Il naufragio con Dio di una persona transgender. Il mio segno di Giona
Testo* di Joy Ladin** pubblicato sul sito ebraico My Jewish Learning (Stati Uniti) l’11 settembre 2013, liberamente tradotto da Roberta Mondin-Smith, parte seconda e ultima
Quando vivevo da uomo, la mia storia di vita, e la mia identificazione con quella di Giona, finivano nel profondo, nel ventre del personaggio maschile che adottavo per non diventare me stessa.
Per me, come suggerisce questa poesia, il libro di Giona non parlava di liberazione, gratitudine e teshuva [pentimento], ma del conforto che trovavo nella disperazione:
Lettera a Giona
Deve essere accogliente lì, nel ventre della balena. La balena sa che non sei la fine del suo mondo, il suo enorme cuore batte intatto nel buio.
Dio riverbera silenziosamente dentro di te,
un salmo che canti mentre ti dissolvi nei suoi succhi gastrici.
La dissoluzione è più sicura per tutti gli interessati piuttosto che diventare quello che sono.
E non sei davvero più vicina a Dio, lì nel ventre della balena, mentre ti dissolvi in gratitudine e krill in una storia che raccontano i marinai di un uomo che dormì durante una tempesta mortale
e quando lo svegliarono per pregare
disse: “Gettatemi in mare.”
Come il Giona che immagino in questa poesia, ero così disperatamente fissata nell’idea di evitare di diventare la persona per cui ero stata creata che ero felice di scegliere la morte invece della vita, la disperazione invece della speranza, l’isolamento invece dell’umanità. Anche in mezzo alla famiglia e agli amici, ero sola in fondo all’oceano.
Era accogliente laggiù e, sebbene fossi infelice, ero al sicuro dal rifiuto: nessuno tranne Dio sapeva o poteva toccarmi. Ero sola, dolorosamente sola, ma Dio era lì, mi circondava, mi custodiva, mi teneva in vita; anche se cercavo di dissolvermi nelle profondità di quell’oscurità, mi aggrappavo al Dio che mi sosteneva, al Dio che mi sosteneva e non mi lasciava mai andare.
Nella Torah, Giona risponde alla liberazione di Dio con gratitudine che ispira teshuva: passa dalla morte alla vita, dalla fuga al confrontarsi con la vita per la quale Dio lo ha creato.
Quando il pesce lo vomita a riva, Giona vince la sua riluttanza a presentarsi pubblicamente come un profeta (uno di quei pazzi che sconvolgono la pace della comunità, attirano su di sé un’attenzione sconveniente e chiedono alle persone di mettere in discussione le norme e i valori sociali dei quali la maggior parte di loro sembra abbastanza soddisfatta) e si dirige a Ninive.
Il Giona post-balena non è perfetto. È arrabbiato fino alla fine del libro, e sembra sempre più preoccupato per se stesso piuttosto che per Dio o per gli altri.
Ma la gratitudine di Giona verso Dio per la sua salvezza lo spinge a rischiare di vivere una vita in cui è apertamente e palesemente diverso da coloro che lo circondano: una vita in cui è fedele a se stesso, fedele a Dio e fedele, anche se a malincuore, al suo dovere verso l’umanità.
A differenza di Giona, non ho risposto alla presenza salvifica di Dio né con gratitudine né con teshuva, ma mettendomi a mio agio nel profondo della disperazione. Dio non voleva che vivessi, mi dissi.
Per il bene della mia famiglia, Dio voleva che nascondessi per sempre il mio vero io. A condizione che io – con il mio vero ‘io’ – non fossi mai emersa, nessuno sarebbe stato ferito dalla verità sul figlio, marito, padre che amava.
Ecco cosa significa amare, mi dicevo: fingere di essere ciò che gli altri vogliono che io sia. Soffrire in silenzio. Vivere nella miseria e nella paura.
Dio mi aveva resa transessuale in modo che potessi sacrificarmi per gli altri, mi aveva formata nel grembo materno e mi aveva sostenuta attraverso l’angoscia e la disperazione in modo che potessi essere quello che ho sentito chiamare “Divine roadkill” [una carcassa divina], il danno collaterale di un piano divino che non dovevo capire.
Non capivo e ancora non capisco il disegno di Dio né per l’umanità, né per me in particolare. Ma pensare a me stessa come una carcassa divina – non come un essere umano, ma come qualcosa che esisteva solo per soddisfare le aspettative degli altri – mi rendeva impossibile servire Dio con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e con tutte le mie forze. In effetti, vivere nel ventre della disperazione rendeva assolutamente difficile servire Dio.
Definire la mia vita come una carcassa divina non solo ha obliterato la mia percezione della mia umanità, ma ha diffamato il Dio che mi ha creato, negando l’amore di Dio per me.
L’amore di Dio mi ha formata nel grembo materno, mi ha nutrita, mi ha sostenuta, mi ha fatta crescere. Mentre mi rannicchiavo nelle profondità della disperazione suicida e dell’odio per me stessa, avrebbe dovuto essere chiaro per me che se Dio non mi avesse amata, non avrei potuto sopravvivere nemmeno un istante.
Questo è ciò che Giona realizza nel ventre della balena: che esiste perché Dio vuole che esista, che nonostante la sua fuga da Dio, e dalla vita nella quale Dio lo ha creato per vivere, l’amore di Dio era così grande che lo ha letteralmente tenuto in vita nell’abisso del mare, trasformando quello che normalmente sarebbe un luogo di morte in una bolla di liberazione.
Come Giona sul fondo dell’oceano, galleggiavo in mezzo alla morte, preservata dalla bolla dell’amore di Dio. Ma a differenza di Giona, sebbene sentissi la presenza di Dio, non riuscivo a sentire l’amore di Dio, perché odiavo ciò per cui Dio mi aveva creata.
Non ero semplicemente fuggita dal diventare il mio vero io perché avevo paura di ferire la mia famiglia, i miei amici, studenti e colleghi, o perché avevo paura del loro rifiuto. Avevo interiorizzato l’odio della mia cultura per la mia differenza. “Interiorizzato” è un modo elegante per dire che non solo sapevo che la mia cultura odiava le persone come me, ma partecipavo a quell’odio: mi odiavo per essere diversa.
Dio poteva preservare la mia vita in mezzo agli acidi che dissolvevano l’anima nell’amarezza e nella disperazione suicida, ma finché mi odiavo per essere come che Dio mi aveva creata, sebbene potessi sentire la presenza di Dio, non potevo sentire il suo amore.
Dio mantenne in vita Giona negli abissi per un giorno o due. Dio mi ha tenuta lì in vita per decenni, ma non ero grata a Dio per aver preservato una vita che desideravo finisse – e lo desideravo con tutto il mio cuore, tutta la mia anima e tutte le mie forze.
Ogni anno, quando il corno di Elul cominciava a suonare, mi ricordava fino a che punto ero caduta in basso. Ma qualunque cosa avessi giurato durante i giorni della meraviglia, sapevo che avrei continuato a vivere come la sagoma di un uomo ritagliata dal cartone, giorno dopo giorno e anno dopo anno.
Dio poteva tenermi in vita nelle profondità, ma nemmeno Dio poteva liberarmi da loro, fintantoché non facessi teshuva, come la fece Giona, dedicandomi a vivere la vita per la quale Dio mi ha creata.
Naturalmente, nonostante la sua redenzione e teshuva, Giona non era entusiasta della vita per la quale Dio lo aveva creato. Come chiarisce verso la fine del libro, non voleva comunque andare a Ninive, e pensava ancora che il recitare la parte del profeta fosse una perdita di tempo.
Non volevo essere fissata, trattata come motivo di imbarazzo o una minaccia pubblica. Non volevo mettere nessuno a disagio, sfidare o cambiare l’ordine sociale. Non volevo essere una transessuale, un questo/quella, un altro. Volevo solo vivere come una donna.
Ma Dio non mi ha dato questa opzione: potevo continuare a nascondermi, naufragata con Dio nella fredda e ammuffita oscurità della mia persona maschile, oppure potevo diventare me stessa.
Ma perché Dio dovrebbe darmi una tale scelta? Potevo immaginare il male causato dall’essere fedele a me stessa – chi sarebbe stato ferito, chi mi avrebbe ferito – ma che bene poteva venire dal rivelare che ero diversa?
Giona avrebbe capito il mio dilemma. Anche se è pronto e capace di mettere in discussione i propositi di Dio, Giona non capisce mai perché Dio ha bisogno che lui viva pubblicamente come il profeta che in effetti è. Dio non sarà altrettanto misericordioso senza di lui? È una domanda ragionevole, ma proprio alla fine del libro, Dio suggerisce che la riluttante ma coraggiosa profezia pubblica di Giona è una parte necessaria del processo di teshuva e redenzione.
Forse questo è il messaggio finale del libro di Giona: che anche se non sappiamo perché, Dio vuole che noi diventiamo il nostro io più vero e completo, non solo per il nostro bene – a Giona non sembra piacere essere un profeta, e vivere come una donna trans dichiarata ha sicuramente i suoi svantaggi – ma per il bene di coloro che ci circondano.
Essendo fedele a chi è e vivendo la vita per la quale Dio lo ha creato, Giona è in grado di ispirare teshuva anche nel popolo di Ninive, del quale Dio dice che “non distingue la mano destra dalla sinistra”. Non dobbiamo guardare lontano per scoprire la stessa dinamica nel nostro tempo, nella nostra stessa comunità.
Ho visto il rabbino Steve Greenberg, Miryam Kabakov e molti altri ispirare il cambiamento attraverso la loro apertura, il loro coraggio, la loro determinazione ad essere fedeli a se stessi e al Dio che li ha creati. In risposta al loro coinvolgimento e al loro esempio, intere comunità si sono impegnate nella teshuva, mettendo in discussione norme e presupposti che le hanno portate, nel passato, a intimidire, maltrattare ed esiliare i loro membri LGBTQ.
Anche se non siamo leader, visionari o profeti, vivendo la vita per la quale Dio ci ha creati invece di nasconderci nelle profondità della disperazione diventiamo esempi viventi del potere della teshuva, esemplifichiamo per coloro che ci circondano il fatto che non importa quanto possa sembrare spaventoso o quanto possa essere difficile: tutti possiamo diventare ciò per cui siamo stati creati.
Ogni relazione in cui siamo accettati per quello che siamo diventa una relazione più onesta e amorevole; ogni comunità in cui siamo accolti diventa una comunità più accogliente e amorevole.
Coloro che disperano di diventare chi sono veramente vedono le nostre vite come fari di speranza, opportunità, prova dell’amore di Dio che cambia la vita e sostiene l’anima. Questo è il tikkun olam [perfezionare il mondo] che facciamo quando noi, come Giona, mostriamo la nostra gratitudine al Dio che ci ha creati rimanendo fedeli a noi stessi.
Il Libro di Giona chiarisce che per quanto Giona si allontanasse dal suo popolo, Dio era con lui. Indipendentemente dal fatto che abbiamo o meno comunità ebraiche pronte ad accoglierci, Dio è con noi, sostenendoci e amandoci non ‘nonostante quello che siamo’, ma perché siamo quello che siamo. E ho fede – tremila anni di fede – che ovunque sia Dio, il giudaismo lo seguirà.
* Questo articolo di Joy Ladin è stato pubblicato per la prima volta nel settembre del 2013 sul sito dell’organizzazione Americana Keshet che, nell’introduzione, si definisce come “un’organizzazione nazionale che s’impegna per l’uguaglianza LGBTQ nella vita ebraica. L’organizzazione fornisce ai leader ebrei gli strumenti per costruire comunità che accettano le persone LGBTQ, crea spazi in cui gli adolescenti ebrei queer possono sentirsi apprezzati e sviluppare le proprie capacità di leadership e mobilita la comunità ebraica per lottare per l’uguaglianza giuridica delle persone LGBTQ. Il blog di Keshet mette in luce questo lavoro, così come le voci degli ebrei LGBTQ, delle nostre famiglie e dei nostri alleati”. L’articolo è tratto dal libro The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective, scritto da Joy Ladin e pubblicato nel 2017 da Brandeis University Press.
** Joy Ladin, autrice dell’articolo, è nata a Rochester nel 1961 in una famiglia ebrea non osservante. Joy cominciò a sentirsi a disagio nel suo corpo maschile fin dalla prima infanzia e all’età di 8 anni decise di “dedicare la propria vita a fingersi un ragazzo”. La repressione volontaria della sua vera personalità continuerà per altri quattro decenni, durante i quali Ladin si sposa, ha figli, riceve un dottorato di ricerca in letteratura americana a Princeton e comincia una carriera come professore all’università ebrea ortodossa Yeshiva di New York. Nel 2005, a 45 anni, Joy decide di iniziare il percorso di transizione che completerà nel 2007. Joy è stata la prima professoressa apertamente transgender a insegnare in un istituto ebraico ortodosso. Oltre al libro dal quale è tratto questo articolo, Joy ha pubblicato raccolte di poesie e l’autobiografia Through the Door of Life.
Testo originale: Shipwrecked with God