Il mito di Joséphine Baker tra sogno e impegno per i diritti
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Articolo di Giacomo Tessaro* pubblicato sul blog di Arcigay Rainbow Valsesia-Vercelli-Biella il 20 dicembre 2014
Personalmente un mito come Joséphine Baker mi era totalmente sconosciuto. Non mi vergogno più di tanto a dirlo: il mondo della musica e dello spettacolo offre così tanto “materiale” per i gusti più disparati, la storia di queste discipline è così ricca che per forza uno come me, non musicista, non performer e non specialista, si perde qualcosa. Dopo alcune esitazioni (pensavo che la serata si tenesse in un locale, occasione quindi di apericena estranea al mio gusto) ho accettato l’invito dell’Arcigay ad assistere alla serata musicale creata da Maria Olivero (la seconda scoperta musicale della serata; per quanto riguarda il sottoscritto, naturalmente!) in occasione della “Giornata Internazionale dei Diritti Umani”: lo spettacolo sarà un’occasione per sensibilizzare il pubblico alla questione del lavoro minorile.
Non appena mi incontro con la Presidente Anita per andare a Novara, mi viene proposto di essere parte attiva del recital: alcune persone del pubblico hanno l’incarico di leggere, dal palco, la traduzione italiana dei testi in inglese delle canzoni originali di Maria e del suo gruppo. Non ho mai pensato di “fare teatro” nel vero senso della parola ma, visto che so leggere ad alta voce in maniera più che dignitosa, ho deciso di buttarmi anche in questa esperienza, chissà che non porti frutto. Il nostro contributo si estende fino a portare in macchina con noi la musicista Giulia Riboli e la sua voluminosa attrezzatura da thereminista.
Il luogo dove si svolge il recital è una scuola media statale buia, sita in una via periferica piuttosto buia anch’essa: l’unica luce che vediamo viene dalla palestra della scuola, dove stanno giocando a pallavolo. I musicisti si esibiranno in un auditorium che sembra anch’esso una specie di palestra con i gradoni per il pubblico, privo di riscaldamento per incuria del preside, ma il tutto paradossalmente contribuisce a rassicurarmi, a caricarmi e a farmi godere lo spettacolo come non mi succedeva da un pezzo.
Osservo la preparazione degli artisti e l’arrivo del pubblico, tra cui amici e simpatizzanti di Arcigay “Rainbow”. L’ambiente è freddo, ma ha un che di intimo: forse il fatto che non siamo in un grande teatro contribuisce alla mia impressione di recita in famiglia. Io e Anita cerchiamo di prepararci alla nostra parte, ci diciamo che dobbiamo imparare a memoria i testi ma in realtà ci limitiamo a leggere e rileggere in silenzio, distratti dai nostri pensieri e dalla gente che entra e si muove sul palco.
Mi chiedo come si svolgerà il recital, cosa accadrà sul palco, che musica verrà suonata, in che modo dovremo entrare in scena noi lettori. Ci viene detto solo che in qualche modo verremo chiamati a recitare il nostro brano, mentre io e Anita concordiamo con le altre due lettrici i testi che toccano a ciascuno. Poi le luci finalmente si spengono, ma l’attesa dell’inizio non mi è pesata per nulla.
Il recital scorre tra le foto di Joséphine Baker proiettate sullo sfondo e il racconto della sua vita fatto dallo scrittore Luca De Antonis, autore del libro da cui lo spettacolo è stato tratto. Finalmente ho l’occasione di saperne di più su un personaggio qualche volta incrociato, ma sempre ignorato: la rivista musicale, se così tecnicamente si può chiamare quella di Joséphine, è un mare a me ignoto, salvo qualche sprazzo qui e là letto sui libri, molto raramente visto in TV o a teatro. La mia passione per le biografie mi fa godere più che mai del racconto, ma sulle prime sono convinto che le canzoni cantate dal gruppo siano rielaborazioni dei successi di Joséphine e non pezzi originali ispirati alla sua vita.
Noi lettori, ognuno al suo turno, assolviamo egregiamente alla nostra parte: per me è un’occasione in più di collaborare con qualcosa di importante. Oltre che dal racconto mi lascio trasportare dalla musica, di pretta marca cantautorale, diversa da quello che forse mi aspettavo, di cui non avevo un chiaro concetto: una rivista musicale, appunto. Apprezzo molto la poesia dei testi e l’accompagnamento musicale, essenziale e intimista, forse l’unico possibile per raccontare una vita, per quanto vissuta sulla ribalta dello spettacolo, come quella di Josephine. Il narratore, racconta una vita comune a quella di molti afroamericani di un secolo fa, ma temo anche di oggi: una famiglia che con quattro figli era piccola, un padre inesistente, il primo matrimonio a tredici anni, presto finito, lavori terribili e povertà. La luce nella vita di Joséphine è lo spettacolo: fin da giovanissima lavora con compagnie di vaudeville e cerca la sua strada sul palcoscenico.
Di città in città approda a Parigi con la sua compagnia: non lascerà più la Francia, la amerà fino al punto di collaborare con la Resistenza e di prendere la cittadinanza francese. Oltre a spendersi per gli ebrei in pericolo durante la guerra, cercherà di dare vita all’utopia della Famiglia Arcobaleno adottando diversi bambini provenienti da tutti gli angoli del mondo. Lo sforzo finanziario richiesto dalla Famiglia segna l’inizio del lungo declino: una Joséphine sempre più stanca calcherà i palcoscenici mondiali ancora per molti anni, fino a morire nella sua Parigi poco dopo l’ennesima esibizione. Forse nota a molti solamente per il gonnellino fatto di banane, Joséphine Baker prende vita nel racconto scarno e partecipato, nelle diapositive che raccontano la sua iconografia, nei testi e nella musica di Maria Olivero e del suo gruppo.
Alla fine, in occasione del bis, ecco anche noi lettori sul palco dietro al gruppo per le foto e l’applauso di rito. Un’occasione per osservare i musicisti in azione e sentirsi un po’ di più parte dello spettacolo e della magia della serata. Un’occasione anche per ribadire, con un cartellino rosso, il rifiuto del lavoro minorile in occasione della “Giornata Internazionale dei Diritti Umani”: quel lavoro minorile che Joséphine ha conosciuto bene, come la maggior parte del popolo afroamericano in tutta la storia d’America.
A giudicare dalle impressioni scambiateci durante il ritorno a casa, la serata ha fatto centro in chi ama la musica e ama passare una serata all’insegna del sogno e dell’impegno: due cose che non necessariamente sono in conflitto, come ci dimostra la vita di molti artisti.
* Giacomo Tessaro, nato nel 1980, ha cominciato a frequentare la Chiesa Valdese e Metodista nel 2008, dopo molti anni di adesione all’ateismo materialista e dopo una conversione alla fede in Dio maturata nelle sue letture di carattere religioso e filosofico. Sin dagli inizi della sua frequentazione protestante è stato incaricato della predicazione nella sua piccola comunità metodista di Vintebbio, in provincia di Vercelli, per la quale svolge anche compiti di cura pastorale. Ha la passione della scrittura e della traduzione e svolge l’attività di traduttore per il mensile Évangile et Liberté dal 2010, oltre che per il Progetto Gionata – Fede e omosessualità.