Il Pride vi farà liberi. Vivere uno spazio queer
Riflessioni tratte dal blog Queering the Church (Inghilterra), 13 giugno 2011, liberamente tradotto da Claudia Barbarino
Giugno è il mese dell’orgoglio gay, un mese per ricordare a noi stessi come siamo giunti fin qui da quel giorno fatidico — 28 giugno 1969 — quando i clienti di Stonewall Inn, New York, decisero di mettere fine alle vessazioni da parte dal governo nei confronti dei gay. La loro coraggiosa iniziativa causò una serie di sommosse in cui molti videro la nascita del movimento per la liberazione degli omosessuali. Senza negare tutti i piccoli e grandi passi che erano già stati fatti prima, l’evento di Stonewall divenne significativo nel cammino verso la piena uguaglianza per il popolo LGBT.
Mi rendo conto che sussistono sentimenti confusi verso le attuali marce dell’orgoglio gay, specialmente in quei paesi dove i diritti degli omosessuali sono già affermati. Secondo la mia opinione, però, c’è ancora bisogno di tali eventi, anche a rischio di ghettizzare il movimento per i diritti dei gay e di rafforzare lo stereotipo del loro comportamento. Non si può dire che le questioni sull’omosessualità non riguardino tutto il mondo. Anzi, l’omofobia è ancora presente nella maggior parte dei paesi (anche nelle così dette società civilizzate). Una marcia dell’orgoglio gay è un valido — a volte, importante — modo per dire: siamo qui, abituatevi!
Mentre scrivevo il mio messaggio sulla vigilia della Pentecoste, mi balenò nella mente un pensiero cattivo: lo Spirito Santo è l’agente segreto che ispira la maggior parte degli omosessuali a insistere per la libertà che, come figli di Dio, ci appartiene. Per le creature incarnate, la libertà non è semplicemente una questione interiore (leggi: emozionale, psicologica, spirituale), per quanto questa sia importante. Noi incarniamo e simboleggiamo la nostra libertà anche attraverso il linguaggio dello “spazio”. Un brano del vangelo a cui mi piace ritornare ogni tanto è quello del quarto capitolo di Luca. Gesù si rifà ad un passo dell’Antico Testamento — dal libro del profeta Isaia — per annunciare la forma del suo ministero:
“Lo Spirito del Signore è in me, poiché Egli mi ha unto per portare la buona novella ai poveri. Egli mi ha mandato a proclamare la libertà ai prigionieri e il recupero della vista ai ciechi, a redimere gli oppressi, ad annuciare l’anno della grazia del Signore” (Luca 4,18:19 che cita Isaia 61,1:2).
In una società ossessionata da ciò che si possiede e da quanto si possiede, si tende a trascurare l’importanza dello spazio. In uno dei salmi attribuiti al Re Davide (Salmo 18, 20), l’autore descrive in termini spaziali l’intervento di Dio per liberarlo dai nemici: “Mi portò al largo; mi salvò perché mi ama“.
Noi gay, descrivendo i nostri primi passi verso la libertà come processo di ammissione dell’omosessualità, possiamo fare riferimento a quest’esperienza dello spazio: uno stanzino, un luogo buio e angusto dove siamo imprigionati sotto una falsa identità.
Ora, se seguite il treno dei miei pensieri, inizierete ad apprezzare l’importanza di vivere in uno spazio queer. Cosa voglio dire con questo? Allora, per cominciare, proprio ciò che ho appena detto riguardo al processo di rivelazione della propria omosessualità nella misura in cui ognuno è capace di farlo.
Avrebbe poco senso parlare di uno spazio queer se questo spazio dovesse essere nascosto, segreto, negato o quant’altro. Sarebbe ancora uno “spazio”, ma faremmo meglio a descriverlo come una prigione. D’altro canto, è da pazzi pensare che una volta che il processo di rivelazione è stato completato sia facile salpare. Vivere in uno spazio queer non significa semplicemente crearlo, ma anche curarlo. Io vivo uno spazio queer quando spendo almeno parte delle mie energie per creare un ambiente che mi permette di essere davvero me stesso, un luogo o dei luoghi dove posso seguire quegli interessi intrinsecamente legati al mio essere gay.
Perlomeno penso ad un posto e ad un tempo (la quarta dimensione dello spazio) dove essere queer non è un problema, dove l’eteronormatività e l’omofobia vengono chiuse fuori (o dentro, se preferite). Non è difficile riconoscere gli spazi queer — spazi in cui non abbiamo bisogno di decodificare l’ambiente, ma dove ci sentiamo subito a casa, sia che siamo soli sia che siamo in compagnia di altri, sia che stiamo pregando, cenando, chiacchierando o semplicemente ci stamo rilassando. Benché sia davvero importante salvaguardare questi spazi queer, possiamo anche essere chiamati a condividerli non soltanto con altri omosessuali, ma anche con le nostre famiglie e gli amici più stretti.
Questo è un atto di coraggio e di umiltà. La mia idea è che, quando cominciamo a sentirci bene con noi stessi — cioè viviamo pienamente i nostri spazi queer — allora la cosa più naturale da fare è condividere tale spazio con quelli che sono disposti ad accettarci così come siamo (anche non se non ci capiscono del tutto).
Per quelli tra noi più inclini alla spiritualità questa è una forma di evangelizzazione. Siamo testimoni della buona novella, cioè l’aver conosciuto Gesù e aver ricevuto il Suo amore nella nostra vita. Dopotutto, con molta probabilità, il nostro Dio è un Dio omosessuale, i cui pensieri non sono i nostri pensieri e le cui vie non sono le nostre vie (Isaia 55:8).
Vive la diversitée! Buon Gay Pride!
Testo originale: Inhabiting a queer space