Il teologo Maurizio Chiodi: “Omosessuali. Una pastorale oltre la retorica delle aperture”
Intervista di Luciano Moia al teologo morale don Maurizio Chiodi* pubblicata su Noi famiglia & vita, supplemento mensile allegato ad Avvenire del 28 luglio 2019, pp.34-37
Cos’è il desiderio sessuale? Cos’è l’eros? Che rapporto c’è tra e mozioni e libertà? Quale nesso tra esperienza di sé ed incontro con l’altro? Rispondere a queste domande significa ridare senso a un’antropologia inclusiva, capace di aprirsi a nuovi percorsi pastorali con e per le persone omosessuali. E la riflessione di don Maurizio Chiodi, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. «Come Chiesa, e come teologi, dobbiamo a avere il coraggio di ripensare queste domande superando la tentazione di rispondere semplicemente invocando la “natura” umana, intesa come una sostanza immutabile».
La Chiesa ha avviato un difficile percorso per dare concretezza all’invito di papa Francesco (Al 250) a proposito della necessità di accompagnare le persone omosessuali «a realizzare pienamente la volontà di Dio nella propria vita, nel rispetto della dignità di ciascuno ed evitando ogni discriminazione. A tre anni dalla pubblicazione dell’Esortazione postsinodale qualcosa si è mosso, ma le resistenze sono ancora tante. Crede che la Chiesa non sia ancora pronta ad avviare una pastorale davvero inclusiva verso queste persone?
Forse, più che dire che la Chiesa sta avviando percorsi nuovi, si può dire che oggi, anche grazie a papa Francesco, questi cammini pastorali stanno acquistando maggiore visibilità e se ne avverte improcrastinabile esigenza. Le difficoltà sono molte. Le sintetizzerei in due, per semplicità. La prima è di ordine generale ed è legata alla crisi del costume sociale, che si caratterizza per la forte di diminuzione di comportamenti condivisi: oggi si esalta l’autonomia del soggetto, ma questi risulta sempre più incerto e confuso.
Si accentua, così, il fenomeno della privatizzazione individualista di un soggetto ripiegato su di sé, i suoi affetti, desideri ed emozioni. I legami, che pure esistono, risultano difficili da riconoscere re, perché sono vissuti in modo autocentrato e vengono ricercati solo se gratificanti. Se a questo aggiungiamo le straordinarie scoperte tecnico-scientifiche, dove tutto ciò che è tecnicamente possibile sembra buono, comprendiamo come oggi appaia sempre meno evidente la questione morale, a tutti i livelli.
In tale clima, ed è la seconda difficoltà, la tentazione dei cristiani è di ricorrere al linguaggio del passato, attaccandosi ad una morale legalista, ridotta a norme da
osservare. Al n. 305 di Amoris laetitia Francesco dice, certo parlando dei pastori e riferendosi a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, ma la stessa cosa
si può dire per tutti, «che un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle per
sone». Le difficoltà pastorali sono strettamente legate alla resistenza a pensare la questione omosessuale, oscillando dal disagio di chi «non sa che cosa dire» all’auspicio di aperture e rinnovamenti a volte scoordinati o retorici.
Anche nel documento finale del Sinodo dei vescovi sui giovani si sollecitano attenzioni pastorali verso le persone omosessuali, ma finora non esistono “linee guida” per impostare un percorso specifico. Su quali criteri bisognerebbe muoversi?
Dal mio punto di vista di teologo, ritengo che le prospettive pastorali potrebbero essere illuminate da una riflessione sulle domande antropologiche e teologiche fondamentali, implicate nella “cura pastorale delle persone omosessuali“, come era intitolato il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (1°ottobre 1986), firmato dal cardinale Ratzinger.
Queste domande vanno alla radice dell’esperienza umana universale: che cos’è il desiderio sessuale (eros)? Che rapporto c’è tra sentire (emozioni) e volere (libertà)? Che cos’è il proprio corpo, con il desiderio che lo abita? Quale nesso c’è tra esperienza di sé ed incontro con l’altro? Che cos’è la cultura?
Come Chiesa, e come teologi, dobbiamo avere il coraggio di ripensare queste domande superando la tentazione di rispondere semplicemente invocando la “natura” umana, intesa come una sostanza immutabile e conosciuta dalla ragione una volta per sempre, in modo innato, e identificata con l’organismo biologico che diventerebbe il “dato naturale” di base.
Nell’uomo infatti tutto ciò che è organico biologico rimanda originariamente al corpo proprio, il corpo di carne, e questo corpo rimanda al sé personale. A sua volta, il sé rinvia all’altro e agli altri, nelle forme complesse delle relazioni socio-culturali. In tale orizzonte, per il credente, nasce la grande questione del rapporto tra la creatura e l’Origine, che è Dio.
Chi critica la decisione delle diocesi di aprire le porte alle persone omosessuali si muove solitamente su due registri. Gli intolleranti assoluti sostengono che non sia giusto dare spazio a persone “colpevoli” di un peccato che, secondo il catechismo di Pio X, “grida vendetta agli occhi di Dio». Gli intolleranti mascherati ritengono che non sia giusto “ghettizzare” dal punto di vista pastorale queste persone e che sarebbe sufficiente indirizzare verso le proposte ordinarie. Cosa risponde re a queste critiche?
Anzitutto va detto che anche il citato Documento sulla “cura pastorale delle persone omosessuali”, riprendendo un testo del 1975, affermava con chiarezza che
«la particolare inclinazione della persona omosessuale», come tale, non può essere considerata peccato (n.3), poiché non è una scelta, ma appartiene a ciò che il soggetto scopre in sé, nelle modalità più diverse. Non si può dunque dire che una cura pastorale per queste persone ci trasforma in complici di un peccato, perché appunto peccato non c’è e anche perché, in ogni caso, la cura pastorale non si nega a nessuno.
Se poi sia giusto favorire una pastorale ad hoc, personalmente non ho dubbi, ma con una cautela. Ritengo che sia bene offrire la possibilità di gruppi, associazioni o iniziative, sia per le persone omosessuali sia per le loro famiglie – evitando qualsiasi forma di indebiti “gruppi di pressione” dove questi credenti siano protagonisti attivi e non semplici spettatori di una cura che spetterebbe ad altri. Tuttavia questa attenzione dovrebbe rimanere una possibilità, per chi la desidera, senza limitirare l’accesso delle persone omosessuali alle iniziative pastorali ordinarie.
La diocesi di Torino è stata al centro di forti polemiche per la sua decisione di proporre agli omosessuali credenti un percorso sulla fedeltà. L’incontro, dopo le critiche del 2018 si è tenuto poi nello scorso aprile. E gli attacchi si sono ripetuti nella convinzione che sia incoerente parlare di fedeltà a persone che non dovrebbero essere incoraggiate a rimanere “fedeli al peccato” ma solo a cambiare vita. Come valuta questi “consigli”?
Tutto dipende dal significato che si dà alla parola fedeltà. Parlare di fedeltà al peccato è una contraddizione in termini. Non credo che un gruppo cristiano possa o voglia parlare con questo linguaggio e in questo modo. La fedeltà per un credente è sempre la sua risposta al dono di grazia che, a cominciare dal battesimo, lo ha coinvolto in un vissuto personale ed ecclesiale, un cammino e un’esperienza di fede: a questo rimanda il senso della parola fedeltà. E la fedeltà al dono di Dio, nella propria storia, dentro la Chiesa.
Papa Francesco parla spesso di inclusività, integrazione, misericordia, accoglienza. Esistono fondamenti biblici per estendere questi atteggiamenti pastorali anche alle persone omosessuali?
Anzitutto, dalla misericordia nessuno è escluso se non chi si autoesclude: è il caso dell’ipocrita, come è chiaro nel Vangelo. A nessuno Gesù ha rivolto parole tanto dure come agli ipocriti, e cioè coloro che si presumono giusti, come si vede in molti passi evangelici, da Mt 23,1-12 a Lc 18,9-14. La domanda, poi, aprirebbe ad un discorso biblico che è molto più complesso di quanto comunemente si afferma: che cosa dice la Scrittura dell’omosessualità?Io vorrei limitarmi al bel testo di Gen 2,18. Si tratta di una parola che dice il senso di eros, il deside rio sessale: «Questa volta/ è osso dalle mie ossa,/ carne dalla mia carne. /La si chiamerà donna, / perché dall’uomo è stata tolta». E bello che la prima parola di una persona – ‘adam di Gen 1-2 è ogni uomo – sia legata al riconoscimento di una/o che è insieme altro e come sé.
È interessante che qui la differenza sessuale è affermata come l’evidenza prima e irrinunciabile della differenza, ma questo non significa che l’incontro con l’altro si riduca alla differenza sessuale: dal bianco/nero, giovane/vecchio, malato/sano ecc. le forme della differenza sono innumerevoli. La parola di Genesi dice che tra sé e altro da sé c’è una relazione originaria. Questo vale anche per l’identità e la relazione sessuale: nessuno può dire di essere uomo (maschio), se non passando attraverso l’incontro con la donna (femmina) e viceversa.
Al versetto successivo, Genesi dice che il senso del desiderio sessuale (o eros) è la comunione di “un’unica carne” (v. 24). È da ricordare che il verbo “si unirà”, al futuro, indica un agire aperto al dramma: tra promessa e compimento, c’è la decisione della libertà. In altre parole “unirsi” è un compito, che scaturisce da un bene, che è una “vocazione” da accogliere responsabilmente e non un semplice dato di fatto “naturale” o un punto di partenza immutabile. La relazione, nella coppia, implica il continuo passaggio tra separazione e unità, differenza e alleanza, reciprocità e asimmetria.
Ora io ritengo che l’evidenza di questa differenza, prima che nel sentimento del l’innamoramento, si dia anzitutto nel vissuto in cui ogni figlio fa esperienza della relazione con il padre e la madre. L’evidenza di tale differenza sta all’origine anche della persona omosessuale e quindi appartiene alla sua identità. Ma, nelle persone omosessuali, questa differenza non è sentita come forma del proprio desiderio (sentire) e quindi non diventa un compito etico personale (volere).
Il motivo per cui, in una persona concreta, manchi questo desiderio, non si può dire in astratto, ma dipende sempre dal suo vissuto, in un complesso intreccio di fattori personali, corporei, familiari, relazionali, culturali. Per investigare concretamente queste “origini” è molto importante l’apporto delle cosiddette “scienze umane”, in particolare la psicologia, la sociologia e la medicina.
È d’accordo con chi sostiene che gli atti all’interno di una coppia omosessuale dovrebbero essere valutati sulla base dei frutti spirituali che producono, se ordinati o meno cioè a costruire il bene della persona?
Si apre qui la famosa questione etico-antropologica del rapporto tra inclinazione e atti. Dobbiamo però evitare di instaurare tra i due aspetti una netta separazione o una divisione. L’inclinazione e l’agire sono inseparabili. Proprio per evitare il rischio del dualismo, io parlerei di un compito etico che scaturisce da una promessa di bene. Il primo compito morale, per tutti, è di dare nome e assumere la propria esperienza storica, quella che ci identifica nella nostra singolarità, per vivere buone relazioni con gli altri: tutti siamo chiamati a rispondere al bene ricevuto e, partendo da questo, a decidere di noi stessi. In secondo luogo, anche la persona omosessuale è chiamata, nel suo modo specifico, a percorrere un cammino di relazioni caste, virtuose, capaci di amicizia e fraternità. A tale impegno, che nasce dal dono di Dio, nessuno si può sottrarre.
In terzo luogo, come papa Francesco ha ricordato, seppure a proposito di un’altra questione, i “divorziati risposati”, è evidente che, all’interno di una prospettiva storica, a ciascuno è chiesto non solo quello che gli è possibile, ma anche quello che gli è possibile in un momento determinato della sua vita.
In quarto luogo, il compito etico riguarda l’agire e le scelte delle persone omosessuali, come per tutti. In questo orizzonte si pone la questione delicata, riguardante una relazione di coppia omosessuale.
Sotto tale profilo, a me pare sia difficile – anzi impossibile – dare delle risposte pre-confezionate, come se da una teoria antropologica si potessero dedurre immediatamente tutte le risposte pratiche. Io ritengo che le relazioni delle coppie omosessuali presentino lacune e innegabili differenze che impediscono di equipararle alle coppie eterosessuali, annullandone la diversità ciononostante, il compito morale riguarda le effettive possibilità, vale a dire il bene possibile, che tenga conto della storia effettiva di un soggetto.
Per tale ragione, non escluderei che, a certe condizioni, una relazione di coppia omosessuale sia, per quel soggetto, il modo più fruttuoso per vivere relazioni buone, tenendo conto del loro significato simbolico, che è insieme personale, rerazionale e sociale. Questo, ad esempio, accade quando la relazione stabile sia l’unico modo per evitare il vagabondaggio sessuale o altre forme di relazioni erotiche umilianti e degradanti o quando sia aiuto e stimolo a camminare sulla strada di relazioni buone.
Crede che un atteggiamento più inclusivo da parte della Chiesa possa indurre gli omosessuali che oggi sono decisamente lontani a guardare con maggior attenzione a un percorso di fede?
Non solo è possibile, ma è necessario. Certo, questo deve evitare facilonerie e improvvisazioni. E una via da percorrere con saggezza e discernimento, anche avvalendosi di esperienze pastorali già collaudate. La grazia del Vangelo e il cammino che essa presenta, alla radice, non sono diverse per il mondo gay, rispetto alla chiamata rivolta a tutti, anche se ciascuno ha le sue forme specifiche. Alla fine, pero, dentro la stessa comunità, siamo tutti impegnati nella comune sequela del Signore.
* Don Maurizio Chiodi, sacerdote della diocesi di Bergamo, è docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Tra i tanti incarichi è stato Consulente diocesano dell’Associazione Medici Cattolici Italiani per la sezione di Bergamo; membro del Comitato Etico degli Ospedali Riuniti di Bergamo; membro del Comitato Etico dell’Istituto Medea della Nostra Famiglia di Bosisio Parini; membro del Comitato Etico dell’Istituto Scientifico San Raffaele di Mi
lano. Dal settembre 2012 fa parte del Board Bioetico della Poliambulanza di Brescia.
Sterminata la sua bibliografia. Tra gli ultimi lavori: “Coscienza e discernimento nel l’Amoris laetitia”, in l Regno- Documentis LXIII (2018)183 197. “Coscienza e discernimento: quale rapporto con la norma”? Sul capitolo VIII di Amoris laetitia, in «Teologi 43 (2018), 18-47; “Salute e salvezza: il rapporto tra antropologia e teologia. Cenni di sintesi”, in E. Borghi – A. Cargnelli – A. Bondolfi, Parola&parole. La cura dell’altro. Riflessioni bibliche, teologiche, etiche e sociali, Associazione Biblica della Svizzera taliana, Lugano 2018, 89 102; “Coscienza e discernimento. Testo e contesto del capitolo Viii di Amoris laetitia“, San Paolo 2018.