastorale: l’arcivescovo mons. Georges Pontier, mons. Markus Büchel e il card. Reinhard Marx.
Durante la giornata, i partecipanti avrebbero discusso della «necessità di sviluppare la dottrina della Chiesa sulla sessualità, facendo appello alla elaborazione di una “teologia dell’amore”», secondo quanto riporta il National Catholic Register. D’altronde non sono un mistero le posizioni del card. Marx a proposito dell’omosessualità: nel corso dell’omelia di Pentecoste, il 24 maggio scorso, ha fatto appello ad una «cultura dell’accoglienza» nei confronti degli omosessuali, affermando che «non sono le differenze che contano, quanto ciò che ci unisce».