Il mio coming out e la parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32)
Riflessioni bibliche di David K. Popham pubblicate su The Bible In Drag (Stati Uniti) il 17 Giugno 2011, liberamente tradotte da Silvia Lanzi
“(Gesù) disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano…” (Luca 15: 11-13) Così inizia la bella parabola del figliol prodigo. Questa parabola rivela le relazioni familiari nel bel mezzo della perdita, della pena, del perdono e della ricomposizione.
Sussultiamo per i danni dell’arroganza, piangiamo nel momento, molto umile, nel quale il figliol prodigo “rientra in sé”, gioisce per la riconciliazione di cui ha fatto esperienza e riflette sulla gelosia del fratello più vecchio. Questa parabola è un must perché ci identifichiamo con la sua tristezza e ci rallegriamo della sua speranza. Phyllis Tribble ha coniato l’espressione “testi del terrore” per identificare quelle scritture usate come giustificazione al fine di trattare le donne come oggetto di minor valore dell’uomo.
I gay hanno ugualmente a che fare con ben noti testi del terrore: Sodoma e Gomorra, il codice del Levitico, le argomentazioni di Paolo nell’apertura della Lettera ai Romani.
Questa parabola del figliol prodigo, con tutta la sua bellezza e la sua sensibilità, è per me un testo del terrore. Quando mi sono dichiarato la mia famiglia mi ha dato, ovviamente, il ruolo del figliol prodigo. Sfortunatamente ho accettato il ruolo assimilando la mia omosessualità alla terra straniera della parabola. Una terra sconosciuta e paventata dai miei genitori, da mio fratello e dalle mie sorelle.
Mi sono anche convinto che il problema della distanza e dello strappo con la mia famiglia avesse in me le sue cause, come illustra la parabola del figliol prodigo.
Il peggior danno di questo testo era la falsa speranza che dava alla mia famiglia. Come dei buoni cristiani hanno aspettato pazientemente e hanno pregato con fervore che un giorno “rientrassi in me”. L’ironia è stata che era proprio il fatto che fossi tornato in me che li ha spinti considerarmi un “figlio perduto”. (…) . Accettare la mia omosessualità non mi ha messo tra gli stranieri come un marziano di seconda classe. Al contrario ho iniziato a sentirmi a casa, e a rendermi conto che, dopo tutto, non ero un marziano. Lungi dal desiderare la terra (promessa) della conformità eterosessuale, sono grato per una pienezza che non avevo mai provato.
Ancora, con grande devozione, la mia famiglia si è assunta il ruolo del padre ferito che ama il peccatore ma odia il peccato. La parabola mi ha dato una gran pena finché mi sono accorta che era stata applicata in modo sbagliato. Le persone omosessuali non sono e non possono essere il figliol prodigo. Non abbiamo lasciato la nostra casa, l’abbiamo invece trovata. Se si deve interpretare in modo giusto questa parabola, dobbiamo capire che il nostro ruolo è quello del genitore.
Siamo noi quelli che aspettiamo pazientemente, guardando ogni tanto la strada, per vedere un segno che i nostri famigliari sono ritornati in sé e sono tornati dalla terra straniera dell’intolleranza.
Questo testo ci dà l’esempio del perdono che possiamo dare: non un perdono paternale del tipo “se mi avessi dato retta”, ma un perdono dato dalla pura gioia che deriva da una riconciliazione autentica.
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Testo originale: Queer Prodigal (Luke 15:11-13)