Il signore delle formiche. Quello che il processo a Braibanti non racconta
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Riflessioni di Luciano Ragusa, curatore del Guado Cinema
Una manciata di mesi sono trascorsi dalla partecipazione al Festival del cinema di Venezia (settembre 2022, 79° edizione) del film Il signore delle formiche, diretto da Gianni Amelio. Visto che una scheda relativa ad esso, pubblicata su questo spazio, è già stata proposta, perché ritornarci sopra?
Cosa manca all’articolo precedente per giustificare il proposito di riscrivere su Aldo Braibanti? Ci aiuta, come dichiara la pellicola, concentrarsi sul decennio 1959-1969, per capire quali forze agivano dietro il filosofo? È stato davvero un processo inquisitoriale, medievale, una farsa d’avanspettacolo?
Sono persuaso che ci siano elementi sfuggenti quando si parla del mirmecologo piacentino, come se, della sua vicenda umana e processuale, rimanga qualcosa di ineludibile da decriptare: e che le conclusioni a cui registi, giornalisti, intellettuali, politici, ieri come oggi, sono giunti, non tengano in debita considerazione la complessità morfologica del “caso Braibanti”.
L’intento di questo testo, perciò, non è quello di spulciare Il signore delle formiche nelle sue soluzioni tecniche, formali, per altro apprezzate ed elogiate nella scheda dedicata, ma inserire, nella discussione, informazioni che diversificano la percezione di quanto accaduto allo scrittore emiliano. Andiamo con ordine.
Aldo Braibanti nasce a Fiorenzuola d’Arda il 17 settembre 1922, dunque, il lungometraggio di Amelio, ne omaggia la figura nell’anno del centenario della nascita. Figlio di un medico condotto, è solito seguire il padre nelle sue visite a domicilio per tutta la campagna piacentina, situazione che facilita un approccio, poi uno sviluppo, naturalistico ed ecologico alla vita.
Nel 1934 si trasferisce a Parma per frequentare il Liceo classico Romagnosi, percorso che lo vedrà eccellere in tutte le materie e gli procurerà, nel 1939, qualche grattacapo con il fascismo. Il motivo del contendere è un ciclostilato clandestino rivolto “a tutti gli uomini vivi”, nel quale, prende posizione, e invita altri a farlo, contro la dittatura:
Amici, già da qualche tempo coloro che la società ha eletto a nostri superiori sia nella scuola che nella vita abusando di tale dovere, congiurano di opprimerci moralmente e materialmente, mirando di fare di noi degli automi meccanici. Si tenta di uccidere in noi l’uomo per mezzo di principi insani, che oggi accuso morti e non più sostenibili.
Amici, ormai negli animi nostri sento serpeggiare fremente il grido di protesta di questa illogica tirannia, contraria al diritto divino di libertà, che è il diritto di ogni uomo, di ogni essere, di ogni cosa. Ed io accolgo questo grido non ancora represso e nel nome del bene comune, propongo che a tale iniquità risponda la nostra fraterna unione, la nostra compatta concordia.
Amici, noi che siamo il cuore pulsante di ogni speranza, raccogliamo le nostre forze in un’unica forza mirante a riconquistare la nostra libertà, senza abbattere i principi più santi di giustizia e di onestà, senza sconvolgere inutilmente l’ordine e la pace. Oggi, 27 novembre 1939, stringiamo noi uomini giovani e forti, la società più pura, più perfetta, più nobile di cui sia capace l’animo nostro.
Amici, tale società, che per il suo stesso carattere sarà segreta, cercherà di sostituire agli isolati tumulti una rivolta prudente e perciò più effettiva, ordinata e perciò più travolgente. Per mezzo di accordi, riunioni, leggi prestabilite e convenzionali segni segreti, noi potremo così ottenere quello che un solo individuo mai potrebbe. Restando nei limiti della buona creanza, noi non saremo però per questo vili. Chi è vile o indegno, non accetti le mie condizioni di onore, libertà, prudenza, lavoro.
Ma insieme continueremo a fare tutto il nostro dovere e ad ubbidire, quando ubbidire non urterà la nostra coscienza. Inizieremo insomma una reazione controllata e segreta, ma tale che nessun appiglio nemico potrà intaccare, perché il compito che ci proponiamo è fondato su fiera rettitudine ed onesta giustizia. Firme di adesione. (cfr. https://senesonoandati-parma.blogautore.repubblica.it/2014/04/12/aldo-braibanti-quel-sei-in-condotta-al-romagnosi-di-un-intellettuale-scomodo/).
Dopo il Liceo classico si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Firenze, dove tutti i suoi amori artistici, letterari, scientifici, trovano un metodo organico: circostanza che lo farà apprezzare dall’intero mondo della cultura italiana del dopoguerra. Dal 1943 prende parte alla Resistenza partigiana, concorre alla genesi dei primi movimenti intellettuali antifascisti, e aderisce a “Giustizia e Libertà”, formazione liberal-socialista sorta nel 1929 a Parigi ad opera di Rosselli e Lussu.
Poco dopo sceglie di militare nel Partito comunista clandestino, “[…] non tanto per contrasti ideologici, quanto il desiderio di far parte di uno schieramento più ampio, che portava su di sé il peso più grande della lotta. Ma le file comuniste erano soprattutto composte da operai e lavoratori in genere, e io, che venivo da una classe sociale diversa, ho voluto far miei le forme e gli scopi della lotta antifascista, partendo appunto dalle necessità improrogabili del mondo del lavoro. (S. Raffo, “Emergenze. Conversazioni con Aldo Braibanti”, Vicolo del Pavone, Piacenza, 2003, pag. 37).
Il giovane intellettuale viene arrestato due volte: la prima nel mese di luglio del 1943, insieme al futuro segretario repubblicano Ugo La Malfa, e rilasciato quando, dopo il 25 luglio, Pietro Badoglio dà ordine di liberare docenti e studenti (mentre i comunisti adulti verranno fucilati dai tedeschi); il secondo nel 1944 ad opera della “banda Carità”, denominazione gergale del ”Reparto dei Servizi Speciali” di Firenze, poi rinominato ”Ufficio Polizia Investigativa”, dipendente dalla Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale, fondato da Mario Carità.
Il filosofo ritrova la libertà durante la Battaglia di Firenze, allorché, le diverse componenti partigiane, e gli Alleati, liberano la città dalle truppe nazifasciste. Tutti gli scritti fino al 1940 di Aldo Braibanti vengono però distrutti per sempre.
Grazie ai meriti conseguiti sul campo, il PCI, lo nomina nel 1945 responsabile della gioventù comunista toscana, ma, già dal 1947, abbandona la politica attiva dimettendosi da tutti gli incarichi (nel frattempo consegue la laurea in filosofia teoretica):
“Dopo la liberazione, quel partito ha faticato molto a tradurre una strategia di guerra in una politica di pace: il centralismo democratico è stato l’esempio più lampante della sua diffidenza verso le istanze libertarie che sono all’origine anche del movimento comunista. Ma nonostante gli errori e le distorsioni dello stalinismo, il Partito comunista ha rappresentato per anni in Italia un baluardo in difesa della giovane democrazia”. (S. Raffo, pag. 28).
Non un addio, dunque, ma un congedo. Fino al 1956, quando, invitato a partecipare all’ VIII Congresso nazionale del PCI, Braibanti interviene polemicamente su alcuni aspetti dello stalinismo, in primis l’invasione dell’Ungheria, e accusa un “un progressivo imborghesimento delle sinistre ufficiali”. (S. Raffo, pag. 28).
Intanto, dal 1947, il filosofo, insieme ad altri giovani intellettuali, fra cui i fratelli Bussotti, dà vita all’esperienza comunitaria del Torrione Farnese di Castell’Arquato: si tratta di una serie di laboratori polivalenti, dove ciascuno è invitato ad esprimere e approfondire il proprio talento. Il percorso dura sei anni, allorquando, l’amministrazione comunale di riferimento, non rinnova il contratto d’affitto alla comunità.
Per l’intellettuale piacentino sono anni fondamentali, perché può approfondire i sui interessi teatrali e poetici, oltre a costruire formicai artificiali che lo renderanno famoso come mirmecologo. Dal 1962 lo troviamo a Roma in via definitiva, dove collabora con il giovane Carmelo Bene, il compositore Vittorio Gelmetti, riprende a lavorare con Sylvano Bussotti, e coadiuva per un breve periodo la genesi dei “Quaderni piacentini”, rivista politica trimestrale sorta nel marzo del 1962 ad opera di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi.
Parte da qui la narrazione per cui Braibanti occupa un posto di rilievo nella “Storia” italiana, come se la partecipazione alla Resistenza, l’essersi speso nella nascita, e successiva crescita, di esperienze comunitarie, pubblicazioni di opere poetiche e sceneggiature per il teatro, non rendessero la sua vita straordinaria in quanto tale!
CASUS BELLI
Nel 1959 Aldo Braibanti conosce Giovanni Sanfratello, secondogenito di una famiglia borghese cattolica affine al pensiero conservatore, perciò, lontanissima, dalle istanze di cambiamento di cui gli anni sessanta sono artefici.
Al di là dell’antipatia che un intellettuale “anarcoide” suscita nei confronti dei tradizionalisti, il filosofo piacentino è già chiacchierato, ovvero circolano voci sul suo orientamento sessuale, congiuntura che innesca nella famiglia Sanfratello un odio viscerale.
Giovanni è un diciottenne portato per il disegno costretto ad un ciclo di studi classici, perché agli occhi dei genitori, fare l’artista, significa attentare alla rispettabilità della classe appartenente, gettando discredito su tutti loro. Il giovane, perciò, vive con angoscia i rapporti con i parenti stretti, e trova nel mirmecologo una figura adulta che non lo giudica, ma lo aiuta a fare ordine nel suo personale “zibaldone” di emozioni.
Col tempo l’amicizia iniziale diventa affetto, poi relazione intima. Come accennato, nel 1962, Braibanti si trasferisce a Roma, e siccome Giovanni ha raggiunto la maggior età (21 anni all’epoca), lo esorta circa la possibilità di seguirlo nella capitale e aiutarlo in alcune collaborazioni artistiche.
L’invito viene accettato, con la speranza palese di poter condurre una vita serena e soprattutto lontano dalle forzature ideologiche della famiglia Sanfratello.
Naturalmente, tra il 1959 e il 1962, i genitori del ventenne più volte tentano di impedire la frequentazione col Braibanti, e, in diversi frangenti, tra viaggi in Umbria dai parenti, uno a Parigi di un mese da un sacerdote missionario, Milano, Firenze, l’operazione ha successo.
Dopo qualche ricerca, scoprono che il figlio, e il filosofo, alloggiano a Roma alla pensione “Zuanelli” di via Montecatini 5, e ricomincia la pressione sul giovane uomo affinché torni a casa. Dunque, la vita tranquilla auspicata dalla coppia si trasforma in chimera, e, successivamente, inferno.
Il 12 ottobre 1964, Ippolito Sanfratello, deposita presso la procura di Roma la denuncia contro Braibanti: l’accusa è plagio, cioè aver assoggettato fisicamente e psichicamente il figlio Giovanni.
Il procuratore Loiacono apre un’inchiesta che porterà avanti per 4 anni, quando cioè, l’intellettuale piacentino, il 5 dicembre 1967, viene arrestato e condotto a “Regina Coeli”. Intanto, in data 01 novembre 1964, l’ormai ventitreenne Giovanni, viene letteralmente “rapito” dal padre e costretto, prima al manicomio di Parma, poi a Verona, a cure psichiatriche quali shock insulinici ed elettroshock, minando per sempre l’equilibrio mentale del secondogenito.
La prima sentenza arriva il 14 luglio 1968 ad opera della Corte di assise di Roma, e condanna l’imputato a 9 anni di reclusione nonostante le attenuanti generiche. Si afferma in essa che sussiste la fattispecie di reato, il plagio, in quanto il filosofo avrebbe realizzato un assoluto dominio psichico sui soggetti passivi (al plurale perché viene ascoltato un altro giovane, Pier Carlo Toscani, compiacente nell’ammettere di essere stato plagiato) annullando in essi la libertà di autodeterminarsi.
La sentenza successiva, datata 28 novembre 1969, emessa dalla Corte di assise di appello di Roma, lascia inalterato il pronunciamento in primo grado, salvo ridurre la pena a quattro anni, dei quali, due già scontati (1967-1969), due condonati in quanto ex partigiano.
La Corte di cassazione si esprimerà il 21 ottobre 1971, ribadendo le precedenti interpretazioni del reato contestato. Aldo Braibanti è l’unico cittadino della Repubblica italiana ad essere stato incriminato per il famigerato art. 603, introdotto nel Codice penale, siamo nel 1930, dal “Ministro di Giustizia e affari di culto” Alfredo Rocco.
CHE COS’È IL REATO DI PLAGIO
Come fa notare Umberto Eco nel suo saggio dedicato a Braibanti, “[…] le parole chiave di questa istruttoria […] non sono usate in funzione referenziale ma “emotiva”; e che in questo modo sono riprese sia dagli inquirenti sia dai giudici, senza che venga mai fatto uno sforzo per sfogliare i termini verbali dal loro alone emotivo, ma anzi approfittando di questo alone per esimersi da altre verifiche”.
(cfr. U. Eco, “Sotto il nome di plagio”, in Il costume di casa, Edizioni Tascabili Bompiani, Milano, 2012, pag. 137).
Quanto afferma il semiologo non è questione di lana caprina, perché ciò che introduce Rocco, nel codice che porta il suo nome, è l’equivalenza tra il concetto storico di plagio, con quello di “lavaggio del cervello”: tant’è vero che ancora oggi, nel linguaggio comune, essere plagiati, per esempio da una setta religiosa, assume la sfumatura semantica di manipolazione mentale della persona malcapitata.
La parola plagio non è attribuibile all’ex Guardasigilli, e deriva dal diritto romano. Fin dal III secolo a.C. “plagium” si riferisce al reato di chi si impossessa dello schiavo di un altro, oppure rende tale un uomo libero.
L’elaborazione della fattispecie di reato nel diritto romano si compie con la “lex Fabia (III – II secolo a.C.), e comprende sia il caso di chi presenta come schiavo un uomo libero, o come proprio lo schiavo altrui, sia chi priva della libertà personale, incateni o venda, un uomo libero o un liberto. Dunque, per il diritto romano, e sarà così fino all’alto Medioevo, plagiare significa ridurre illegalmente in schiavitù.
Il poeta Marziale (40-104 d.C.), nell’epigramma 52, usa la parola plagio in senso figurato, operando una similitudine tra chi copia opere letterarie d’ingegno altrui, con chi rende illegalmente schiavo un individuo libero. Ancora oggi, nei contenziosi per i diritti d’autore, usiamo l’allargamento linguistico del poeta latino (ricordate il cantante Albano contro Michel Jackson?), così da capire perfettamente cos’è un plagio letterario, discografico, artistico, e quant’altro.
Appare evidente che nel diritto antico, fino all’inizio dell’età moderna, il reato di plagio inerisce ad individui privi di personalità giuridica, dunque, con la progressiva accettazione del principio d’uguaglianza, e l’abolizione dell’istituto della schiavitù (convenzione internazionale di Saint-Germain, 1919, Ginevra 1926 e 1956), la nozione di plagio muta radicalmente, configurandosi non più come un delitto contro la proprietà di esseri umani, ma esclusivamente contro la libertà individuale.
Nel primo Codice penale italiano postunitario (1889, Zanardelli) il plagio è contestualizzato nel suo significato storico, e punisce con la reclusione da 12 a 20 anni “chiunque riduce una persona in schiavitù o in altra condizione analoga” (art. 145 c.p. Zanardelli).
Il principio di fondo è legato alla privazione fisica, cioè la schiavitù come stato di diritto, in un paese, l’Italia, nel quale la proprietà di individui non è più prevista. Il legislatore del 1930 compie un passo ulteriore: mantiene il significato storico di plagio nell’art. 600 (presente ancora oggi nel codice), e introduce l’art. 603, che punisce chi “sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. Cioè il plagiato si presenta a tutti gli effetti come fosse schiavo, senza che questo implichi l’essere venduto a terzi o ne limiti alcune libertà individuali.
Per la prima volta al mondo, Alfredo Rocco, incrimina quello che più tardi sarebbe stato nominato lavaggio del cervello.
Braibanti a parte, sono pochissimi i casi in cui qualcuno è stato chiamato a rispondere del reato di plagio, come ad esempio l’attore Maurizio Arena, il quale, intorno al 1960, ebbe una “love story” con Maria Beatrice di Savoia, quarta figlia del re d’Italia Umberto II. I reali provarono a giustificare l’affetto della figlia nei confronti di Arena come plagio, ma la questione si risolse in poco meno di una bolla di sapone.
Più strutturati i casi di Eugenio Siragusa, fondatore del culto dei dischi volanti “Fratellanza Cosmica”, arrestato nel 1978 perché accusato di aver plagiato i coniugi Hooker, seguaci e finanziatori americani, e assolto nel 1982; e don Emilio Grasso, sacerdote cattolico carismatico, accusato di allontanare i giovani dalle proprie famiglie e di aver creato, attorno a sé, un culto esasperato della propria persona.
Soprattutto il secondo caso, ha un’importanza storica fondamentale, in quanto è esattamente in questo quadro che viene formulata l’istanza di incostituzionalità dell’art. 603, tant’è che la sentenza della Corte costituzionale n° 96 del 1981, nella quale viene dichiarata l’illegittimità dell’articolo in questione, si semplifica come “Sentenza Grasso”.
Per farla breve, la Corte costituzionale ravvisa due criticità nella formulazione del reato di plagio: viola l’articolo 25 della Costituzione, perché sfornito dei criteri di chiarezza necessari per circoscrivere la fattispecie di reato; e l’articolo 21, per cui tutti hanno diritto di manifestare le proprie idee con ogni mezzo di diffusione.
BRAIBANTI E LA CORTE COSTITUZIONALE
Molti sono convinti che il “caso Braibanti” sia stato la classica goccia che fa traboccare il vaso, tale per cui, dopo di esso, pareva ovvio che il reato sottinteso nell’art. 603 venisse dichiarato illegittimo.
Purtroppo nulla di più falso! La Corte di cassazione si esprime sul mirmecologo il 21 ottobre 1971, mentre l’8 giugno 1981 è la data nella quale la Corte costituzionale derubrica dal Codice penale l’articolo in oggetto. L’intellettuale piacentino chiede immediatamente istanza di revisione della sentenza, sulla quale, la Corte costituzionale, si esprime il 18 dicembre 1981.
Ebbene, la richiesta, viene rifiutata, con una motivazione da brivido: al filosofo viene detto che, anche se non fosse mai esistito l’art. 603, che cercava di punire in modo non chiaro il lavaggio del cervello, sarebbe stato condannato comunque, perché molto più vicino alle ipotesi di plagio discusse sotto il vigore della legislazione italiana precedente al 1930, dunque Zanardelli 1889.
Secondo la Corte, l’accusa è riuscita a dimostrare che Braibanti ha “schiavizzato”, cioè plagiato nel suo significato storico, Sanfratello e Toscani. Come vedremo più avanti, la valenza politica del processo Braibanti è altissima, tocca personaggi che nella storia d’Italia intrecciano i propri destini con la destra extraparlamentare e i servizi segreti.
A questo si aggiunge l’omosessualità dei protagonisti, lo spauracchio che determina “emotivamente”, come diceva Umberto Eco, l’intera dinamica, tale per cui se fossero stati un uomo adulto e una giovinetta, nessuno si sarebbe sognato di portarli di fronte ad un giudice.
Aldo Braibanti, muore colpevole, nonostante nel 1971 nasca in Italia un movimento di liberazione omosessuale, nonostante le vittorie referendarie sul divorzio e l’aborto, nonostante le conquiste del femminismo, nonostante, nel 1981, i costumi degli italiani fossero completamente diversi rispetto al 1964, data in cui viene depositata la prima denuncia.
Il caso Braibanti continua ad essere ancora oggi una stortura gigantesca, perché è facile concludere che il portato dell’Italia postbellica era ancora fascista, e che forze reazionarie provarono ad impedire a tutti costi, vedi la strategia della tensione, cambiamenti progressisti nella sostanza.
Questo è tutto vero, ma nel 1981? Possibile che si considerasse ancora valido il teorema secondo la quale due uomini, o due donne, non potessero scegliere liberamente di condividere il proprio corpo, senza scomodare il plagio nella sua accezione storica?
Fermo restando che l’omofobia ha condizionato il processo, e anche il giudizio sull’istanza di revisione della sentenza, credo che altri elementi abbiano contribuito a formare, per sfortuna di Braibanti, la tempesta perfetta.
SDEGNARSI NON SERVE
Rubricare il reato di plagio come strumento di un potere conservatore, con il quale porre freno alla volontà di cambiamento, di autodeterminarsi, è alquanto riduttivo. Perché l’ipotesi, seppur vera in un quadro reazionario – e in Italia, tra 1969 e il 1980, di forze simili era piena – non è esaustiva, e si corre il rischio di bypassare fenomeni impossibili da escludere.
Temo che il punto di vista vada allargato, perché per tornare alla citazione emotiva di Eco, coloro che scrissero di Braibanti, gli amici, gli intellettuali come Moravia, Pasolini, Maraini, i fratelli Bellocchio, e l’interessato stesso, hanno sempre sottolineato l’irrealtà dell’accusa: nel film, apostrofato da Scribani, il filosofo risponde che “tutto questo mi sembra una farsa”, qualcosa di antico, di non illuminista, talmente assurdo da non trovare giustificazione razionale.
Lo stesso Piergiorgio Bellocchio, sui “Quaderni piacentini”, si accorge della soluzione di continuità:
Se tutto questo è potuto avvenire impunemente, fino alla folle sentenza di condanna, di ciò è gravemente responsabile la stampa […] Ma anche noi dobbiamo fare l’autocritica […] Non riuscivamo a concepire l’ipotesi di una condanna. Eravamo furiosi e umiliati che un amico fosse in galera per un reato inesistente e dovesse sopportare la tortura gratuita di un processo, ma concludevamo: “Non saranno mai tanto pazzi da condannarlo.”. Avevamo fretta di uscire da questo incubo.» (P. Bellocchio, Perché è stato condannato Aldo Braibanti, “Quaderni piacentini”, VII, numero 35, 1968, pagina 92).
Ancora più esplicito nella prefazione del già citato “Emergenze. Conversazioni con Aldo Braibanti”, dove si legge:
Il caso fu clamoroso, suscitò scandalo e incontrò la disapprovazione unanime dell’opinione pubblica. Che però si mobilitò troppo tardi perché una congiura così ben architettata e diretta potesse essere smontata. Un’opinione pubblica presa da tutt’altri eventi (s’era in pieno ’68) e quasi incredula di fronte a quel “monstrum” anacronistico e apparentemente assurdo. Increduli perfino gli amici, che pure s’erano mossi tempestivamente. E di questa incredulità finirono per giovarsi i congiurati per condurre a buon fine l’operazione. Il mio senso di colpa – il rimorso e il debito – derivano anche da questo, dalla coscienza di non essermi allarmato, di non aver temuto abbastanza e quindi fatto abbastanza. (S. Raffo, pag. 1).
Il processo non fu una farsa, e, probabilmente, l’intellettuale emiliano, ha pagato per questo, per l’impossibilità di credere che si potesse essere condannati nel 1968 per un reato trasmigrato dal codice fascista a quello repubblicano.
L’indignazione non ha nessun valore giuridico, e poco importa, come fecero i difensori del mirmecologo, affermare davanti al giudice che l’ultimo processo contro l’omosessualità fu fatto nel secolo precedente a discapito di Oscar Wilde. Anche coloro che conoscono “l’affaire”, si stupiscono che un maggiorenne potesse essere rapito, rinchiuso per 15 mesi, sottoposto a violenza psichiatrica, rilasciato con la minaccia di nuove reclusioni manicomiali, e costretto a letture la cui pubblicazione non fosse più recente di 100 anni.
Perché nessuno si è posto il problema che forse, poteva essere legale? Giovanni Jervis, psichiatra collaboratore di Basaglia, fu l’unico a non cadere nel tranello emotivo dello sdegno, come fecero Moravia, Pasolini e tanti altri.
Per noi, figli dell’autodeterminazione ad oltranza, non è concepibile che qualcuno, anche un famigliare stretto, possa intromettersi nella nostra vita privata. Ma come fece notare Jervis, sempre sui “Quaderni piacentini”:
Invero, tutto l’affare Braibanti non deve stupirci. Sostenere, come facciamo, la “normalità” dell’istruttoria, del dibattimento e della condanna non significa né scartare l’identificazione di responsabilità personali, né ritenere che tutto sia stato preordinato nei piani alti del potere […], e neppure affermare che tutti i processi, in Italia, vanno a questo modo: ma semplicemente riconoscere che un certo “iter” di violenza ha potuto seguire vie già sicure, ben battute, anche se poco note.
Il fatto che per iniziativa e testimonianza dei famigliari un individuo possa venir rapito, sequestrato, sottoposto a terapie di shock, giudicato “definitivamente” malato di mente, […] non ha nulla di abnorme, ma rientra nell’esperienza di tutti i giorni per chi lavori negli ospedali psichiatrici. (cfr. G. De Matteo alias G. Jervis, “Quaderni piacentini”, VII, fascicolo 36, 1968, pag.78).
Nel 1964 la Legge Basaglia è ancora lontana, e, a dirimere situazioni di questo genere, provvedeva la legge 36 del 14 maggio 1904, secondo la quale era sufficiente un certificato medico e un atto di notorietà per rinchiudere una persona in manicomio.
Dunque, come fa notare Jervis, sebbene agli occhi di tutti la distonia appariva evidente, era pratica comune. Negli ultimi anni, grazie a studi approfonditi, sono emerse storie incredibili di donne rinchiuse grazie alla legge 36, perché incapaci di sussumere la loro libertà al corpo dello stato fascista. (cfr. A. Valeriano, “Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista”, Donzelli, Roma, 2017).
A scanso di equivoci non sto affermando che rapire Giovanni Sanfratello fosse giusto, ma legale si, perciò, sdegnarsi per i metodi, come fecero molti intellettuali, significava non conoscere il paese nel quale si viveva; e poco importa se al processo il giovane uomo affermò di non essere stato plagiato da Braibanti, perché le sue affermazioni diventarono un’arma letale per dimostrare che l’assoggettamento fu così profondo da non consentire, nemmeno alle pratiche psichiatriche più in voga, di curarlo.
Al principio di realtà del processo, la stampa, gli scrittori, i poeti, gli avvocati del mirmecologo, preferirono orientarsi verso la petizione di principio, per cui la manipolazione mentale non esiste. Moravia (cfr. A. Moravia, a cura di, “Sotto il nome di plagio”, Bompiani, Milano, 1969), giustamente, insiste sulla possibilità che religiosi, insegnanti, e tante altre categorie, avrebbero potuto essere considerate plagiatrici, ma questo, ai fini del processo, fu inutile, perché l’art. 603 “bivaccava” nel codice dal 1930, a meno di chiedere alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla sua legittimità. Cosa che avvenne nel 1978 per Emilio Grasso e che portò alla dichiarazione di cancellazione del 1981, mentre Braibanti rimase al palo, vincolato ad una sentenza assurda sulla quale ancora si discute.
IL DIBATTITO INTERNAZIONALE
L’accusa ebbe 4 anni di tempo (1964-1968) per imbastire una linea processuale solida, utilizzando tutte le armi a disposizione: compresa quella di un articolo, il 603 del Codice penale, che garantiva ampi margini d’interpretazione da parte dei giudici, e una discussione planetaria sulle tecniche di manipolazione mentale, che, soprattutto negli Stati Uniti, in Russia, ma anche in Cina, vedeva impegnati importanti accademici.
Ricostruire l’interessante dibattito, per altro non concluso, sulle diverse posizioni in gioco, non è possibile, perché ogni studioso che si è occupato della faccenda offre una nuance particolare, a seconda che si tratti di uno psichiatra, di un filosofo o di uno psicologo, appartenente ad una scuola di pensiero piuttosto che un’altra.
Il problema reale, come successo in Italia, si concretizza nella misura in cui il legislatore offre spazio ad emendamenti dal contenuto illiberale, in quanto convinto, magari in buona fede, di servire una causa giusta. Del resto, il Novecento, con la psicoanalisi e la domanda sulla possibilità di condizionare l’inconscio, l’utilizzo in diversi ambiti dell’ipnosi, le teorie pavloviane, tutti i totalitarismi col personale obiettivo di generare uomini nuovi, ha creato scenari quantomeno distopici.
Il terrore americano sulla diffusione di idee comuniste negli anni ’50, grazie anche a metodi manipolatori, è tale da generare un fenomeno come il Maccartismo, pagina non certo nitida della storia “made in USA”.
Tra l’esercito e i servizi segreti dei rispettivi paesi coinvolti nei conflitti di Corea, Vietnam, e in generale la Guerra fredda, circolavano serie inchieste sullo stato di salute mentale dei prigionieri tornati in patria: la paura più grossa verteva sull’ipotesi che qualcuno di loro potesse aver subito il “brainwashing” – termine coniato da Edward Hunter, giornalista, propagandista statunitense, autore di libri diventati famosi nel decennio ‘50/‘60 – trasformandosi in potenziali nemici interni.
Un ultimo esempio per sintetizzare e semplificare il dibattito internazionale è il progetto MK-ULTRA, nato nel 1953, in forma clandestina ad opera della CIA, allo scopo di fare esperimenti sugli uomini con l’utilizzo di droghe specifiche, tecniche di tortura, vie della manipolazione, per estorcere informazioni. Il programma viene cancellato solo nel 1973, dopo vent’anni di violenze a discapito di cittadini canadesi e americani.
Il povero Giovanni Sanfratello è una specie di risposta italiana ai tentativi di de-programmazione mentale che si giocavano in altri scenari: non si spiegherebbero altrimenti shock insulinici, elettroshock, e chissà cos’altro, su un ragazzo ventitreenne la cui unica colpa è di convergere emotivamente con un essere umano di genere maschile.
Senza contare tutte quelle donne e uomini, che nel silenzio del clamore mediatico, hanno subito gli stessi trattamenti uscendone devastati. Dunque, se nel 1964 sono un genitore ultraconservatore che scopre l’omosessualità del figlio, possiedo conoscenze ad ogni livello, ho una legge, la n° 36, che mi permette di rapirlo, la connivenza dell’ordine degli psichiatri, un adulto poco più che quarantenne, ex partigiano, con idee riconducibili al marxismo nella sua forma avanzata, da accusare di plagio psicologico, il teorema è confezionato!
Altro che processo medievale, come molti, per pigrizia, ancora pensano.
A titolo informativo faccio presente che in Italia, la discussione sul reato di assoggettamento psicologico, non si è mai placata. Il giorno successivo alla pronuncia della Corte costituzionale, grandi giuristi, come l’ex “Ministro della Giustizia” Giovanni Maria Flick, si sono schierati contro la “Sentenza Grasso”, sottolineando il vuoto legislativo provocato dalla cancellazione.
Il primo tentativo di legiferare in favore del plagio si ha nel 1988, e il progetto di legge reca i nomi di Rosa Russo Jervolino e Giuliano Vassalli, politici non certo ascrivibili alla schiera degli antidemocratici.
Più vicino a noi è lo sforzo parlamentare ad opera della senatrice Elisabetta Casellati e del senatore Renato Meduri, quando, nel 2005, proposero un articolo, il 613-bis, col serio intento di aggirare le ipotesi di incostituzionalità poste in essere nel 1981.
A questo proposito è interessantissimo il resoconto stenografico, datato 8 novembre 2011, della II Commissione Giustizia 268° seduta, dove il Professor Antonio Pagliaro, emerito di diritto penale dell’Università di Palermo, sostiene che la versione più recente (progetto di legge del senatore Caruso, 2011) è un passo avanti decisivo per scavalcare gli ostacoli rappresentati dagli articoli 25 e 21 della Costituzione. Per fortuna, anche in questa circostanza, nulla di fatto. (cfr. https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/278999.pdf)
L’esigenza di legiferare in tal senso è proporzionale all’aumento del fenomeno delle sette pseudoreligiose, nel quale, i penalisti, ritengono di trovare margini di fuorviamento dell’identità psichica, che, una legge “ad hoc”, potrebbe sopperire. Ma il problema rimane, perché un uso sbagliato di questo strumento, potrebbe punire la qualità delle idee, piuttosto che una fattispecie di reato.
IL QUADRO STORICO
Nel 1979, Felix Cossolo, direttore della rivista “Lambda”, chiede e ottiene da Braibanti un’intervista nella quale si chiede conto del processo:
D: Secondo te qual è il vero motivo per cui ti hanno condannato?
R: Penso che sia la conseguenza inevitabile di un certo tipo di barriera: si voleva bloccare quella che si credeva un’ondata di ribellione e distruzione delle istituzioni. Il processo non era altro che un tentativo per salvare i baroni. Non dimentichiamo che avveniva prima della lotta contro il divorzio, contro l’aborto e soprattutto che la possibilità di rimettere in funzione il plagio poteva servire a una certa Italia. (cfr. https://www.culturagay.it/saggio/144, citazione da Rivista “Lambda”, anno IV, n° 20, gennaio – febbraio 1979).
Aldo Braibanti ha ragione, sebbene, dal mio punto di vista, approssimi per difetto. L’Italia a cui serviva il reato di plagio è quella delle complicità mai chiarite, dei poteri occulti e dei servizi segreti: le persone che ruotano attorno all’intellettuale piacentino sono le stesse che negli anni successivi avranno ruoli di primo piano nei processi stragisti, come per esempio Bologna o piazza Fontana.
A giudicare il filosofo nel 1968 c’è Orlando Falco, al quale verrà affidato l’anno successivo Valpreda, accusato ingiustamente di aver pianificato la strage alla Banca dell’Agricoltura (la convergenza temporale, 12 dicembre 1969, tra la lettura della sentenza di secondo grado al mirmecologo e piazza Fontana è sconvolgente).
Di grande rilievo la figura di Aldo Semerari, ordinario di criminologia a “La Sapienza” di Roma, direttore dell’istituto di psicopatologia forense e perito assai quotato nei tribunali italiani. Ebbene, il Professor Semerari segue tutte le perizie psichiatriche del processo, fornendo, dove serviva, la migliore interpretazione possibile per mantenere l’assedio sul Braibanti.
Personaggio ambiguo, il criminologo ha legato il suo nome alle vicende più oscure della storia italiana, come la strage di Bologna, il sequestro del democristiano Ciro Cirillo, il delitto Mino Pecorelli; grazie a consulenze tecniche compiacenti ha potuto servirsi di manovalanza criminale, compresa la “banda della Magliana” e le mafie storiche. Sarà proprio una faida camorrista a decretare la morte del perito forense, ritrovato decapitato nella sua auto davanti all’abitazione di Vincenzo Casillo, uomo di fiducia di Raffaele Cutolo.
Altri professionisti della “mente” hanno aiutato la famiglia Sanfratello a confezionare il teorema accusatorio, come Romolo Rossini, psichiatra di una clinica privata di Modena che, per primo, applicò gli elettrodi sul cervello del povero Giovanni. A seguire Cherubino Trabucchi, direttore del Manicomio Provinciale di Verona, fratello di Giuseppe Trabucchi, ministro delle Finanze tra il 1960 e 1963, nonché vicesindaco di Verona. Come fa notare Jervis sui “Quaderni piacentini,
Il caso è esemplare per un altro motivo. Esso dimostra in maniera lampante che l’autorità “tecnica” dello psichiatra non ha alcuna autonomia pratica, come non ha autonomia di scienza. Questa autorità è semplicemente la continuazione, sotto la maschera di rispettabilità accademica, della repressione famigliare e di quella statale.
Giovanni Sanfratello è stato considerato malato di mente quando questa etichetta e questa procedura erano le sole che potessero servire a sottrarlo in modo radicale ai suoi amici per restituirlo, dopo un congruo periodo di isolamento e ricondizionamento, alla famiglia; ed è stato considerato “non malato” e “mai malato” dai periti, quando l’operazione era ormai compiuta e quando questa tesi serviva ottimamente a dimostrare che le anormalità del suo comportamento erano da attribuirsi a Braibanti, e non a malattia mentale.
In ambedue le circostanze gli psichiatri si sono dimostrati non al servizio del potere, ma parte integrante del potere stesso. (cfr. G. De Matteo alias G. Jervis, “Quaderni piacentini”, VII, fascicolo 36, 1968, pag.78).
Se l’intuizione di Jervis è corretta, perché non estenderla ad altri settori dello Stato a loro volta solidali con un sistema repressivo? Non è che “il caso Braibanti”, tra qualche decennio, verrà considerato, viste le coincidenze di alcune date, come l’ultimo tentativo non armato di una strategia che di lì a poco insanguinerà l’Italia?
Mi rendo conto che la provocazione fa tremare i polsi, e che andrebbe specificata meglio, ma, più si approfondisce l’affare, e maggiore è la sensazione che il filosofo di Fiorenzuola d’Arda sia stato vittima di una prova generale, un passaggio obbligato per testare il sistema. Ma perché proprio la sua figura? Semplice da colpire per due motivi: il suo essere slegato a qualsiasi partito politico e ad una filiera editoriale altamente rappresentativa, e la sua omosessualità, condizione che solleticò l’omofobia strisciante di molti connazionali, al di là della professione.
Jervis, così porta a termine il suo articolo:
È lecito però esprimere un dissenso quando si legge nella stessa frase che si è trattata di una battaglia arretrata. Può darsi che difendere Braibanti sia una battaglia arretrata, ma qui non si tratta tanto di difendere una persona, quanto di capire e di colpire un sistema, e la battaglia contro il sistema ed i suoi meccanismi di violenza non è mai arretrata. (cfr. G. De Matteo alias G. Jervis, “Quaderni piacentini”, VII, fascicolo 36, 1968, pag.79).
CONCLUSIONI
Mi rendo conto di aver esagerato, nove cartelle di “word” sono tante per un articolo nato per essere pubblicato sul web. Vi assicuro che il sadismo non c’entra! Partecipa piuttosto la volontà di contribuire alla discussione, perché convinto che “l’affaire” Braibanti, non ha solo a che fare con una combriccola di preti, psichiatri, giudici conniventi, ma è il frutto maturo di un paese che, se da un lato si arroga il diritto di accusare qualcuno di plagio, dall’altro si rinuncia a difenderlo urlando allo scandalo intellettuale.
Come ho cercato di evidenziare, attorno al mirmecologo s’è scatenata la tempesta perfetta, costituita da dibattiti sul lavaggio del cervello a livello internazionale, da una destra incapace di recepire qualsiasi forma di cambiamento sociale, e, non ultima, l’incapacità di trasformare lo sdegno in una strategia utile al filosofo.
La stampa in genere, così come gl’intellettuali, il Partito Radicale nella voce di Marco Pannella, si sono schierati a favore della petizione di principio, la libertà di persone adulte di autodeterminarsi, dimenticandosi, che i processi, si giocano molto spesso su cavilli dialettici, sulla capacità della difesa di smontare teoremi accusatori.
E questo non è stato fatto, perché nell’Italia postunitaria, dopo Zanardelli, un reato contro l’omosessualità non è più esistito, dunque era inutile, come si evince dagli atti del processo, e dai quotidiani, sottolineare che ciò che si stava punendo era l’orientamento sessuale di Braibanti, oltre al suo essere ex partigiano e comunista.
Il reato contestato era il plagio, l’aver reso schiavi Giovanni Sanfratello e Pier Carlo Toscani. E purtroppo, il pronunciamento della Corte costituzionale, che nel dicembre del 1981 respinge la richiesta di revisione della sentenza formulata dal poeta piacentino, su questo è molto chiara. Perché in questo frangente è mancato anche il disappunto dei dotti e dei sapienti?
Webgrafia
Fondamentale per capire il reato di plagio è la “Sentenza Grasso”, nella quale si ricostruisce per intero il significato storico dello stesso. Si conclude con la dichiarazione d’illegittimità dell’art 603 del c.p.
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1981/06/10/081C0096/s1.
Per comprendere i tentativi parlamentari di legiferare in favore del plagio dopo il 1981 è utile consultare il resoconto stenografico (martedì 8 novembre 2011) della Seconda Commissione Permanente (Giustizia), nel quale, il Professor Antonio Pagliaro, prova a dimostrare il superamento delle perplessità espresse nella “Sentenza Grasso”.
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/278999.pdf.
I “Quaderni piacentini”, trimestrale di genere politico-sociale, pubblicato dal marzo 1962, fino al 1984 sono oggi interamente digitalizzati e consultabili al seguente sito:
https://bibliotecaginobianco.it/?e=flip&id=37&t=elenco-flipping-Quaderni+Piacentini.
Le citazioni nel testo dei quaderni piacentini:
https://bibliotecaginobianco.it/flip/QPC/07/3500/#92.
https://bibliotecaginobianco.it/flip/QPC/07/3600/#72.
La citazione relativa all’intervista a Braibanti sulla rivista “Lambda” è estrapolata dal sito:
https://www.culturagay.it/saggio/144.
Sono in corso di digitalizzazione tutti i numeri della rivista, consultabili in:
https://www.wikipink.org/index.php/Lambda_(rivista).
Il ciclostilato “a tutti gli uomini vivi” scritto da Aldo Braibanti si trova qui:
Bibliografia
– A. Braibanti, “Le prigioni di stato”, Feltrinelli, Milano, 1969.
– U. Eco, “Il costume di casa”, Bompiani, Milano, I° Edizione Tascabile, 2012.
– G. Ferluga, “Il processo Braibanti”, Silvio Zamorani Editore, Torino, 2003.
– M. Introvigne, “Il lavaggio del cervello: realtà o mito?”, Elledici, Torino, 2002.
– A. Moravia [et. al], “Sotto il nome di plagio”, Bompiani, Milano, 1969.
– S. Raffo, “Emergenze. Conversazioni con Aldo Braibanti”, Vicolo del Pavone, Piacenza, 2003.
– G. Rossi Barilli, Il movimento Gay in Italia, Feltrinelli, Milano, 1999.
– A. Valeriano, “Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista”, Donzelli, Roma, 2017.