Il naufragio con Dio di una persona LGBT+. Il mio Yom Kippur
Testo* di Joy Ladin** pubblicato sul sito ebraico My Jewish Learning (Stati Uniti) l’11 settembre 2013, liberamente tradotto da Roberta Mondin-Smith, parte prima
Comunità, istituzioni, famiglie e amicizie creano un senso d’identità condivisa, un senso di “noi”. Dal momento che non esistono due persone identiche– non esistono due ebrei, o uomini gay, o lesbiche, o persone transgender, o ebrei ortodossi, o persino gemelli identici – quel senso d’identità condivisa si crea sempre a prescindere dalle nostre differenze, come quando la mia famiglia ha visto mia sorella come una di noi nonostante fosse l’unica bionda, con gli occhi azzurri e mancina.
Erano differenze futili, ma ci mettevano comunque in imbarazzo; i miei genitori se ne servivano per prendere in giro mia sorella, e quand’era piccola a volte piangeva, perché non voleva essere diversa. Voleva essere una di noi.
Capivo come si sentiva mia sorella. Pur avendo, esteriormente, l’aspetto che avrebbe dovuto avere un membro della mia famiglia, sapevo di essere diverso – diverso in un modo che temevo, se scoperto, mi avrebbe escluso definitivamente dalla mia famiglia, dalla comunità ebrea e, praticamente, dall’umanità. Il mio corpo era maschile, ma la mia identità di genere era femminile. Sembravo e cercavo di comportarmi come un ragazzo, ma il mio corpo e la mia identità maschile si sentivano profondamente, e in modo inquietante, sbagliati.
Sebbene prendessimo in giro mia sorella per le sue differenze, io e i miei genitori le consideravamo parte della normale gamma di variazioni umane. I miei genitori sapevano che anche tra gli ebrei ashkenaziti i bambini possono nascere biondi, con gli occhi azzurri e mancini. Ma sapevo che la mia differenza sarebbe stata incomprensibile per loro. Differenze come la mia non apparivano nei programmi TV o nei film, non se ne parlava a scuola, non venivano riconosciute da figure autoritarie che sembravano sempre rivolgersi ai bambini come “ragazzi e ragazze” e agli adulti come “signore e signori”.
Quand’ero ragazzo, negli anni ’60 e ’70, non c’era nemmeno un linguaggio per differenze come la mia. Il termine generico “transgender” non era ancora stato inventato; alcuni (pochissimi) medici si occupavano di “transessuali”, ma quella parola non era usata da nessuna persona nel mio circolo di conoscenze. Quindi, per quanto fossi bravo a comportarmi come uno di “noi” – un membro della mia famiglia, uno dei ragazzi, un ebreo – sapevo di essere diverso di una diversità di cui non si poteva parlare, che nessuno poteva capire.
Sono cresciuta nascondendo la mia vera identità alla mia famiglia, agli amici, all’umanità intera. Il mio travestimento ha funzionato. Nessuno sapeva chi fossi veramente. Ero al sicuro dal rifiuto, ma mi sentivo completamente sola, naufragata sull’isola deserta della mia differenza. Eppure il mio isolamento è arrivato con una consolazione. Ero sola, ma ero sola con Dio.
La mia differenza rispetto agli altri, il mio distacco da un’identità che sapevo non essere in verità la mia, la mia costante lotta con un corpo che mi tormentava e l’interminabile interrogarsi su chi e cosa fossi – tutte le cose che mi allontanavano dalle persone mi avvicinavano a Dio. Dio sapeva chi ero veramente, sapeva come mi sentivo, era sempre lì, giorno e notte, ad ascoltare la mia angoscia. Come me, Dio era qualcosa di diverso dall’umano, uno che non si assimilava, che non poteva essere visto o compreso.
Ho vissuto su quell’isola, naufraga con Dio, per più di quarant’anni, tutta la mia vita da uomo. La mia famiglia non era ortodossa. Non c’era attorno a me nessuna figura autorevole che mi dicesse che Dio non sarebbe stato vicino a qualcuno come me.
Leggevo regolarmente la Torah, quindi conoscevo il versetto del Deuteronomio in cui Mosè dichiara che Dio detesta gli uomini che indossano abiti femminili. Avevo alcune domande di tipo legale sul versetto: la legge si applicava anche al periodo in cui ero bambino? Si applicava a coloro che avevano corpi maschili e che si sentivano femminili? Ma sapevo che anche se Dio mi “disprezzava”, Dio era lì. Il disprezzo è una reazione viscerale. Se Dio mi “disprezza”, Dio deve essere molto vicino.
Questo aneddoto mostra che la mia identità LGBTQ, lungi dall’alienarmi, mi ha invece avvicinata a Dio. È una storia ebraica? una storia su un tipo di relazione con Dio riconosciuta nei testi sacri dell’ebraismo? Le identità LGBTQ tendono a essere pensate come un fenomeno secolare, contrario o semplicemente al di fuori della vita religiosa.
Ma sospetto che per molti ebrei LGBT e credenti, le nostre relazioni con Dio siano state profondamente modellate dal nostro orientamento sessuale o identità di genere, non perché essere gay o trans sia intrinsecamente spirituale, ma perché quando noi persone credenti lottiamo e ci confrontiamo con sofferenza, isolamento e fondamentali domande su chi siamo e come dovremmo vivere, tendiamo a inquadrare le nostre lotte in termini di relazioni con Dio.
Ma le relazioni con Dio che vengono modellate dall’identità LGBTQ, come il mio senso di naufragio con Dio, possono essere considerate ebraiche, oppure l’elemento LGBTQ rende tali relazioni e le esperienze di Dio che ne derivano, estranee al giudaismo e alla tradizione ebraica?
Per me, questa domanda trova risposta ogni pomeriggio di Yom Kippur, quando leggiamo la storia di Giona, un uomo che fugge il più lontano possibile dalla vita per cui è stato creato, e che si ritrova nel ventre di un pesce, naufrago con Dio .
Quel paradosso spirituale – la fuga dal vero io che conduce contemporaneamente verso la morte e l’intimità con Dio – è il significato essenziale del Libro di Giona. La fuga di Giona dal diventare la persona – il profeta – che Dio lo ha destinato ad essere è descritta non come peccato, ma come suicidio.
All’inizio, sembra che Giona stia semplicemente scappando, ma la narrazione chiarisce che il sonno di Giona durante la tempesta che spinge tutti gli altri a cercare freneticamente di salvare la nave in difficoltà non è un sonno normale, proprio come la tempesta non è una tempesta ordinaria.
Il sonno e la tempesta possono essere letti come metafore dello stato psicologico di Giona, suggerendo il sonno profondo della depressione in cui è sprofondato per sopportare e ignorare la crisi causata dalla fuga per non diventare il profeta che invece è. Quando i marinai lo svegliano e gli dicono di pregare il suo Dio di salvarli, Giona risponde non con la preghiera ma con un gesto autodistruttivo, dicendo ai marinai di gettarlo in mare.
Il suicidio di Giona sembra risolvere la crisi: la tempesta si placa e Giona, dopo essersi nobilmente sacrificato per il bene della comunità minacciata dalla sua presenza, sprofonda verso la morte, «negli abissi, nel cuore del mare» (2:3), lontano dal mondo umano di marinai, profeti, città e re, fino al fondo della catena alimentare, dove viene “inghiottito” da un pesce.
Ma più Giona si avvicina alla morte, più si avvicina al Dio da cui è fuggito. Mentre Giona affonda, Dio sceglie di salvarlo miracolosamente, trasformando quella che normalmente sarebbe una forma di morte (essere inghiottito) in un mezzo per far sopravvivere Giona negli abissi. Nel ventre della balena, Giona trova respiro, calore, protezione e si rende conto che Dio lo sta letteralmente avvolgendo, tenendolo in vita. Giona, disperato per non voler diventare ciò per cui Dio lo ha destinato, getta letteralmente via la vita per cui è stato creato per vivere in mare, e si ritrova a naufragare con Dio.
Sì, questa relazione con Dio – la relazione da naufraga a cui mi ha portato la mia identità transessuale repressa – è una relazione ebraica, una relazione immaginata dalla Torah ed evidenziata leggendo la storia di Giona nel pomeriggio di Yom Kippur.
Il riconoscerlo mi ha portato conforto durante i miei decenni di vita da uomo che sapevo essere una finzione. Sebbene mi sentissi tagliata fuori dalla comunità ebraica contemporanea che, temevo, non avrebbe mai accettato il mio vero io, il Libro di Giona mi ha ricordato che la mia vita faceva ancora parte della vita millenaria del popolo ebraico, che ero naufragata con Dio non solo come transessuale, ma come ebrea.
* Questo articolo di Joy Ladin è stato pubblicato per la prima volta nel settembre del 2013 sul sito dell’organizzazione Americana Keshet che, nell’introduzione, si definisce come “un’organizzazione nazionale che s’impegna per l’uguaglianza LGBTQ nella vita ebraica. L’organizzazione fornisce ai leader ebrei gli strumenti per costruire comunità che accettano le persone LGBTQ, crea spazi in cui gli adolescenti ebrei queer possono sentirsi apprezzati e sviluppare le proprie capacità di leadership e mobilita la comunità ebraica per lottare per l’uguaglianza giuridica delle persone LGBTQ. Il blog di Keshet mette in luce questo lavoro, così come le voci degli ebrei LGBTQ, delle nostre famiglie e dei nostri alleati”. L’articolo è tratto dal libro The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective, scritto da Joy Ladin e pubblicato nel 2017 da Brandeis University Press.
** Joy Ladin, autrice dell’articolo, è nata a Rochester nel 1961 in una famiglia ebrea non osservante. Joy cominciò a sentirsi a disagio nel suo corpo maschile fin dalla prima infanzia e all’età di 8 anni decise di “dedicare la propria vita a fingersi un ragazzo”. La repressione volontaria della sua vera personalità continuerà per altri quattro decenni, durante i quali Ladin si sposa, ha figli, riceve un dottorato di ricerca in letteratura americana a Princeton e comincia una carriera come professore all’università ebrea ortodossa Yeshiva di New York. Nel 2005, a 45 anni, Joy decide di iniziare il percorso di transizione che completerà nel 2007. Joy è stata la prima professoressa apertamente transgender a insegnare in un istituto ebraico ortodosso. Oltre al libro dal quale è tratto questo articolo, Joy ha pubblicato raccolte di poesie e l’autobiografia Through the Door of Life.
Testo originale: Shipwrecked with God