Il cinema italiano del nuovo millennio: una rivoluzione a metà
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Scheda di Luciano Ragusa distribuita all’incontro del cineforum del Guado il 10 Giugno 2016*
Il ventunesimo secolo si apre con la diffusione, in tutto il mondo, di un genere di programma televisivo in cui i protagonisti, persone sconosciute o personaggi noti, vengono chiamati a vivere situazioni non dettate da copioni precostituiti, ma come fosse la loro autentica quotidianità. Il Reality show, traducibile come “spettacolo della realtà“, invade i palinsesti del piccolo schermo e inchioda milioni di spettatori davanti alla televisione, anche in virtù di alcuni meccanismi con cui si decreta il vincitore del gioco collegato al programma (in genere sono i telespettatori a stabilirlo utilizzando il telefono o l’interattività permessa dai nuovi telecomandi).
Tra tutti i programmi di questo tipo vanno senz’altro ricordati Il grande fratello (andato in onda per la prima volta nel 2000 e ancora in circolazione) e L’isola dei famosi (in produzione dal 2003).
A questa implosione del reale e del sociale nella sua forma mediatico televisiva, vanno aggiunti, indipendentemente dai governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, i sistematici e continui tagli alla cultura che hanno messo in seria difficoltà tutto il mondo della realizzazione artistica, ivi compreso il cinema.
Viste le premesse, saremmo dunque tentati a concludere che la crisi descritta negli anni ottanta (cfr la scheda dedicata a questo argomento) e proseguita per una buona metà degli anni novanta (cfr anche in questo caso la relativa scheda) sia stato il sottofondo melmoso su cui costruire il cinema nel nuovo millennio.
Eppure, anche ad un occhio non troppo puntuale, risulta evidente che, nonostante tutto, qualcosa è cambiato: paradossalmente, il cinema italiano degli ultimi sedici anni, si configura come uno dei più interessanti al mondo. Forse proprio perché sotto attacco (sia dal punto di vista politico che dalla regressione sociale avvenuta in concomitanza della diffusione dei reality) i cineasti italiani, vecchi e nuovi, hanno ritrovato una rabbia, una nuova voglia di raccontare, un’indignazione, che in pochi altri paesi è possibile documentare.
Questo non significa naturalmente che il nostro cinema sia il migliore del mondo: permangono infatti forme di arretratezza tecnologica e produttiva, É però innegabile che nel computo tra virtù e difetti, tentativi di proiettarsi nel futuro e ritardi cronici, negli ultimi anni abbia prodotto pellicole in grado di mostrarci, nostro malgrado, scomode verità, soprattutto su ciò che siamo diventati. Questo funziona meglio quando il lungometraggio sfugge completamente alle logiche che vorrebbero controllare per intero i mezzi di comunicazione, con l’intento di ridurre al minimo l’impatto sociale che un racconto ‘dissonante‘ reca con sé.
I due esempi più importanti di questa logica sono Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone: il primo, nonostante la vittoria a Cannes nel 2008 e il buon successo al botteghino, non viene acquistato né trasmesso da nessuna rete generalista e verrà trasmesso in prima visione televisiva solo nel 2011 su LA7 all’interno di una trasmissione condotta da Enrico Mentana.
Più complicato è il caso di Gomorra, che ha avuto un’eco enorme anche grazie alla personalità di Roberto Saviano, autore del romanzo da cui è stato tratto. Siccome era impossibile fingere che non ci fosse la scelta di certi ambienti è stata quella di attaccarlo violentemente, come quando, il 16 aprile 2010, l’allora Presidente del consiglio Silvio Berlusconi è intervenuto sostenendo che Gomorra nuoce al prestigio internazionale dell’Italia e rovina l’immagine del paese. Per coloro che hanno buona memoria si tratta di parole molto simili a quelle che, tanti anni prima, aveva pronunciato Giulio Andreotti, il quale, nel dopoguerra, si era espresso con gli stessi termini nei confronti del cinema neorealista, invitando a lavare i panni sporchi in casa propria.
Se dunque è vero che, a partire dagli anni ottanta, vediamo progressivamente sottrarre al cinema italiano una parte della sua capacità di significare l’immaginario collettivo ( a vantaggio della televisione prima, e anche della rete successivamente) è altrettanto vero che la cinematografia italiana, dal 2000 in avanti, ha cercato di reagire a questo spoliazione ricandidandosi come arte privilegiata quando si vuole rappresentare il visivo, inteso sia come reale che surreale, concreto e astratto, irreale e documentaristico. Naturalmente la sfida è aperta, perché mai, come negli ultimi anni, l’immaginario e la sua rappresentazione offrono caratteri così mutevoli e sfuggenti, compresi i quali, il cinema, potrebbe dar vita ad una nuova rivoluzione visiva.
Concentrandoci invece sugli autori e sui film potremmo partire da Nanni Moretti, che: nel 2001 ha firmato La stanza del figlio (Palma d’oro alla 54° edizione del Festival del Cinema di Cannes); nel 2006 Il caimano; nel 2011 Habemus Papam e nel 2015 Mia madre.
A fianco di Moretti anche Pupi Avati e Marco Bellocchio hanno ritrovato, dal 2000 in poi, importanti risorse espressive. Del primo possiamo citare: I cavalieri che fecero l’impresa del 2001; La rivincita di Natale (2004); Il papà di Giovanna (2008) tutti premiati per l’ottima interpretazione fornita dagli attori che proponevano. Del secondo restano imperdibili: L’ora di religione, datato 2002; Buongiorno notte del 2003; Vincere, uscito nel 2009; Bella addormentata del 2012.
Non possiamo non citare altri grandi maestri che, negli ultimi quindici anni hanno lasciato segni indelebili della loro presenza: Mario Monicelli, che nel 2006 firma il suo ultimo lungometraggio Le rose del deserto; i fratelli Taviani che girano nel 2001 Resurrezione, nel 2007 La masseria delle allodole e, nel 2012, Cesare deve morire (che ha vinto il Festival del Cinema di Berlino e due David di Donatello); Ettore Scola ha girato un bellissimo film nel 2001: si tratta di Concorrenza sleale; Cristina Comencini, invece, nel 2005, ha girato La bestia nel cuore che aveva avuto una nomination all’Oscar come miglior film straniero; Ermanno Olmi ha firmato Il mestiere delle armi nel 2001, Centochiodi nel 2007 e Torneranno i prati nel 2014; Gabriele Salvatores, invece, nel 2000 ha proposto Denti, nel 2001 Amnésia, nel 2003 Io non ho paura, nel 2005 Quo vadis baby? e nel 2014 Il ragazzo invisibile; quanto a Giuseppe Tornatore vanno ricordati Maléna del 2000, La sconosciuta del 2006, Baaria (2009) e La miglior offerta del 2013.
Nel 2000 è invece uscito I cento passi di Marco Tullio Giordana che ha poi firmato, nel 2003, La meglio gioventù e Romanzo di una strage nel 2012. Daniele Lucchetti, che ha recentemente firmato il film Chiamatemi Francesco, il Papa della gente, nel 2003 aveva proposto al pubblico Dillo con parole mie, e nel 2007 Mio fratello è figlio unico.
Di Gianni Amelio, anche se personalmente credo che abbia dato il meglio di sé negli anni novanta, vanno ricordati: Le chiavi di casa, del 2004, La stella che non c’è del 2006 e il documentario del 2013 Felice chi è diverso, in cui 20 omosessuali, soprattutto negli anni trenta, raccontano alcuni episodi della loro giovinezza. Molto interessanti sono alcune commedie di Paolo Virzì che gira Tutta la vita davanti nel 2008, La prima cosa bella nel 2010 e, nel 2014, Il capitale umano (altro film da David di Donatello e Nastro d’Argento).
Per quanto concerne le nuove leve, cioè coloro i cui primi film sono arrivati in sala nel nuovo millennio i nomi più importanti sono senz’altro Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Del primo, oltre al già citato Il divo, vanno ricordati Le conseguenze dell’amore (2004), L’amico di famiglia (2006), La grande bellezza nel 2011 (premiato con l’Oscar come miglior film straniero) e Youth – La giovinezza, del 2015.
Di Garrone, invece, sono molto importanti L’imbalsamatore del 2002, il già citato Gomorra, Reality del 2012 e Il racconto dei racconti del 2015. Non vanno però dimenticati: Giorgio Diritti che nel 2009 ha girato L’uomo che verrà; Antonello Grimaldi, autore, nel 2008, di Caos calmo; Andrea Molaioli con La ragazza del lago (2007) e Il gioiellino (2011) e Francesco Rosi, con i pluripremiati Sacro GRA del 2013 e Fuocoammare del 2016.
Naturalmente la lista che ho appena proposto, come capita spesso quando si formulano liste del genere, può essere considerata arbitraria ed è sicuramente condizionata dai gusti personali e dai limiti che ciascuno ha. Forse ai registi e ai film che abbiamo elencato ne andrebbero aggiunti altri come: Romanzo criminale di Michele Placido (2005); L’amore ritrovato (2004) e La Passione (2010) di Carlo Mazzacurati; Noi credevamo (2010) e Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone. Ma anche in questo caso dimenticheremmo autori come Francesca Archibugi, Gabriele Muccino, Giovanni Veronesi, Fausto Brizzi, Giuseppe Piccioni, Saverio Costanzo, Pappi Corsicato solo per citare quelli che mi vengono in mente.
Il cinema gay: una rivoluzione a metà
Valutato lo stato di salute generale della cinematografia italiana del nuovo millennio, sorge spontanea la domanda se, tra i diversi generi e sottogeneri, quello LGBT sia riuscito a godere del clima favorevole che è stato segnalato. La risposta non è univoca, se da una lato, infatti, vanno evidenziati oggettivi miglioramenti, dall’altro persistono remore che lasciano un retrogusto amaro che, a volte, ha il sapore della rabbia.
Ma andiamo con ordine: l’8 luglio 2000, a Roma, World Gay Pride, la prima manifestazione LGBT che, in Italia, aveva visto sfilare centinaia di migliaia di persone dietro allo slogan “Nessuno mi può giudicare”.
Se si pensa che, fino ad allora, le associazioni omosessuali e transessuali non erano riuscite a portare in piazza più di qualche migliaio di persone, salta subito all’occhio la portata storica e mediatica di quell’appuntamento che, indipendentemente delle motivazioni che ne determinarono il successo (del resto facilmente reperibili per via delle polemiche che gli allarmi della Curia vaticana avevano alimentato), non solo cambiò la percezione che la società aveva di noi omosessuali, ma mutò anche la coscienza che le persone lesbiche, gay e transessuali avevano di se stesse; chi era presente (e io ero presente) si accorse immediatamente che non si poteva più tornare indietro, che il dado era tratto, che le nostre rivendicazioni sarebbero diventate centrali nel dibattito politico. Credo quindi che si possa tranquillamente affermare che il World Pride del 2000 abbia spinto, aiutato e costretto, il cinema italiano ad occuparsi delle nostre storie, anche in virtù di un conquistato retroterra di visibilità che ha consentito a cineasti ‘diversi’ di proporre certi soggetti.
Un’altro elemento, probabilmente ancora più importante, riguarda il processo di integrazione europea che ha avuto punto di non ritorno quando, il primo gennaio 2002, la moneta unica ha sostituito le divise dei singoli paesi che avevano aderito al progetto dell’Euro. Si tratta di un elemento importante perché la stessa Unione Europea afferma con decisione che tutti i cittadini, indipendentemente dall’origine, dalla nazionalità, dalla condizione sociale, dal credo religioso o dall’orientamento sessuale, hanno sempre e comunque gli stessi diritti. Già nel 1994 il Parlamento europeo approvava una risoluzione in cui si esortavano gli stati membri ad avere un occhio di riguardo sulla questione omosessuale (cfr. Risoluzione parità dei diritti degli omosessuali e delle lesbiche nella comunità europea, “Official Journal”, febbraio 1994).
Ma è del 16 marzo 2000 la risoluzione che chiede di «garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali» e del 4 settembre 2003 quella che aggiunge il diritto di accedere al matrimonio e all’istituto dell’adozione.
Al di là delle difficoltà che hanno incontrato (e tuttora incontrano) tutti i tentativi di adeguare le leggi italiane a queste raccomandazioni è innegabile che il confronto con le altre nazioni europee abbia portato, da un punto di vista cinematografico, ad avere più coraggio e una maggiore libertà nel parlare di tematiche che parlano del mondo LGBT. Non è poi da sottovalutare il ruolo che hanno avuto i tanti film (lungometraggi, corti e documentari) che da molte parti del mondo sono arrivati nelle nostre sale cinematografiche, o nei tanti festival che si celebrano ogni anno.
Per questo non è possibile stabilire nessun parallelismo tra ciò che è stato detto per i decennni precedenti e quello che, invece, è avvenuto dopo il 2000: basti pensare all’enorme quantità di film, di cortometraggi, di documentari che sono stati prodotti, un numero che di sicuro supera numericamente quella di tutti i prodotti simili proposti nei cinquant’anni precedenti.
Purtroppo (ed eccoci al retrogusto amaro di cui si è parlato prima) il solo aumento del numero di opere che hanno a cuore le tematiche LGBT non è stato sufficiente per avviare quella rivoluzione comunicativa che si poteva invece sparare: una serie di molteplici fattori (tra cui i cronici ritardi produttivi e distributivi che l’intero cinema italiano si porta appresso), l’incapacità di trovare fondi (che spinge gli autori a ripiegare troppo velocemente sul cortometraggio o sul documentario) e anche la scarsa qualità di molti film riducono sensibilmente l’euforia che sembrerebbe essere giustificata dall’oggettivo aumento del numero di opere. Molte di queste, tra l’altro, rimangono vincolate al mondo dei festival di genere, come quelli italiani di Torino o Milano, senza mai entrare in più ampi circuiti che consentirebbe loro di insinuarsi nel tessuto esistenziale dei possibili fruitori, etero e omo.
E così, delle oltre trecento opere a temantica LGBT che la cinematografia italiana ha prodotto nel nuovo millennio, non ci resta che segnalare quelle che sono riuscite a raggiungono uno standard qualitativo alto.
Matteo Garrone, già più volte citato, si è occupato, nel 2002, con il film L’imbalsamatore, di una storia molto particolare, realmente accaduta nel 1990. Un nano, la cui professione è quella del tassidermista (ovvero dell’imbalsamatore di animali), dopo aver conosciuto allo zoo un ragazzo molto attraente, lo convince a diventare suo assistente. La simpatia reciproca e la complicità fanno si che Peppino, l’imbalsamatore, si innamori del giovane, insegnandoli, macabramente, i segreti del suo lavoro.
Tra i due, però, si insinuano due elementi di disturbo: la collusione di Peppino con la camorra (che gli affida il compito di aprire e richiudere corpi per nascondere partite di droga) e l’arrivo di Deborah, una ragazza sbandata di cui Diego s’innamora. A pagare le tensioni generate da questi elementi sarà Diego, che viene assassinato da Peppino che non era disposto a sacrificarsi per dare ai due giovani la libertà di potersi amare liberamente.
Straordinario, in questo film, è il lavoro del regista sul paesaggio (Villaggio Coppola in provincia di Caserta), una sorta di non luogo spettrale e sospeso che crea disagio, rafforzato dalle nebbiose riprese fatte nella campagna cremonese. Sarà questo deserto dell’anima simbolico a condizionare tutta la vicenda, fino al tragico finale. Il film, nel 2003, ha vinto due Nastri d’argento (miglior produttore, miglior montaggio), due David di Donatello (miglior sceneggiatura, miglior attore non protagonista), due Globi d’oro (miglior attore rivelazione, miglior attrice esordiente).
Ispirato invece al romanzo di Remigio Zena è uscito nel 2010 La bocca del lupo, un docufilm diretto da Pietro Marcello: i protagonisti sono Enzo (immigrato a Genova per lavoro), e Mary, travestito che Enzo conosce in carcere e del quale, ricambiato, si innamora. In virtù delle differenti pene detentive, Mary, la prima ad uscire dal carcere, attenderà il suo amato per dieci anni vissuti nella città vecchia, con il sogno di una casetta in campagna sopra la città e il mare.
Si tratta di un film poetico, il cui montaggio creativo consente di mischiare sagacemente immagini d’epoca (la memoria storica di Enzo) e scene girate nel presente della periferia genovese che diventa così, tra reietti ed emarginati, lo sfondo lirico di un amore a lieto fine. Il film vince il premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica e il premio della città di Torino al Torino Film Festival del 2009. L’anno successivo è stato presentato al Festival di Berlino dove ha vinto il Premio Caligari e il Premio Teddy come miglior documentario.
Un terzo suggerimento riguarda infine Viola di mare, diretto nel 2009 da Donatella Maiorca e tratto a sua volta dal romanzo Minchia di re, di Giacomo Pilati. Il film racconta l’innamoramento che nasce tra Angela e di Sara, due donne cresciute nella seconda metà dell’Ottocento in Sicilia. Per via di questa passione subiranno sopraffazioni, ingiustizie sociali e soprusi, compreso un tentativo di cambiare anagraficamente il sesso di Angela per evitare lo scandalo agli occhi della società.
Le protagoniste, oppongono una irriducibile resistenza, così come è irriducibile il legame che le unisce e che, nel procedere della storia, è ora romantico, ora conflittuale, a volte tenero, altre colte duro. Il film ha vinto due premi al New Italian Film Festival nel 2009 (per la miglior pellicola e per la miglior attrice, Valeria Solarino, che di “Viola di mare” è protagonista nel ruolo di Angela).
Considerazioni finali
Eccoci quindi giunti all’ultimo atto di un viaggio, cominciato a gennaio e che ci ha portato a considerare, a partire dagli anni cinquanta e avanzando di decennio in decennio, le diverse modalità espressive per mezzo delle quali, il cinema italiano, ha mostrato e rappresentato personaggi omosessuali. Coscienti della duplice funzione che può avere la cinematografia (essere da un lato lo specchio della società e proporre, dall’altro, visioni nuove che creano dibattito) abbiamo sottolineato alcuni passaggi chiave che hanno modificato l’immaginario collettivo riguardo all’omosessualità.
Siamo partiti da pellicole di altissima qualità (come Germania anno zero o Roma città aperta di Rossellini) in cui i personaggi omosessuali utilizzano le proprie posizioni di potere per per irretire ignari cittadini nelle loro trame o per distruggere la società . Abbiamo notato come alcuni luoghi comuni, per esempio il maschio gay effeminato coinvolto faccende non virili, o la donna lesbica mascolina, siano facile preda di una rappresentazione che soffoca il vissuto delle persone omosessuali, negando loro qualsiasi valenza esistenziale. E ci siamo resi conto della grande fatica che il cinema italiano ha fatto per smarcarsi da simili approcci (che purtroppo non si sono ancora del tutto estinti).
Se dunque fino alla fine degli anni sessanta l’universo LGBT era relegato all’esperienza dell’abuso, della corruzione e del plagio (si veda la scheda di febbraio), qualcosa di nuovo compare nel decennio successivo, quando, oltre al coraggio e alla creatività che vanno riconosciute agli anni settanta, registi e rispettive pellicole, hanno dovuto fare i conti con il movimento omosessuale che stava diventando un interlocutore visibile e interessato (cfr. scheda di marzo). É di quegli anni, infatti. la nascita delle coppie omosessuali, ovvero l’uscita nelle sale di lungometraggi in cui due uomini o due donne condividono lo stesso spazio, facendosi carico del giudizio esterno e difendendo la centralità del loro rapporto all’interno della loro vita di relazione.
Naturalmente gli alti e bassi, nonché le cadute di stile, sono sempre dietro l’angolo. Il percorso storico critico ha infatti dimostrato che non c’è apertura lineare nei confronti del vissuto delle persone omosessuali e che non è corretto sostenere, per lo meno se ci riferisce al cinema, che ogni decennio abbassa il livello di omofobia che c’era in quello precedente. É ciò che abbiamo costatato parlando degli anni ottanta (cfr. scheda di aprile) quando, complice una crisi devastante nella produzione e distribuzione di pellicole italiane, si assiste ad un ritorno di fiamma in cui luoghi comuni mentre l’incubo dell’ AIDS insieme alla mancanza di coraggio dei cineasti riportano la narrazione visiva di lesbiche, gay e transessuali in un limbo poco lusinghiero.
Anche gli anni novanta presentano la stessa sonnolenza del decennio precedente, specialmente se ci si riferisce ai primi cinque anni. E tutto questo malgrado ci sia un aumento del numero di pellicole in cui sono presenti personaggi LGBT. In quel decennio, però, va registrato un fatto completamente nuovo (si veda la scheda di maggio), ovvero la presenza di registi che invitano al rispetto delle scelte d’amore di ciscuno invogliando lo spettatore a sospendere qualunque giudizio.
Sugli ultimi quindici anni, a cui è dedicata questa scheda, si possono aggiungere alcune considerazioni di carattere conclusivo: sebbene non si faccia fatica a trovare lungometraggi, film per la TV, soap opera all’italiana in cui sembra la presenza di personaggi appartenenti al mondo LGBT è addirittura scontata, il cinema italiano non è ancora stato in grado di produrre film di genere capaci di fissarsi nel tessuto emotivo del paese. A partire dagli anni ottanta, infatti, sia in Europa che nel Nord America sono stati prodotti film che hanno letteralmente rivoluzionato il modo d’intendere l’omosessualità o la transessualità. facilitando percorsi politici e istituzionali. In Italia, tutto questo, non è ancora cominciato: non esistono pellicole che abbiano fatto la differenza e che abbiano provocato modifiche nell’immaginario collettivo che, quando è cambiato, l’ha fatto sotto l’influsso di qualche film che non era italiano.
Nonostante il clima favorevole che, dal 2000 in poi, ha portato il cinema italiano ai fasti di un tempo, non possiamo parlare di film che abbiano realmente spaccato dei tabù culturali in tema di omosessualità. La prova è questa: se ci chiediamo quali sono i film a tematica gay a cui siamo più affezionati ci accorgeremmo probabilmente che nessuna pellicola italiana è presente nei primi posti della nostra ipotetica lista.
* Ecco la scheda conclusiva che Luciano Ragusa, il curatore del nostro cineforum del Guado, ha messo a punto per presentare il film proiettato il 10 Giugno 2016 per dare un’idea del cinema italiano a tematica omosessuale del nostro millennio e per tirare le somme della rassegna che ha presentato la sua storia a partire dal secondo dopoguerra.