Il Sinodo e noi parroci nelle chiese quasi vuote
Articolo di Carlo Verdelli pubblicato su “La Repubblica” del 17 ottobre 2014, pag.27
«Nel fine settimana, celebro cinque messe, una al sabato e quattro la domenica. Tra qualche anno, ne basterà una per tutto il weekend». Non è un prete disfattista, don Domenico, parroco ancora giovane di Solbiate Arno.
Anzi, ha più fede che mai nella sua fede. Solo che non si fa illusioni. «Almeno in Europa, non ci si aspetta più niente da Gesù. Uno crede di avere già tutto: cellulare, centro commerciale, magari la spa. E che se ne fa di Cristo, della fatica che richiede seguire la sua strada: la vita morale ce la si aggiusta secondo convenienza. Si vive in orizzontale, il trascendente è una rottura di scatole. E la colpa sarebbe tutta della Chiesa? Mah».
Abbassando gli occhi su un giornale che riporta le cronache vaticane di questi giorni, così cariche di sorprendenti promesse di cambiamento per divorziati, conviventi, omosessuali, e di non altrettanto sorprendenti resistenze, don Domenico mette fisicamente le mani avanti.
«Quello che mi auguro è di avere qualche nuovo strumento nella cassetta degli attrezzi che ogni sacerdote si porta in confessionale».
Sarebbe a dire? «Ma sì, qualche scelta in più di accompagnamento per le persone che cercano il Signore nonostante si siano messe fuori dalla sua legge. Penso ai divorziati risposati, alla possibilità di concedere loro di fare il padrino o la madrina a un battesimo, o di inserirli nei servizi di educazione ecclesiastica ». Ma non è poco, don Domenico? Padrino o madrina a un battesimo: tutto qui? Ormai ci sono più cinesi che cattolici, l’Islam è diventata la religione più diffusa e l’85 per cento degli italiani non va a messa.
Il mondo cambia a velocità supersonica, la Chiesa no. Papa Francesco l’ha capito il giorno stesso che è stato scelto, o è stato scelto proprio perché l’ha capito: in un anno e mezzo ha dato più di una scossa a questa sua Chiesa lenta.
L’ultima, piuttosto fragorosa, è appunto la convocazione del Sinodo straordinario sulla famiglia: 253 vescovi chiamati a confrontarsi «con umiltà» su un terreno altamente infiammabile come il sesso e le conseguenze pratiche, di relazione, dell’amore.
Il tutto ben sintetizzato proprio su Repubblica da Angelo Scola, arcivescovo di Milano e Papa per qualche giorno prima della fumata bianca per Bergoglio: «Il confronto con la rivoluzione sessuale in atto è una sfida non inferiore a quella lanciata dalla rivoluzione marxista».
Strumenti per raccogliere la sfida? «Ascoltare il mondo, aprire le porte, altrimenti il mondo non ascolterà più noi», indica con pragmatismo Adolfo Nicolàs, il capo dei gesuiti, non a caso i confratelli di Francesco, motore mobile di questa esigenza di dialogo, di questa urgenza di aggiornare il linguaggio, di prestare più attenzione alle aperture caritative che alle crudezze dogmatiche. Come può resistere una religione chiusa nelle sue verità in un mondo dove le connessioni dei cellulari hanno superato il numero di abitanti del pianeta?
La molla che muove gli innovatori è probabilmente la stessa del Concilio Vaticano II, quello dei due papi (Giovanni XXIII lo inaugurò nel 1962, Paolo VI lo chiuse nel 1965): ringiovanire la Chiesa, adeguarla al tempo presente.
Allora, tra le tante cose, cambiò la messa: non più in latino, non più col prete che dava le spalle alla platea, e con la libertà di canto e chitarre sull’altare. Fu una ventata potente e profetica, che anticipò il ciclone del Sessantotto.
Adesso, nell’immediato, non cambierà niente, a parte l’invito di una parte del clero a prossime scelte coraggiose verso categorie fino a ieri in punizione, dai gay (addirittura simbolo di perversione) alle coppie fuori del matrimonio. Sarà poi il Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2015 a presentare al Papa il risultato di tanto discutere: a quel punto, a lui decidere.
E secondo lei, don Domenico, tutto si ridurrà a qualche strumento in più nella cassetta degli attrezzi del confessore? «È come se Francesco avesse accorciato di un colpo le distanze con la gente. I gesti, le tenerezze, il parlare chiaro, cose che catturano subito. È sudamericano, eh, ci sa fare, il che è un gran dono. Mi sono trovato a confessare persone che non vedevo da tempo. Sempre poche le persone che si confessano, e soprattutto sempre meno. Ma comunque è un segnale. Come questo Sinodo, altro segnale. Nel mio piccolo, leggo tante cose, tanti annunci, aspettiamo».
Nel suo piccolo, don Domenico Sirtori, brianzolo di 47 anni, da cinque parroco di Solbiate Arno, che a dispetto del nome non sta in Toscana ma nel Varesotto (“Arno” è il capriccio di una potente famiglia fiorentina che volle battezzare così un rigagnolo che sfocia nell’Olona), è un prete qualunque, uno dei 400 mila in missione nel mondo contro «la globalizzazione dell’indifferenza». Un prete ancora felice di esserlo dopo 22 anni di servizio. Veste da prete, con le scarpe da ginnastica nere. Vive da prete, in una casa attaccata alla chiesa di San Maurizio, dove si muovono solerti anziani devotissimi.
Amministra quattromila anime in un comune da sempre di centrodestra, il che non aiuta visto che don Domenico passa per uno di sinistra, «ma è una sciocchezza, sono figlio della cultura post democristiana, avrò votato venti partiti diversi. La mia generazione ha perso il senso di appartenenza». Tranne quello in Cristo, almeno lui, uno dei 2200 sacerdoti della diocesi ambrosiana, ancora la più grande del mondo con oltre quattro milioni di battezzati.
«Mi ha consacrato il cardinal Martini, un pastore tutt’altro che impermeabile ai segni dei tempi. Eppure i suoi discorsi di Sant’Ambrogio sulla responsabilità della politica come forma di impegno e di carità sono restati lettera morta. Dov’è la classe dirigente cattolica lombarda: nello scandalo dell’Expo?
E dove sono finiti i cristiani capaci di incidere nella vita sociale, la sinistra che difende i meno tutelati? Certo, anche la Chiesa, la mia Chiesa, ha delle responsabilità in questa crisi di moralità trasversale. Ma temo che il problema sia davvero più generale».
Che onda arriverà sull’Arno che non è l’Arno delle tante polemiche che si solleveranno fino al 18 ottobre nel Sinodo vaticano? «Sa quanti sono i divorziati-risposati che in vent’anni mi hanno chiesto di fare la comunione? Una decina, non di più. A me il Sinodo sulla famiglia sta benissimo, e altrettanto sento mie le attenzioni verso chi nel popolo di Dio si trova in situazioni di non sintonia con i princìpi evangelici.
Per dire, l’ascolto verso gli omosessuali nella chiesa di base c’è già da trent’anni. Il problema è che io, pastore, non posso dire a un gay che la sua scelta è un bene, che è normale, perché normale, per un cristiano, è l’unione tra un uomo e una donna. Così è scritto».
In numeri assoluti il popolo del Vaticano tiene, un miliardo 200 milioni di fedeli, e cresce anche un po’.
Il problema, posto che lo sia, è che l’incremento è garantito da Africa e Asia, mentre soprattutto l’Europa mostra cali allarmanti (per gli aspiranti preti, oltre il 20 per cento). Prendiamo Milano: nel 1992, il cardinal Martini consacrò quarantacinque nuovi sacerdoti (tra cui don Domenico); nel 2013, Scola si è fermato a diciannove.
Nel Sinodo straordinario di questi giorni non rientrava il tema del celibato dei preti o del nubilato delle suore. Verrà anche quel momento, per forza di numeri e di cose?
Il parroco di Solbiate Arno è diventato sacerdote a 25 anni, entrando in seminario a 18, una vita vergine di donne. «Una scelta, frutto di un’altra scelta, che rifarei uguale perché ha e mi dà senso. Quanto ai numeri, non credo che lasciare sposare preti e suore arginerebbe la crisi delle vocazioni. Anglicani e luterani lo permettono ma Inghilterra e Germania hanno lo stesso problema».
La morale qual è, don Domenico? «Che i giovani sono ormai altrove e che una vocazione, come la mia per esempio, nasce da una famiglia che prega a tavola, che va a messa, che sceglie una vita di relazioni nel nome della morale del Cristo.
Adesso manca tutto il tessuto connettivo, e di conseguenza mancano le vocazioni. Ho dei nipoti, neanche loro sentono il bisogno di Chiesa. Io apprezzo molto Papa Francesco, trovo spettacolare che abbia scelto Lampedusa come primo viaggio ufficiale. Ma diffido dell’idolatria verso la figura carismatica.
Altrimenti si rischia che un concerto diventi la stessa cosa di un’udienza in Vaticano. Ma non lo è».
E sotto una pioggia lombarda, alzandosi da un divano dai colori improbabili, don Domenico ci accompagna alla macchina reggendo un ombrello nero e sdrucito.