Il sutra del fungo
Riflessioni del pastore Alessandro Falasca* pubblicate sul sito della Comunione Unitariana Italiana il 16 dicembre 2018
Carissime e carissimi, pochi giorni fa, durante la cena pre-natalizia con i colleghi di ufficio, si parlava di funghi, se ne rammentava l’enorme varietà di tipi e la rete di vita che essi intessono sotto talune zone dei boschi. Mi è venuto spontaneo notare il parallelo con i nostri insegnamenti UU di accoglienza della diversità e di rispetto per la rete interdipendente dell’essere. Negli ultimi tempi, poi, abbiamo approfondito con Massimo il buddhismo nei suoi aspetti più universalisti ed ho rammentato come l’insegnamento dell’“inter-essere” (per usare il gergo del monaco Thich Nhat Hanh) sia uno dei più rilevanti tra questi. Così, troppo ghiotta era l’idea di intitolare il sermone “Il sutra del fungo”.
Sì, lo so, Buddha non ha mai pronunciato un discorso che riporti questo titolo, ma il nostro spirito trascendentalista ci invita a ricercare i discorsi della saggezza non solo nelle parole scritte degli antichi, ma anche in quelle non scritte della natura. E dal fungo possiamo comprendere una realtà fondamentale. Quelli che noi chiamiamo “funghi”, quelli che raccogliamo e (possibilmente) gustiamo, in realtà sono soltanto i miceli del fungo, ovvero i frutti, le escrescenze, le espressioni individuali. I tanti miceli che troviamo in una fungaia sono in realtà tutti frutto di un unico fungo, che si sviluppa sotterraneamente come una fitta rete. Ecco, spesse volte noi percepiamo il nostro essere solo nella limitata dimensione della nostra individualità e non ci accorgiamo che, in realtà, noi siamo connessi ad una rete di vita, senza la quale né potremmo essere nella nostra esistenza, né potremmo essere pienamente nella nostra autenticità.
Riflettendo sugli insegnamenti del Buddha sull’impermanenza (cioè, nulla è per sempre) e sulla non-sostanzialità (ossia, nulla è davvero in sé qualcosa), la plurisecolare riflessione buddhista è rifuggita da un possibile esito nichilista ed è giunta a trarne la lezione fondamentale dell’“inter-essere”, che Thich Nhat Hanh così descrive: “In questo foglio di carta c’è una nuvola. Senza la nuvola, non c’è pioggia; senza pioggia, gli alberi non crescono; e senza alberi, non si può fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. Se non ci fosse la nuvola, non ci sarebbe nemmeno il foglio di carta. Quindi possiamo dire che la nuvola e la carta inter-sono… Essere è inter-essere. Non possiamo essere da soli, per conto nostro. Dobbiamo ‘inter-essere’ con tutto il resto. Questo foglio di carta è perché è tutto il resto”. Cristianamente, l’immagine del “corpo di Cristo” potrebbe leggersi come una rappresentazione di questa fondamentale unità. Sul piano UU appare ben chiaro come tutto questo abbia a che fare con il nostro settimo principio: “Il rispetto per la rete inter-dipendente dell’essere di cui facciamo parte”. Questo è senz’altro vero, ma, proprio riflettendo su questi temi, il reverendo UU John Ismael Ford, guarda caso anche lui un buddhista, sottolineava come l’essenza dello UUismo stia nel tenere insieme due cose inevitabilmente in tensione tra loro, espresse nel primo (il rispetto per il valore e la dignità propria di ogni individuo) e nel settimo principio. Non possiamo, infatti, fare finta che questa tensione non esista: quante donne si sacrificano per la famiglia e ad un certo punto sentono di essersi annullate per gli altri? Quanti si spendono per un ideale al punto tale da perdere il senso della propria individualità ed il proprio spirito critico? In realtà (e qui sta la forza dello UUismo, a mio avviso) nel modo in cui pone insieme individualità ed unità lo UUismo indica già un superamento di questa tensione, benché essa si riproporrà sempre, nei fatti, al nostro percorso di persone sempre in crescita, perché sempre perfettibili.
Questo superamento sta nell’adagio che ripetiamo fino alla noia, ovvero in quell’invito ad “unire senza unificare”. Rispettare il valore e la dignità di un individuo significa rispettarne il diritto non solo a non essere trattato (come ci rammenta la definizione kantiana della dignità) come un fine e non come un mero scopo, ma anche a ricercare, trovare ed esprimere se stesso. Questo guida la modalità del nostro “inter-essere”, che deve significare in primo luogo “interessarsi”, ossia porre attenzione alle esigenze dell’altro, ma poi tradurre questo interesse nell’azione per l’altro, avendo rispetto della sua difficile ricerca di sé e della propria espressione. Inter-essere significa, infatti, “essere tra”, non essere “al posto di”. Dobbiamo percepire la nostra unità, farne stimolo per la nostra attenzione alla vita e alle vite, ma non dobbiamo unificare ed uniformare o, al contrario, unificarci ed uniformarci in virtù di questo. Pretendere che ciò non venga fatto nei nostri confronti è il sacrosanto diritto dell’individuo al rispetto del proprio valore e della propria dignità. Imparare a farlo noi nei confronti degli altri è un esercizio non solo morale, ma profondamente spirituale, ed è il modo UU di vivere un insegnamento sotteso a tante spiritualità: pensiamo all’azione disinteressata del buddhismo, o all’agire-non-agendo del taoismo (o, per una traiettoria un po’ più lunga da spiegare, al “sia fatta la Tua volontà” dei cristiani), che, con immagini diverse, ci descrivono lo stesso atteggiamento mentale e spirituale di attenzione, apertura e rispetto verso le espressioni della vita, quelle espressioni che sono certo solo il micelio del grande fungo che cresce sotto i nostri piedi, ma sono quelle espressioni che pongono il fungo in relazione con le altre vite di piante, animali e uomini, nonché quelle espressioni che danno sapore al fungo e alle nostre vite che “inter-sono” con lui.
Potremmo salutarci qui, è già tanta roba su cui riflettere. Ma siamo prossimi al Solstizio di Inverno ed al Natale, e, nel fare le mie ricerche per questo sermone, mi sono imbattuto in un’altra storia interessante sui funghi, che riguarda proprio il Solstizio d’Inverno ed il Natale (che, come sapete, sono collegati). Sembra, infatti, che alcune popolazioni della Siberia consumassero, durante i riti per il Solstizio d’Inverno, alcune parti trattate di un fungo velenoso, l’Amanita Muscaria, che altro non è che il fungo rosso a puntini bianchi che impariamo a disegnare da ragazzini e che è associato alle fiabe e alle fate, per sfruttarne le potenti proprietà allucinogene. Si narra che lo sciamano, vestito di rosso e bianco come i colori del fungo, passasse tra le case a distribuire i miceli, che venivano poi lasciati essiccare appesi ad un albero, e che da qui siano derivati alcuni degli elementi della figura di Santa Claus e dell’iconografia del Natale. Ovviamente è difficile dire se e quanto di ciò sia vero e fondato, né voglio qui invitarvi all’utilizzo di alcaloidi per esperienze psichedeliche fuori luogo. Mi interessava piuttosto raccogliere gli aspetti legati alla simbologia del Solstizio ed alla metafora del fungo. Il Solstizio è un momento in cui la vita, come la luce, sembra spegnersi. Il freddo, il buio, la natura che si ritira, tutto questo poneva in profonda crisi gli esseri umani, costretti a prepararsi alle difficoltà del lungo inverno. Il Solstizio è in sé immagine di questa crisi, ma anche della speranza connessa alla luce, che da lì in poi riguadagnerà astronomicamente il suo tempo. L’immagine del fungo ci ricorda, però, che serve qualcosa di più della speranza per superare l’inverno. I funghi sono esaltazione della capacità creativa della vita: né piante, né animali, ma creazioni curiose e misteriose, a volte succulente, a volte velenose. Se l’inverno ci invita a chiuderci nella nostra interiorità, meditando sulla nostra crisi e raccogliendo le energie per superarla, il sapore magico e le proprietà a volte psicotrope dei funghi ci ricordano, simbolicamente, che in questo ritirarci in noi, dobbiamo anche saperci aprire alla creatività sottesa alla vita tutta, ma anche che dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione per concepire nuovi modi di essere. Non abbiamo forse bisogno di rischiare il fegato assaggiando un’amanita muscaria, ma abbiamo certo bisogno, nel nostro inter-essere, di assaggiare la creatività della vita tutta e di aprire ed espandere attraverso di essa le nostre menti, per rinnovarci nello spirito ed immaginarci attraverso ed oltre gli inverni delle nostre esistenze.
Nella Via verso l’Uno,
Alessandro.
* Laureato in Economia, ma da sempre interessato a filosofia e spiritualità, Alessandro Falasca è UU dal 2008 ed ha partecipato attivamente alla formazione della Comunione Unitariana Italiana. Particolarmente legato al trascendentalismo unitariano e all’universalismo emergente, la sua ricerca spirituale è ispirata al Taoismo e al Cristianesimo, ritrovando nella “teologia del processo” la base ideale per una loro sintesi. Negli ultimi tempi si è avvicinato all’I Kuan Tao, tradizione sincretica cinese.