Il movimento omosessuale visto da Gianni Geraci: scoprirsi gay e cristiano negli anni ’80 e ‘90
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Intervista di Giacomo Vitali a Gianni Geraci del Guado, gruppo di cristiani omosessuali di Milano, , prima parte
La storia di Gianni Geraci, all’interno del movimento omosessuale italiano e in particolare nel panorama milanese, può offrirci uno sguardo unico sugli sviluppi della cultura e dell’associazionismo Lgbt negli anni ’80 e ’90, fino alle sue evoluzioni più recenti, anche grazie alla sua fede cattolica, ai conflitti, ai drammi e alle speranze vissute in un contesto, quello religioso, così apparentemente avulso dal movimento gay.
Gianni Geraci è un uomo di sessant’anni che vive con Luigi, il suo compagno, col quale si è unito civilmente due anni fa dopo una relazione iniziata nel 2003. Dopo essersi laureato in Statistica all’Università di Padova e avere lavorato come tecnico commerciale per una multinazionale di informatica, nel 1989 ha deciso di intraprendere il lavoro dei suoi sogni ed ha rilevato una libreria a Varese. Dopo averla venduta nel 2001, ha continuato a fare il libraio in Canton Ticino fino a quando, un anno fa, è andato in pensione.
Impegnato nella parrocchia di Porto Valtravaglia, ha fatto parte dell’Azione Cattolica e della Federazione Universitari Cattolici Italiani. Dopo essersi sottoposto a una terapia junghiana per modificare il suo orientamento sessuale, negli anni Novanta ha iniziato a impegnarsi prima nel movimento omosessuale, come membro del consiglio nazionale di Arcigay, e poi nel Guado, un gruppo di confronto su Fede e Omosessualità che opera a Milano. Tra il 1997 e il 2006 è stato portavoce del Coordinamento dei gruppi di omosessuali cristiani in Italia.
Che cos’è e cosa rappresenta per te la diversità? Quando inizi a porti le prime domande sulla tua diversità, ad interrogarti e a riflettere su di essa?
Sino alla fine dell’università non mi sono mai sentito “diverso”: sono cresciuto in un piccolo paese dove tutti i ragazzi avevano più o meno lo stesso percorso di vita. Quando, durante l’adolescenza, vivevo con disagio i continui riferimenti al sesso che caratterizzano i discorsi che vengono fatti tra i ragazzi di quell’età, ero convinto che la fonte di questo disagio non avesse niente a che fare con l’omosessualità, ma fosse il risultato del modo serio in cui prendevo le raccomandazioni che mi venivano dal mondo degli adulti e, più in particolare, dal mio parroco e dalle suore.
In sostanza, se avevo capito di non essere come gli altri, che facevano «discorsi sporchi», mi ero convinto – supportato in questo anche dagli educatori che incontravo in parrocchia – di essere migliore degli altri.
L’impegno nell’Azione Cattolica e nella FUCI era molto gratificante e, anche se mi ero accorto di essere omosessuale, ero convinto che il mio orientamento affettivo non avrebbe minimamente condizionato la mia vita, dal momento che pensavo di essere chiamato a una qualche forma di consacrazione.
Ho anche preso in considerazione l’idea di entrare in seminario, anche se subivo tantissimo il fascino di Giuseppe Lazzati, che faceva parte di un istituto secolare.
I conti con la mia omosessualità li ho dovuti fare durante il servizio militare dove, pur non avendo mai preso in considerazione l’idea di avere dei rapporti omosessuali, mi sono letteralmente “innamorato” di un mio commilitone.
Il fatto che la fine del servizio militare implicasse anche la fine della frequentazione assidua che c’era tra di noi, mi ha gettato in uno stato d’animo di profonda depressione: i miei vecchi amici dell’Azione Cattolica man mano che passavano gli anni si sposavano ed io iniziavo a sentirmi tremendamente solo e a pensare che la mia omosessualità, di cui ero ormai diventato consapevole, non potesse essere sublimata attraverso la consacrazione a Dio.
L’idea di parlarne con uno psicologo mi terrorizzava perché avevo paura che mi dicesse che ero sessualmente represso. Ne parlai allora con un sacerdote che mi ha messo in contatto con uno psicoterapeuta che sosteneva di essere in grado di modificare il mio orientamento sessuale.
La terapia è durata un anno ed è stata un fallimento: «lei non guarisce perché in realtà lei non vuole guarire» era arrivato a dirmi quando gli ho raccontato, dopo più di nove mesi di terapia, di aver avuto il mio primo “contatto” sessuale.
É stato partendo da quel rifiuto che, pian piano, ho sviluppato un profondo amore per la mia “diversità” e, più in generale, per tutte le diversità che attualmente considero “un dono”, “una grazia” e “un’opportunità”.
Insomma Gianni, i primi passi della tua maturazione e riflessione personale, compiuti nell’adolescenza, rivelano, pur nella difficoltà complessiva di quel periodo e nella sofferenza sperimentata in ambiente cattolico, il desiderio di capire, di approfondire e di dare un senso a questa tua diversità che, per così dire, “bussa” prepotentemente alla porta. Il servizio militare con il primo innamoramento e la terapia così detta “ripartiva” fallimentare, che non aveva e non ha nessuna base scientifica, rappresentano tuttavia una svolta nel tuo percorso di vita di auto accettazione e consapevolizzazione.
In questa “scoperta” della tua adolescenza quale ruolo hanno i media e soprattutto la stampa degli anni ’80 e ’90? Ti ricordi di riviste gay particolari o di “underground comix” italiani?
In questo percorso i media non hanno avuto un ruolo molto importante: l’omosessualità era considerata una trasgressione ed io rifiutavo qualunque forma di trasgressività. Anche nei confronti di alcuni personaggi dichiaratamente omosessuali mi scoprivo molto critico: in genere erano valutati positivamente dalla stampa di Sinistra di allora ed io, da attivista democristiano, non mi consideravo di Sinistra.
Sicuramente hanno avuto invece un ruolo cruciale i libri: non tanto quelli degli autori amati dagli ambienti omosessuali, come Pasolini, piuttosto che Testori; Busi o Tondelli, ma quelli che erano disprezzati dalla sottocultura gay.
In particolare sono stati fondamentali per me Carlo Coccioli e Julien Green due omosessuali che, partendo dal loro orientamento, avevano deciso di confrontarsi con il tema della trascendenza.
Negli anni Novanta, quando avevo ormai più di trent’anni, ho iniziato a comprare e a leggere Babilonia, l’unico periodico dichiaratamente omosessuale che c’era in Italia. Ed è stato attraverso Babilonia che ho conosciuto quella che potremmo definire la “sottocultura gay italiana”, in cui era presente anche la cultura underground americana.
Babilonia era un mensile, che viveva della pubblicità dei locali gay, in cui c’era un po’ di tutto: interviste a personaggi dello spettacolo che parlavano del loro rapporto con l’omosessualità; pettegolezzi sull’omosessualità di qualche vip; annunci per incontri o per relazioni; una guida agli incontri e agli appuntamenti che i locali gay organizzavano; reportage su quelle che erano considerate le mete turistiche “gay friendly” (da San Francisco a Mykonos, da Sitges alla Tunisia, da Londra a Rio de Janeiro).
Veniva dato molto spazio anche alla storia dell’omosessualità. Per alcuni anni c’è stata una rubrica di spiritualità, curata prima da don Goffredo Crema e poi dal sottoscritto. Naturalmente si parlava anche di politica, di AIDS, di pratiche sessuali varie e di diritti. C’erano alcune rubriche molto ben fatte dedicate alle malattie sessualmente trasmesse, ai libri, al cinema, al teatro e, negli ultimi tempi, anche ai fumetti.
Viveva principalmente della pubblicità che i locali gay facevano. “Babilonia” ha avuto il merito di aiutare gli omosessuali a sentirsi meno soli, più vicini tra di loro e parte di una comunità.