Il Sinodo: perché non ci spero troppo
Riflessioni di Massimo Battaglio
Domenica scorsa ho partecipato per la terza volta a un’iniziativa sul contributo che i gruppi LGBT possono dare per il Sinodo della Chiesa Italiana. E’ stato un bell’incontro. Devo però confessare che la cosa non mi convince.
Per carità: trovo significativo che queste riflessioni non siano state reclamate da noi ma ci sono state richieste. Sembra che almeno qualcuno, tra coloro che stanno organizzando il grande appuntamento dei vescovi d’Italia, si renda conto che non si può fare a meno di sentire anche la voce delle persone con orientamento sessuale non eteronormativo. O perlomeno: sembra che, a non farlo, oggi, si rischierebbe una gran brutta figura.
Non c’entrano le ultime parole del papa. I nostri incontri sinodali erano programmati da ben prima. Ma non sono comunque convinto. Non perché li ritenga inutili o perchè creda aprioristicamente che i nostri documenti saranno travisati. Il problema è che ho proprio poche aspettative dal Sinodo.
Intorno a me vedo una Chiesa ridotta al lumicino. Entro in chiese semideserte in cui prevalgono le teste bianche; sento catechisti che, prima di fare qualunque gioco coi bambini, devono provare a convincerli che esiste Dio e che non è l’aiutante di Babbo Natale.
E vedo comunità portate avanti da persone con scarse motivazioni e scarsissimo livello culturale (in senso lato). Oggi, in parrocchia, non si va per dare una mano ma per colmare un disagio. Il servizio è rivolto a se stessi e al proprio benessere più che a quello collettivo.
Fare volontariato o palestra è diventato la stessa cosa: un modo per togliersi di casa. E infatti non produce cambiamento ma solo meschini protagonismi, che non vengono affrontati quasi mai con la discussione ma più spesso col bisticcio.
Il Vangelo interessa sempre meno persone rette e serenamente risolte. La Chiesa di oggi, quando ha voglia di far qualcosa, è ridotta a raspare nel campo che dovrebbe competere ai Servizi di Assistenza Sociale o di Igiene Mentale.
E’ vero, mi si obietterà, che Paolo ai Corinzi diceva:
“Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1Cor 1, 26-27)
Il che significa che la composizione sociale della Comunità di Corinto rifletteva perfettamente quella della società intera per volere di Cristo, che sta dalla parte degli ultimi. Ma il problema è che oggi, in Chiesa, di sapienti, non ce n’è proprio nessuno, a prescindere dal reddito. E chi ha potere sta facendo di tutto per allontanare i pochi rimasti.
Quanto ai sacerdoti, anche quelli che conosco, si dividono tra i demotivati e i nostalgici, con poche eccezioni. Gli uni sono quelli che non sanno più che pesce pigliare. Gli altri sono coloro che, qualche ricetta, ce l’avrebbero ma la vanno a pescare, se va bene, nei manuali del Concilio Vaticano II, se no, di quello di Trento.
Sono nostalgie profondamente diverse, l’una tenera, l’altra repellente, ma capaci soltanto, come tutte le nostalgie, di produrre malinconia o arroccamento e, alla fine, di giustificare il dolce far niente.
Non c’è più quella frattura sana tra preti curiali e preti di strada. Prevale la figura del prete fannullone, che si lamenta che non c’è più nessuno ma non fa nulla per coinvolgere nessuno. O al massimo, si mette a fare catechesi su youtube, illudendosi che il vuoto di relazioni – che porterebbero ad azioni e fatti concreti – possa essere colmato con mezzi hi-tech.
I vescovi non sono altro che preti a loro volta, ancora più esposti ai rischi derivanti dal potere. Perfetti uomini di Chiesa, forse di religione, quasi mai di fede. Ed è da loro che dovremmo aspettarci qualcosa attraverso il Sinodo?
La Chiesa di oggi ha bisogno di cambiamenti enormi, che partono certamente dal dialogo ma non finiscono lì. E questi cambiamenti si operano a due sole condizioni. La prima è che si capisca che è ora di cambiare. La seconda, che si creda davvero che, per cambiare, occorre fidarsi di coloro che sinora è stato tenuto al margine.
“È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea” (Mt 28,5).
Così si dice nel Vangelo della Resurrezione. Gesù risorto non attende i suoi al tempio di Gerusalemme (o in Vaticano) ma in estrema periferia, dove abitano persone che non sanno parlare l’ebraico (o il latino) e dalle quali non c’è da attendersi niente di buono. “Nessun profeta può provenire dalla Galilea”, sentenziavano i farisei in Gv 7,52. Eppure, Gesù ci precede proprio lì.
Chi ha chiesto anche a noi un contributo per il Sinodo, forse si è ricordato queste cose e ha capito che, per la Chiesa, è questione di sopravvivenza. Non credo infatti di essere presuntuoso se mi identifico perfettamente negli abitanti della Galilea: in quelli che, a causa delle loro presunte imperfezioni, sono stati messi da parte.
Oso dirla tutta: io mi sento, e noi possiamo sentirci, tra coloro che
“sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7,13).
Credo di avere non solo il diritto ma la responsabilità di far parte della “moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (ibidem 9) che si presenta fieramente davanti al trono di Dio. Perché aver conservato la fede dopo tutte le tribolazioni che gli uomini di fede ci hanno fatto passare, non è cosa da tutti. Molti preti e vescovi l’hanno persa per molto meno.
Se vogliono celebrare il Sinodo del cambiamento, i primi che devono ascoltare (non accogliere, con questo brutto termine ambiguo, ma proprio stare a sentire in spirito di obbedienza) siamo noi.
Altrimenti, continuino a consolarsi con le residue teste bianche che popolano scarsamente le chiese. Forse riusciranno ad arrivare anche loro alla pensione, ammesso che ciò che resterà dell’otto per mille consenta loro di avere qualcosa in più di una pensione.