Il ruolo della Chiesa Cattolica nell’epidemia di AIDS degli anni ’80
Articolo di Michael J. O’Loughlin* pubblicato sul sito The Daily Beast (Stati Uniti) il 21 gennaio 2019, prima parte, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Nel 1987 una tipica giornata di suor Carol Baltosiewich consisteva nell’ascoltare molti racconti di rapporti sessuali gay. Suor Carol, che proviene dalla piccola città di Belleville, nell’Illinois, ricorda bene quel giorno in cui la misero in un salone di un ospedale a rispondere alle chiamate di newyorkesi nervosi; uno dopo l’altro, le voci spezzate dalla paura, le chiedevano quali atti sessuali li avrebbero messi a rischio di contrarre l’HIV.
Suor Carol cercava di mettere a proprio agio chi chiamava, ma era sempre più frustrata dalle sue scarse conoscenze e la sua incapacità di consolare, perciò se ne andò e tornò nel suo convento di Hell’s Kitchen, dove risiedeva con alcune consorelle, e si chiese cosa diavolo stesse facendo lì a New York.
In quell’anno già più di 40.000 Americani erano morti di AIDS e non si vedeva all’orizzonte alcuna cura medica adeguata. New York da sola contava quasi 10.000 morti e, alla fine del 1987, circa 6.100 persone convivevano con il virus.
L’epidemia fu un duro colpo per i gruppi sociali vulnerabili, ma lo fu soprattutto per i gay; il fatto che una suora cattolica stesse in prima linea per aiutare deve aver fatto sollevare più di un sopracciglio.
Durante l’acme dell’epidemia la gerarchia cattolica predicava il giudizio, non la misericordia (ed era contro il controllo delle nascite), rendendo ancora più asfissianti l’omofobia e l’ignoranza.
Il cardinale John O’Connor, l’arcivescovo conservatore di New York, si oppose alle iniziative in favore del sesso sicuro proposte dai medici: il motivo fu la condanna del condom da parte della Chiesa.
Il cardinale andò contro anche ad alcune misure anti-discriminazione, che avrebbero potuto essere un sollievo per i gay newyorkesi. La storia dell’epidemia di AIDS in America è inestricabilmente legata alla Chiesa Cattolica.
Storie come quella di suor Carol mostra come alcuni singoli individui abbiano nuotato testardamente controcorrente: come questa suora cattolica, proveniente da una piccola città, che si trasferisce nella metropoli e si butta nella vita gay, obbligando se stessa a confrontarsi con i suoi pregiudizi per imparare a servire il prossimo, anche se non è stata l’unica a farlo.
A Belleville suor Carol lavorava come infermiera a domicilio. Il suo primo incontro con l’AIDS fu attraverso una ex promessa della danza, che si era trasferita a New York per lavorare con il Joffrey Ballet, prima di tornare a casa per morire.
Suor Carol capì che, per aiutare i contagiati, doveva saperne di più su questa nuova malattia, così questa Suora Ospedaliera di San Francesco, assieme a una consorella, si trasferì a New York per sei mesi e andò a lavorare in due grandi ospedali cattolici, che ospitavano molti contagiati.
Una coppia gay che aveva incontrato in ospedale le disse che doveva comprendere la comunità che aveva deciso di servire, perciò suor Carol si mise a frequentare bar gay, sedute in municipio e fece volontariato in una associazione che si occupava della salute degli omosessuali (Gay Men’s Health Crisis). Lì imparò ad essere un’alleata e ad unirsi alla lotta per la giustizia.
La sua esperienza newyorkese la condusse poi a lavorare con la comunità gay di Belleville e all’apertura del Bethany Place, che originariamente era un centro diurno e una clinica per le persone sieropositive, che opera tutt’ora.
Suor Carol lavorò poi per lo Stato dell’Illinois nell’ambito di uno studio di una risposta all’epidemia; in seguitò, prima della pensione, si dedicò alla cura delle persone tossicodipendenti. Ha lasciato il suo ordine religioso, ma la spiritualità francescana continua ad essere fondamentale per lei.
Sono un giornalista che si occupa di religione, sono gay e cattolico, e ho impiegato più di dieci anni per incastrare insieme queste due parti della mia identità, che sembrano elidersi a vicenda.
Un paio di anni fa, un sacerdote mio amico solleticò la mia curiosità: mi raccontò della sua esperienza come cappellano universitario negli anni ‘80, quando fu ammonito dal suo vescovo per essersi occupato di alcuni studenti gay che temevano di essere infetti. (Il vescovo si ammorbidì solo quando il giovane sacerdote gli disse che occuparsi di AIDS era una “causa per la vita”: gli amici di quegli studenti stavano morendo come mosche.)
Mi misi in cerca di altre persone che fossero in prima linea contro l’epidemia: faceva parte dei miei sforzi per capire cosa succedeva quando la comunità gay e la Chiesa Cattolica erano l’un contro l’altra armate, pur collaborando a volte, durante quel periodo in cui tante vite erano intrise di paura e incertezza.
Non c’è modo di fissare il momento in cui il mondo cattolico ha cominciato a combattere in modo significativo e positivo l’epidemia, ma David Pais ha una teoria.
Pais, che lavora al centro per la salute degli omosessuali (Gay Men’s Health Crisis), si ricorda il giorno esatto in cui ha saputo dell’esistenza dell’AIDS: era il 4 luglio 1981.
Un amico che viveva in un appartamento accanto al suo, al Greenwich Village, gli fece scivolare sotto la porta il celeberrimo articolo del New York Times, che tutto in maiuscolo recitava: RARO TIPO DI TUMORE TROVATO IN 41 OMOSESSUALI. Attaccato alla pagina c’era un Post-it: c’era scritto che un amico comune era una delle otto persone morte per quel “tumore”.
Nei mesi seguenti Pais vide il suo vicino, un vivace giovane trentenne, ammalarsi e poi morire. Pais era un fervente cattolico e fece voto di fare tutto il possibile per aiutare chi era stato contagiato.
Cominciò così a fare il volontario per un’organizzazione appena nata, quella che poi sarebbe diventata la Gay Men’s Health Crisis, che all’inizio del 1982 era poco più di una sedia d’acciaio, una scrivania e una singola linea telefonica in un seminterrato.
Il compito più urgente del gruppo era informare la gente su come proteggere se stessi e le persone amate, ma nel Greenwich Village non era facile trovare un luogo spazioso abbastanza per ospitare un incontro.
Pais riteneva che la sua parrocchia di San Giuseppe avesse moltissimo spazio. Fu felicissimo quando il parroco gli concesse la palestra della scuola, ma il giorno dell’incontro nella palestra non riuscirono ad entrare le più di 500 persone convenute; tutti si spostarono in chiesa per una discussione a cuore aperto su AIDS e sesso gay.
“Voglio che si sappia che il primo programma pubblico di informazione sull’AIDS mai tenutosi nel Greenwich Village fu tenuto all’interno di una chiesa. Questo fu l’inizio del ruolo della Chiesa nell’epidemia di HIV, per come la conosco” dice Pais.
Anche se singoli cattolici sono stati tra i primi ad aiutare i sieropositivi, la Chiesa istituzionale, con la sua politica conservatrice e il suo inveterato bigottismo, è stata spesso bersaglio degli attivisti.
Nel dicembre 1989 ACT UP (Coalizione AIDS per scatenare l’energia, AIDS Coalition To Unleash Power) organizzò una delle sue azioni più celebri contro il cardinale O’Connor alla cattedrale di San Patrizio.
Alcuni membri si ritrovarono [nella cattedrale] per quello che doveva essere un “die-in” silenzioso [una sorta di sit-in, in cui i manifestanti fingono di essere morti, n.d.t.] durante l’omelia, che gli attivisti consideravano la parte meno sacra della Messa.
Il piano “Fermate la Chiesa” cambiò quando uno dei manifestanti si alzò in piedi suonando un fischietto e ripetendo ad alta voce “Fermiamo gli assassini!”: gli attivisti si riversarono nella navata centrale e lessero dei proclami.
Il cardinale O’Connor osservò quel caos e si nascose il volto tra le mani; l’organista si mise disperatamente a suonare, nell’inutile tentativo di zittire la folla.
La polizia entrò e più di cento manifestanti vennero arrestati. Il giorno dopo, i media furono perlopiù solidali con la Chiesa.
Quasi trent’anni dopo, quei manifestanti non si pentono di nulla. “È stato liberatorio” dice Michael Petrelis, che fa un collegamento con il racconto di Gesù che rovescia i tavoli dei cambiavalute nel tempio, pieno di santa ira.
Petrelis sa bene che la Chiesa possedeva alcuni dei pochi ospedali per la gente che moriva di AIDS, ma secondo lui non era abbastanza: “Per me alzarmi nel banco, suonare il fischietto, urlare, significava rivendicare la mia spiritualità a dispetto dell’odio della Chiesa”.
Sarah Schulman, una drammaturga e romanziera che sta scrivendo la storia di ACT UP, era anche lei nella cattedrale. Data la prima reazione dei media, all’inizio ebbe paura che la protesta fosse stata un fallimento; “Sul momento rimasi basita che fosse successo, ma poi capimmo che era stata una delle nostre migliori azioni. Tutto il mondo ne parlò”.
* Michael J. O’Loughlin è corrispondente per gli Stati Uniti del settimanale gesuita America ed autore della serie di articoli e podcast della serie Plague (La peste: storie mai raccontate su AIDS e Chiesa Cattolica) Twitter:@mikeoloughlin
Testo originale: The Catholic Nun Who Came to New York to Confront the AIDS Crisis