Il pastore battista Volpe: “pregare per le vittime dell’omofobia è un doppio dovere”
Intervista al pastore battista Raffaele Volpe, presidente dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (Ucebi), 7 maggio 2013
Era il 2007 quando a Firenze il pastore battista Raffaele Volpe, su invito del gruppo di cristiani omosessuali Kairos e della pastora valdese Gianna Sciclone, presiedeva in un tempio valdese colmo di fedeli la prima veglia per le vittime dell’omofobia.
Iniziava così il lungo cammino di questa iniziativa ecumenica nata dal basso e nel segno dell’inclusività. Ripercorriamo con lui quei giorni passati e riscopriamo il senso di questa iniziativa di preghiera in questo tempo presente.
Pastore Volpe, ti va di presentarti raccontando ai nostri lettori il tuo cammino di vita e di fede?
Sono cresciuto in un quartiere popolare di un paesone del sud (Pozzuoli), dove impari a fare i conti, sin da ragazzo, con il degrado e la violenza. Ma fu proprio in quel quartiere, durante la fine degli anni settanta, quanto lungo le strade e lungo le vene dei giovani scorreva l’eroina, che incontrai la piccola chiesa battista. Lì ricucii, con l’aiuto del pastore Umberto Delle Donne, la mia vita con la mia fede. Strappo che si era prodotto dopo molti anni di una fede cattolica vuota e di facciata. Lì trovai la mia dimensione individuale, ma anche la gioia di un progetto che mi accomunava ad altre persone, un progetto di vita, che riguardava la giustizia e la pace, il mistero e la quotidianità, l’amore e l’accoglienza.
Ci racconti come hai scoperto le veglie per le vittime dell’omofobia. Cosa hanno suscitato in te quando vi hai partecipato (speranze, riflessioni, ricordi di eventi dolorosi, etc…)
Ho scoperto le veglie durante il mio pastorato nella chiesa battista di Firenze. Da diversi anni, sorelle e fratelli anche di altre confessioni, invitavano le chiese a non ripetere l’errore di sempre: tenere chiuse le porte al grido dell’oppresso e del discriminato.
In passato le porte sono state chiuse di fronte al grido degli schiavi. Poi sono rimaste chiuse di fronte al grido delle donne. E ora restano ancora chiuse di fronte al grido delle vittime dell’omofobia.
Noi abbiamo provato ad aprirle le porte delle chiese, e abbiamo fatto un’esperienza non solo commovente di fronte a storie e racconti di violenza, ma abbiamo anche sperimentato la fiducia e l’incoraggiamento che vengono dalla preghiera e dall’affidarsi a Dio.
Secondo te quale messaggio importante le veglie di preghiera per le vittime dell’omofobia lanciano a tutti i credenti delle nostre chiese…
Le chiese devono ricordarsi quanto potere vi è nella preghiera! E che pregare per le vittime dell’omofobia significa compiere il dovere che ci è stato affidato da Gesù. Anzi, un doppio dovere: pregare e farlo per chi è vittima. Questo doppio movimento della chiesa è un avvicinamento al crocifisso, la vittima per eccellenza che ha pregato sulla croce per i suoi persecutori.
Quali difficoltà hai incontrato come pastora quando hai proposto questa iniziativa alla tua comunità o alle comunità a te vicine.
Beh, a parte i portoni un po’ chiusi, debbo ammettere che le chiese, una volta superata la paura, hanno spalancato le porte. Bisogna ricordarsi di questo: all’inizio le chiese sono sempre restie, impaurite, preoccupate e hanno bisogno di qualcuno che li sproni, che non si sintonizzi sull’umore della chiesa, ma sull’umore dell’evangelo. E quanto questo succede, una chiesa risponde!
Secondo te le veglie hanno favorito un cambiamento nelle persone che hanno condiviso questo momento…
Senza dubbio! E non potrebbe essere altrimenti. Quando in una liturgia abbiamo rotto un vaso, abbiamo sentito nella pelle il peso della violenza che spezza le vite delle persone. Ma poi abbiamo reagito, e da ogni coccio abbiamo fatto una piccola piantina, con della terra e un fiore. E in questo gesto liturgico ci siamo sentiti trasformati e rafforzati.
Con quale speranza parteciperai alla veglie di quest’anno.
Con la speranza che si tenga la guardia alta. Bisogna essere felici del lungo percorso già fatto, ma bisogna continuare a tenere lo sguardo puntato in avanti e restare vigili. E quel che ci chiedono le vittime, di non lasciarle da sole.