Il ricchione si è sposato. Quando l’omofobia è in famiglia.
Testimonianza di Gianluca Tornese e Andrea Piscopo tenuta nella preghiera online della Settimana di preghiera per le vittime dell’omofobia e della transfobia del 14 maggio 2021
“Ricchione!”. Ho iniziato a comprendere di essere gay alle scuole medie, quando un compagno di classe per la prima di innumerevoli volte mi chiamò così: “ricchione”. Ero proprio naïf e non sapevo neanche cosa significasse, anche se la vena di insulto non mi era affatto sfuggita. Da bravo secchione andai a cercare il significato sul vocabolario e si aprì un mondo davanti a me.
Un compagno di classe aveva capito prima di me chi ero. Avrei dovuto proprio ringraziarlo, se non fosse che da lì in avanti la scuola diventò un incubo, un continuo nascondersi e fuggire dagli insulti e da quella che agli inizi degli anni ’90 in Salento i miei coetanei chiamavano “la massa”, ossia un gruppo di una decina di ragazzi che mi accerchiavano e mi menavano ogni volta che ce n’era la possibilità. Ci sarebbe stato solo da ridere, come dice qualcuno, no?
E invece il bambino sempre allegro e contento della vita delle scuole elementari si tramutò in un ragazzino sempre triste e che ingrassava a vista d’occhio. Nel mondo ideale avrei potuto confidarmi con i miei genitori e chiedere aiuto, ma il secchione che era in me aveva continuato le sue ricerche sulla “ricchionità” anche sui vari libri di chiesa che c’erano in casa, in particolare sul nuovissimo catechismo della chiesa cattolica, e aveva capito che era meglio stare zitto per non passare dalla padella alla brace.
La cosa peggiore – penso ora, a distanza di quasi 30 anni – è che lèggere quelle cose mi aveva fatto pensare che in fondo, se ero così schifoso, i miei compagni di classe avevano ragione ad insultarmi e a picchiarmi. Chissà poi da dove viene l’omofobia interiorizzata…
Comunque, ho sempre diligentemente evitato di parlarne con la mia religiosissima famiglia e appena ho finito il liceo ho deciso di continuare gli studi lontano da casa, per poter finalmente capire chi fossi davvero. Va da sé che quando si tace un aspetto così importante della vita, i rapporti non possono che essere superficiali, e questo in una famiglia viene amplificato ancora di più. Di cosa parlare – se non del tempo e del cibo – quando non si può dire chi si ama davvero?
Finiti gli studi e conclusa la fase di angoscia intitolata “se-i-miei-scoprono-che-sono-gay-mi-tagliano-i-viveri-e-non-riesco-a-laurearmi”, ho iniziato a pensare più seriamente alla possibilità di fare coming out con la mia famiglia.
E, mentre ci pensavo, ho scritto un romanzo dal titolo “Marito e marito” (Claudiana, 2012) nel quale il protagonista come me aveva sempre cercato di nascondere alla famiglia il proprio orientamento sessuale e poi aveva informato i genitori con una telefonata di essere finalmente convolato a giuste nozze… ma con un marito, appunto.
Le reazioni che ho immaginato per la famiglia del protagonista sono state esattamente quelle che poi ho sperimentato nel mio coming out reale: tutti contrari, mia madre in lacrime, mio padre un muro invalicabile, un fratello più aperto a farsi domande, l’altro completamente intransigente. Iniziò così la fase in cui hanno tentato di dissuadermi e di “convertirtmi”, a volte in maniera più aggressiva, altre in maniera più subdola, ma non meno devastante.
Ci sono voluti anni perché la mia famiglia cominciasse ad accogliermi semplicemente per ciò che ero e, paradossalmente, l’ultimo rigurgito di omofobia è stato proprio quando io e Andrea abbiamo annunciato che avremmo approfittato della nuova legge Cirinnà e ci saremmo sposati.
Non l’abbiamo fatto per telefono, ma siamo tornati appositamente per dirlo di persona e la loro reazione è stato un silenzio imbarazzante, seguìto nei giorni successivi da una serie di scuse per non essere presenti alla celebrazione. Ciò che con fatica avevano finalmente accettato nelle loro vite private, stava per essere portato sotto gli occhi di tutti, esposto al pubblico ludibrio.
Ma alla fine anche questo muro è stato abbattuto e quel giorno di fine maggio di 3 anni fa, i miei genitori, come quelli di Andrea, erano lì in prima fila il giorno della nostra unione civile, davanti a tutti, alla luce del sole; e, insieme a tutti gli altri familiari e amici presenti, ci hanno benedetti con la loro presenza e con le loro parole.
E – mi viene da credere – anche loro sono rimasti edificati dal vedere e sentire l’amore che ci ha circondato e ci circonda, e anche le ultimissime resistenze si sono definitivamente sciolte.
Concludo riciclando le parole coi cui si conclude il romanzo: “Pensavo che nulla è semplice nella vita. Proprio nulla. Anzi… Ma ciò che conta davvero è essere felici. Felici dentro, intimamente, intensamente. Perché se è così, nonostante la bufera, questa o qualsiasi altra, io mi sento felice e sicuro. Felice di essere me stesso, felice del mio lavoro, felice dei miei amici, e soprattutto felice di te”.
TESTO VEGLIA> Veglia vittime omotransfobia del 14 maggio 2021 (Pdf)