Il segreto di Claire. I figli dei genitori omosessuali si raccontano
Articolo di Frédéric Joignot tratto da D La repubblica delle Donne n.463 del 20 agosto 2005, pp.39-39
Nuove famiglie. Parlano i giovani francesi, figli (ormai grandi) di genitori omosessuali. Sono storie non semplici, fra bugie e complicità, conformismi e trasgressioni. Dove più di tutto vale la legge dell’amore. I figli degli omosessuali sono “invisibili”. Non dovrebbero neppure esistere. Biologicamente. Legalmente.
Nessuna legge francese autorizza un individuo omosessuale a sposarsi, adottare un bambino, sottoporsi a inseminazione. Agli omosessuali, i bambini sono vietati. Eppure ci sono. E sono anche parecchi.
In uno studio dedicato all’omogenitorialità, Martine Gross, sociologa del Cnrs, ha riferito che sono circa sei milioni i bambini allevati da coppie omosessuali americane. Cifre comunque prudenti.
Questi minori e ragazzi frequentano l’asilo, la scuola, l’università. Sono la prova tangibile che la volontà di creare una famiglia non è appannaggio delle coppie eterosessuali. Una volta maggiorenni, questi figli “invisibili” iniziano a portare la loro testimonianza. In tv, nei libri, in rete raccontano vite e ricordi di famiglia.
Claire Breton ha 27 anni, un’aria riflessiva, grandi occhi chiari, un fidanzato e tre genitori. E ha deciso di uscire allo scoperto. “Per la società io non esisto”, racconta, “e allora ho deciso di testimoniare”. Claire ha appena pubblicato un racconto molto commovente. “Io ho due mamme, ma è un segreto. Il segreto della mamma”.
Nel letto c’è la “zia”
Siamo a Parigi, nel 1981. Claire ha tre anni, e i suoi genitori si separano. Ha così inizio, per la bambina, il classico copione dei figli dei divorziati. Durante la settimana vive con la madre e un’altra donna, che chiama “zia”. Il fine settimana, con il papà.
Quando Claire ha sette anni l’uomo, che ha sofferto molto dopo la separazione, comincia a chiamare la mamma con strani, curiosi soprannomi… Claire non capisce, e un giorno ne parla con la madre, che nega tutto. In effetti la “zia” non è una vera e propria zia, ma “è come se lo fosse”. E dorme con lei perché non ci sono altre camere disponibili. La madre di Claire preferisce mantenere il segreto.
“Oggi riesco a comprenderla”, racconta Claire. “Lei stessa faceva molta fatica ad accettare la propria omosessualità. Temeva che io potessi rimanere scioccata. Vent’anni fa le lesbiche venivano duramente condannate. È stato un segreto pesante da mantenere”.
A 15 anni Claire scopre una lettera della madre, e la verità sulla sua storia. Ne rimane profondamente ferita.
“Avrei tanto voluto che mia madre mi avesse detto: io e la “zia” stiamo vivendo una storia d’amore. Una volta ho cercato di parlargliene, ma lei è scoppiata a piangere ed è uscita dalla stanza. Non volevo discutere della sua sessualità.
Volevo solo sapere se eravamo una famiglia. Se sarebbe durata. A quei tempi consideravo l’omosessualità come una cosa sporca. Una malattia. Ne sentivo parlare a scuola, in senso negativo. Mia madre mi aveva iscritta a un istituto privato, molto rigido”.
Claire esce con un ragazzo, ma inizia a chiedersi se anche lei, come la madre, a 33 anni non diventerà lesbica, per una specie di “fatalità familiare”. Comincia così un lungo periodo di riflessione, che la porta a studiare filosofia, a rivolgersi a un analista e a incontrarsi con altri ragazzi che vivono la stessa situazione.
“Ho fatto il lavoro di tutti gli adolescenti che vogliono liberarsi di un peso familiare e si pongono i primi quesiti sull’eros.
Oggi non considero più l’omosessualità come una malattia o una cosa malsana. Mi sono interrogata sul mio concetto di desiderio: so che preferisco i ragazzi. Ho cercato di frequentare altri adolescenti cresciuti in famiglie come la mia. E sono stata felice di scoprire storie molto più serene”.
Claire incontra Emilie, 23 anni, concepita mediante inseminazione artificiale in Belgio e, anche lei, cresciuta da due “mamme”. Emilie le racconta un’infanzia piuttosto felice: “Quando mia madre mi ha spiegato fino a che punto la mia storia era particolare, e io ero un caso speciale, sono rimasta affascinata, mi sono sentita più grande”.
Martin, 18 anni, spiega invece che all’inizio ha fatto fatica ad accettare la nuova compagna della madre, Mimi. Eppure in pochissimo tempo sono diventati complici. E Martin oggi considera Mimi la sua matrigna, esattamente come la nuova moglie di suo padre. “È quello che si dice vivere in una famiglia allargata”, osserva.
Ascoltando queste testimonianze, Claire capisce come il culto del segreto e la vergogna della madre l’abbiano profondamente ferita. Si rende conto anche della crudeltà del conformismo, delle pressioni che i vicini e la scuola stessa esercitano sulle coppie omosessuali.
Vede che molte vivono nascoste, come sua madre e la “zia”. Eppure, tiene a precisare oggi, è sempre meglio raccontare la verità ai bambini. Anche se fa male.
Un figlio deve poter avere fiducia nei genitori. Ha bisogno di costruirsi una storia personale, magari anche insolita, di avere un universo dove collocarsi. Claire Breton paragona l’attuale ostilità verso i figli degli omosessuali a quella riservata un tempo a quelli dei divorziati.
A partire dagli anni ’60, alcuni uomini politici ed editorialisti, ma anche le rubriche di psicologia delle riviste femminili, hanno cominciato ad annunciare la scomparsa della famiglia, ultimo baluardo dell’equilibrio, ultimo emblema di un “ordine simbolico” minacciato dal decadimento dei valori tradizionali.
La società si stava incamminando verso l’infelicità cronica, e la schizofrenia infantile. In realtà, le famiglie hanno resistito. Si sono allargate e ricomposte: ormai sono molti i ragazzi che si dividono fra case diverse, si adattano, si inventano un nuovo ordine, come ha illustrato molto bene Elisabeth Roudinesco, psicanalista, nella sua inchiesta La Famille en désordre: è l’amore che costruisce una famiglia, non la biologia.
Quando il padre di Claire Breton, oggi risposato, ha letto il suo libro, le ha detto: “È difficile guardarsi in uno specchio quando non ti sei fatto la barba”, profondamente dispiaciuto per aver attaccato l’ex moglie e per non aver compreso l’infelicità e il disagio della figlia.
Queste storie di genitori omosessuali hanno spesso il sapore tragicomico dei film di Pedro Almodovar, dove l’amore finisce sempre per trionfare sulle reticenze o sul conformismo.
Thomas, giovane farmacista, ha oggi 23 anni. Quando suo padre lascia sua madre a causa del colpo di fulmine per Jean-Paul, con cui vivrà 18 anni, Thomas ha solo un anno e rimane con la mamma. Vede regolarmente il padre, che poco dopo gli spiega l’accaduto: si è innamorato di un uomo, come un tempo si era innamorato di sua madre, e lui adesso ha tre genitori.
Il piccolo Thomas accetta senza problemi la nuova situazione. “All’epoca, era il 1982, molta gente diceva che, se fossi andato a trovare mio padre, lui avrebbe cercato di toccarmi e cose del genere. È pazzesco quanto possano far male le maldicenze! Mia madre ha vissuto malissimo il fatto di essere stata lasciata per un uomo, ma non ha mai condannato l’omosessualità del suo ex marito. E non mi ha mai parlato di pedofilia”.
Occorre precisare che il padre di Thomas si comporta “come una vera mamma ebrea”: chiama il figlio tre volte al giorno, lo accompagna al museo, lo porta al cinema, gli regala libri, con sua grande gioia.
Eppure, fra i 10 e i 12 anni, anche Thomas ha vissuto un periodo di crisi. “All’inizio era bellissimo avere una mamma e due papà. Ma a 10 anni ho rifiutato la figura di Jean-Paul. Bisogna dire che a scuola molti prendevano in giro i “pederasti”, dicevano che non erano uomini eccetera. Un giorno, a casa di mio padre, ho trovato una cassetta porno gay: mi è sembrata una cosa sporca, orribile. Nel corso del week-end gli ho lanciato molte battutine sprezzanti, del tipo: “Lasciami in pace e chiuditi pure in camera con il tuo amico a fare le tue schifezze”.
Eppure Thomas non ha mai provato “disgusto” per il genitore; anzi, è sempre stato affettuoso con lui. A 14 anni vede che gli omosessuali iniziano a essere sempre più accettati dalla società, si mostrano alla televisione.
Scopre che i liceali più mascolini sono anche quelli più retrogradi. E anche che essere figlio di una coppia omosessuale costituisce qualcosa di originale, di ultramoderno.
Si riavvicina allora al padre: i due diventano grandi amici, compiono lunghi viaggi all’estero. Thomas finisce addirittura per sfruttare la situazione per rimorchiare: “Molte vorrebbero avere un amico omosessuale gentile, sensibile, che non dia loro fastidio. Io giocavo su questo elemento, per avvicinarle”.
Un diversa fedeltà
A tutti gli psicologi ed esperti vari che profetizzano l’infelicità e la rovina dei bambini cresciuti “lontano dal triangolo edipico”, affidati a madri “senza autorità paterna”, al di fuori dell'”ordine simbolico” tradizionale e del classico quadro biologico, Thomas risponde con un sorrisetto divertito, come Claire Breton: “Tutte queste teorie sono assolutamente avulse dalla realtà”.
Quando da bambino sua madre gli urlava: “Thomas, smettila subito! Se mi alzo te le suono!”, lui obbediva all’istante. La madre si imponeva. E poi, continua Thomas, è stato importante “scoprire le figure paterne, le figure maschili in altri ambiti. I miei cugini, gli insegnanti… Ero molto legato a uno zio che possedeva una moto. Al liceo avevo amici più grandi di me.
A 18 anni me ne sono andato di casa per vivere con una ragazza di 20: era lei l’autorità. I miei amici avevano fidanzate che sapevano farsi rispettare. Il nuovo compagno di mio padre ha due figli ed esercita la sua autorità su di loro, pur essendo omosessuale. Quanto a mio padre, la mia paura principale è quella di deluderlo. Ed è l’aspetto più interessante”.
Una critica ricorrente mossa alle famiglie omoparentali è di formare figli omosessuali. Tutti gli studi effettuati finora – diverse centinaia, in Europa e negli Usa – lo smentiscono: il 92% dei figli di omosessuali sono etero.
Thomas non ha mai provato l’impulso di uscire con un ragazzo? Fino a oggi no. Ma aggiunge: “Credo che un giorno farò anche quest’esperienza. È solo che finora non mi sono ancora innamorato di un maschio!”. Perché vuole provare, allora? Non si tratta di una semplice curiosità sessuale. Piuttosto, Thomas si interroga sulla longevità della coppia e la libertà amorosa.
“Gli omosessuali che vanno in giro a rimorchiare compagni occasionali non sono certo quelli che poi tornano a casa a occuparsi dei figli. Non ne avrebbero neppure il tempo. Hanno scelto una vita all’insegna del piacere, senza responsabilità familiari.
Gli altri, che decidono di formare una famiglia, sono molto dolci, affettuosi e fedeli in amore. Formano coppie che durano anche 15, 20 anni. Molti continuano ad avere altre storie, senza che intacchino la famiglia. Mio padre ha vissuto per 18 anni con Jean-Paul, ma ha avuto anche molte relazioni senza futuro.
Quando un gay ha voglia di un’avventura poco impegnativa, gli basta fare un giretto nel locale giusto, e può stare certo di trovare qualcuno nell’arco di un paio d’ore. Negli ambienti etero è impossibile. Per non parlare delle crisi di gelosia. Viene da chiedersi se la tolleranza sessuale, questo essere fedeli in amore e infedeli nel piacere, non sia la garanzia di un rapporto duraturo. Comunque, fa riflettere”.
L’eros? Una faccenda privata
Quest’anno il motto del Gay Pride (ndr in Francia) , o Marcia dell’Orgoglio Omosessuale, è “Coppia e Genitorialità. E ora l’uguaglianza!”. Le nuove famiglie vogliono modificare le leggi francesi in materia di filiazione, autorità parentale, adozione e procreazione assistita.
Queste leggi, diventate più favorevoli a gay e lesbiche in Paesi come Belgio, Spagna, Paesi Bassi e Svezia, determinano in Francia situazioni assurde, che sfavoriscono i minori.
Myriam Blanc ne è una testimone. Ha appena pubblicato un racconto tagliente, dal titolo Et elles eurent beaucoup d’enfants (“Ed esse ebbero molti figli”, ed. Le Bec en l’air). Myriam e la sua compagna Astrid hanno avuto entrambe quelli che si chiamano “bambini Thalis”, concepiti a Bruxelles mediante inseminazione artificiale con donatore anonimo. E oggi, a 26 e 25 anni, stanno crescendo insieme Assia, 4 anni, e Augustine, 5. Sono “le figlie del cuore”, “le bambine del loro amore”. Ma, secondo la legge francese, sono la prole di due donne nubili, con le inevitabili complicazioni del caso.
Come ottenere, per esempio, documenti ufficiali per le loro “non-figlie”, o agire nelle situazioni di emergenza – ricovero in ospedale, passaporto ecc. – quando la madre biologica è assente? Myriam Blanc protesta: “Non poter compilare un modulo del Servizio Sanitario per la propria figlia, né poterle fare avere il passaporto. Ci ripetiamo che non è importante, che contano i sentimenti, ma poi viene il giorno in cui ti senti vittima di una legge applicata senza guardare in faccia nessuno. Se io dovessi venire a mancare, a chi verrebbe affidata Augustine?”.
Claire Altman è quadro in un ufficio pubblico. In Deux femmes et un couffin (“Due donne e una culla”), racconta la battaglia condotta, con la sua compagna Sophie, per poter adottare i loro due figli, l’impossibilità di confessare il loro amore davanti ai funzionari, i discorsi stereotipati degli specialisti (“frasi fatte, slogan, preconcetti”), l’ostilità della sua famiglia (“Oh, potreste anche adottare un’intera tribù! Noi ce ne freghiamo altamente!”, le ha detto un giorno il padre).
Allo stesso tempo, Claire Altman si interroga con profonda emozione e grande sincerità sul suo desiderio di maternità. “Ogni tanto avevo paura che rientrasse in un generico tentativo di normalità, e che potesse quindi essere una specie di strumentalizzazione di mio figlio. Ma non accade la stessa cosa anche nelle persone eterosessuali?”.
Oggi le sue bambine sono sempre con lei, e parlano volentieri della loro famiglia. Claire non ha più dubbi. Dopo tutte le prove passate, ha capito che i figli degli omosessuali sono i figli dell’amore più grande. “Ci deve essere un amore immenso per poter superare gli ostacoli umani e sociali, per lenire i dolori e far scomparire le cicatrici. Per trascendere le storie personali, e trasformare quella che apparentemente è una “strana famiglia” in una famiglia come tutte le altre”.
È proprio per superare questi ostacoli che quest’anno il Gay Pride era dedicato al riconoscimento del matrimonio omosessuale. Perché in Francia, ancora oggi, famosi politici di sinistra (Jean-Pierre Chevènemen, Elisabeth Guigou, Lionel Jospin) e di destra (François Bayrou, Jacques Chirac, Alain Madelin, Jean-François Mattei, Renaud Muselier), importanti intellettuali femministe (Irène Théry, Sylviane Agacinski, Françoise Héritier) e molti psicanalisti (il filosofo Didier Eribon parla di “un vero orrore dell’omoparentalità da parte degli psicanalisti”) difendono la teoria per cui solo le coppie tradizionali devono potersi sposare e crescere bambini.
E tutti discutono della drammatica situazione dei futuri figli degli omosessuali, e dei pericoli derivanti per la famiglia. Come spesso accade, la società si è evoluta più rapidamente dei suoi rappresentanti.
Vanina, 19 anni, forse potrebbe convincerli. Allevata dal padre dall’età di un anno, non riesce a comprendere i termini dell’attuale polemica, né le ragioni alla base della legislazione francese, che lei reputa omofobica. “Non capisco nemmeno perché si debba parlare di omosessualità. Perché insistere così tanto sulla vita sessuale delle persone? Perché soffermarcisi, giudicarla, condannarla? Non può riassumere un individuo. È una questione privata che non riguarda nessuno. Essere genitori ha forse a che vedere con l’eros?
L’omosessualità è sempre esistita, come pure il desiderio di avere figli. Allora perché stupirsi tanto davanti ai figli di lesbiche e gay? Parlano di noi come di fenomeni da baraccone. Alcuni sono omosessuali per un certo periodo della vita, poi cambiano, o magari il contrario, o sono bisex. Come si fa a classificarli?
Presentano i nostri genitori come individui loschi e perversi, che passano il tempo a fare cose sporche. Ma quando mai raccontano le storie d’amore che viviamo con loro, la nostra quotidianità? Io trovo che gli omosessuali siano divertenti, brillanti, simpatici, spesso molto meno complessati dei genitori etero.
I miei amici adorano venire a casa mia e di mio padre, discutere con lui. Certo, non esiste la famiglia perfetta, e neppure la coppia perfetta. Polarizzarsi sulla sessualità è però un grosso errore, e non mi stancherò mai di ripeterlo.
Disprezzare gli omosessuali, limitarsi al loro aspetto sessuale, condannare noi figli solo perché siamo nati, è una stronzata. Quando esco con un ragazzo che mi interessa, gli parlo sempre di mio padre. È una specie di test. Se reagisce male, so che non potrò mai avere a che fare con lui.
Non bisogna lasciarsi sopraffare. A scuola, quando avevo nove anni, alcuni compagni mi hanno presa in giro per via di mio padre. Io mi sono allontanata in lacrime, e una bambina mi è corsa dietro per rincarare la dose. Le ho dato uno schiaffo.
Poco dopo sono venuti tutti a chiedermi scusa. Non voglio essere riconosciuta come la figlia di un omosessuale. Vorrei solo che la gente la smettesse di pensare che è la sessualità a fare l’individuo. Perché è l’amore che ci rende individui”.