Il papato problematico di Benedetto XVI. Le riflessioni di “Noi Siamo Chiesa”
Considerazioni di Vittorio Bellavite, portavoce di Noi Siamo Chiesa, del 28 febbraio 2013
Oggi Benedetto XVI termina il suo ministero di vescovo di Roma. Il movimento “Noi Siamo Chiesa” è pienamente partecipe di questo avvenimento, quasi inedito nella storia della cristianità, e ribadisce che ne apprezza fino in fondo il significato ecclesiale, teologico e storico mentre prende atto dell’ardimento personale del pontefice. E’ un passo coraggioso, per il bene della Chiesa, certamente malvisto da una parte dell’establishment ecclesiastico, sconcertato dall’evidente demitizzazione della “sacralità” del papato che esso implica.
Perplessità, invece, il nostro movimento esprime per il fatto, piuttosto curioso e poco comprensibile, che, fissando la sua residenza all’interno della Città del Vaticano – e non in un lontano monastero – il papa emerito obiettivamente, e al di là di ogni dichiarata intenzione contraria, potrebbe condizionare il suo successore, rendendogli più difficile fare delle scelte che contraddicessero le sue.
Ma, soprattutto, “Noi siamo Chiesa” non può non sottolineare che tutti i gravi e urgenti problemi che Ratzinger aveva ereditato da Giovanni Paolo II sono rimasti irrisolti e, anzi, si sono aggravati in presenza dei rapidi cambiamenti in corso nella Chiesa e nel mondo.
Ovviamente, sappiamo bene che solo un certo distacco storico permetterà di dare un giudizio più ponderato sul pontificato di Ratzinger. Dandone intanto una prima valutazione, esso sembra a noi segnato più da ombre che da luci. Infatti, le grandi questioni alle quali si trova ancora di fronte la gestione della Chiesa, e soprattutto il suo vertice, dipendono dalla mancanza, evidente nel pontificato ratzingeriano, di una riforma delle sue strutture e della sua pastorale, conseguenza di una accettazione ambigua e reticente del Concilio Vaticano II. E, per questi ritardi, Benedetto XVI ha precise responsabilità, come abbiamo sottolineato più volte, anche noi nel nostro piccolo, che cerchiamo di essere membri attivi di questa nostra Chiesa.
L’ottica eurocentrica del suo magistero, l’insistenza sul “relativismo” e sul rapporto fede/ragione si sono rivelati insufficienti o sbagliati se rapportati a un insegnamento che dovrebbe – secondo noi – mirare ad essere punto di riferimento generale per i popoli e per le culture di tutto il mondo. Anche le sue tre encicliche risentono di questa impostazione di fondo del suo magistero, seppure contengano importanti meditazioni ed esortazioni sulle questioni ultime della vita di fede. Anche il suo vistoso riavvicinamento agli USA, ai tempi di George Bush, e lo scarso impegno contro quelle guerre che Giovanni Paolo II bollava con parole energiche, sono l’espressione di una carente e dannosa sensibilità geopolitica che ruota sempre attorno alla sensibilità della cristianità occidentale ed europea in particolare.
Sotto il pontificato di Benedetto XVI l’ecumenismo ha segnato il passo, a causa della sua convinzione di chiamare “comunità ecclesiali” le Chiese della Riforma e per le occasioni perse con l’Ortodossia; lo stesso si dica del dialogo interreligioso, anche se bisogna riconoscere che è andato ad Assisi a ripetere il grande incontro delle religioni del 1986. Grave è stata l’attribuzione (fatta da un papa tedesco!), nella visita ad Auschwitz, dello scivolamento della Germania nel nazismo come dovuto a una semplice “banda di criminali”. Gli errori nella scelta delle persone (in particolare del Card. Bertone) si è unita alla incapacità, o alla mancanza di vera volontà riformatrice, nel governo della Curia. Ne sono seguiti i ben noti intollerabili scandali e un ulteriore impulso alla sua elefantiasi con l’istituzione dell’inutile Consiglio per la nuova Evangelizzazione.
Altre decisioni, espressione diretta di un suo personale orientamento conservatore, come l’apertura ai lefebvriani e la ripresa della liturgia in latino della messa di S. Pio V, hanno portato a esiti del tutto negativi, nonostante i tanti sforzi impiegati. L’”incidente” di Regensburg e quello della preghiera del Venerdì Santo sulla “illuminazione” di cui avrebbero bisogno gli ebrei sono stati recuperati tardi e faticosamente. Tutte le questioni relative ai ministeri ecclesiali e all’approccio alla sessualità, che sempre più frequentemente sono all’ordine del giorno nella Chiesa a tutti i livelli, sono rimasti non solo congelati ma anche banditi dalla discussione. Ugualmente sono continuati i precedenti interventi punitivi sui teologi ritenuti non ortodossi, e non solo su quelli della teologia della liberazione, limitando così l’utilità per la Chiesa di contributi indispensabili alla sua riforma.
Lo scandalo della pedofilia del clero è esploso dall’esterno e non per un percorso autocritico delle gerarchie ecclesiastiche, le quali invece hanno protetto tutto e dovunque finché hanno potuto. Benedetto XVI ha inviato alcuni messaggi e segnali nella direzione giusta ma c’è la consapevolezza diffusa che troppo è ancora “coperto”.
Mancano nella Chiesa autentici, chiari e generalizzati riti penitenziali. Stupisce, poi, che Benedetto XVI non abbia reagito nei confronti delle “Linee Guida” per combattere la pedofilia del clero emanate della Conferenza episcopale italiana, che non contemplano il dovere del vescovo di adire immediatamente i giudici civili.
Naturalmente, la valutazione del suo pontificato è comunque cosa complessa. A noi sembra che, insieme ai limiti e ai veri e propri orientamenti non condivisibili nella gestione della Chiesa, Joseph Ratzinger in tanti suoi discorsi abbia parlato in modo avvincente di Dio, del suo primato, della relatività di tutto di fronte al Mistero ineffabile e incombente. Nella Caritas in veritate (par. 78), per fare un esempio tra i tanti, ricorda che “l’amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo e ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti”. Ma, ci sembra di poter dire che proprio da chi afferma il primato di Dio ci si aspetta che – rispetto alla povertà, alla ricchezza e alla messa in discussione del potere – dovrebbe avere quell’audacia che non ha chi è abbracciato a valori mondani.
Per quanto riguarda l’apertura a qualche forma di collegialità, od anche solo di corresponsabilità, il pontificato di Ratzinger ha, se mai possibile, peggiorato la situazione. Tallonato da una Curia divisa e sotto il pugno di ferro di Bertone, il papa ha nominato i vescovi con scelte quasi sempre a senso unico e in modo sostanzialmente autocratico, negando spazio alla pluralità delle posizioni presenti nell’universo cattolico. In modo simile i Sinodi dei vescovi, sotto il suo pontificato, sono stati solo un momento di conoscenza reciproca e di discussione tra i vescovi ma hanno continuato a non avere alcuna funzione decisionale e tantomeno operativa nella gestione del centro della Chiesa. Così il ruolo del pontificato romano e della Curia romana è stato ulteriormente consolidato.
In questo scenario, la scelta di Benedetto XVI di dimettersi è stato, riteniamo, l’atto più innovativo del suo pontificato qualora però lo si viva, come noi cerchiamo di fare, come la desacralizzazione del ministero di Pietro e non come la desacralizzazione dell’uomo Joseph Ratzinger. Quest’ultima invece è l interpretazione accettata dalla Curia e dalla galassia dei tradizionalisti, e che pare emergere dalle stesse parole del pontefice. Ma ci può essere una eterogenesi dei fini e la sua rinuncia potrebbe sprigionare – questa la speranza – un cammino impegnativo di rinnovamento, ora e nel futuro, nel modo di essere e di organizzarsi della nostra Chiesa.
Perciò noi riteniamo – e lo ripetiamo con forza – che il Conclave dovrebbe porsi come primo problema quello di pensare a una organizzazione della Chiesa che preveda una nuova struttura di tipo sinodale con poteri deliberativi, abbandonando così l’attuale sterile Sinodo istituito da Paolo VI. Essa dovrebbe aprire il dibattito su tutte le grandi questioni aperte, decentrare funzioni e competenze alle Chiese locali, fare pulizia nell’apparato centrale della Chiesa e ridurne le dimensioni. Una struttura di questo tipo dovrebbe essere soprattutto l’espressione di tutto il popolo di Dio (compresi uomini e donne esterni al sistema clericale) tutta tesa a cercare di rendere credibile il messaggio dell’Evangelo. Il percorso da seguire ci sembra debba ispirarsi a quello tracciato dal Card. Martini nella sua ultima intervista.