Il valore universale del Ringraziamento
Riflessioni del reverendo Roberto Rosso* pubblicate sul sito della Comunione Unitariana Italiana il 30 settembre 2018
Cari amici, come avrete capito, ho deciso di dedicare l’intero servizio alla preghiera sull’assunzione di cibo, brevemente detta grace, per due motivi: da un lato, fornirci di uno strumento semplice e utile che possa accompagnarci più volte durante la giornata; dall’altro, mostrare, antropologicamente, come quella di una preghiera di fronte al cibo sia una esigenza sentita in tutte le culture, e che ciascuna cultura fa parte di un patrimonio di esperienza dalla quale tutti possiamo e per certi versi dobbiamo imparare: come spero di riuscire a mostrare in queste poche righe, ognuna sottolinea un aspetto particolare, e l’opportunità di averne molte sott’occhio spero possa farci imparare molto.
Inizierei dal riferimento alla manna della versione wesleyana:
Ti ringraziamo, Signore, per questo nostro cibo […] Lascia che la manna sia donata alle nostre anima, quale pane della vita, donatoci dal Cielo. Amen
che ci permette di mettere in chiaro molte cose del nostro rapporto col cibo. La preghiera implica una ritualizzazione dell’atto, quindi almeno due elementi. Per prima cosa, la frapposizione di un elemento di attenzione in un processo che altre specie, compresi molti esemplari della nostra, portano avanti in maniera istintuale. Attenzione significa anzitutto possibilità di moderazione, dar valore a ciò che mangiamo, senza ingurgitare acriticamente cose a caso, ma è anche un momento in cui fermarsi a pensare a quanto di superfluo ci sia sulla tavola, che potrebbe e dovrebbe imbandire le tavole dei più bisognosi, a quanto cibo sprechiamo, e agire di conseguenza. Ma Wesley ci ricorda anche che, attraverso la dimensione ritualizzante della preghiera l’atto di cibarsi può diventare segno esteriore di un lavoro interiore: il pane mondano che mangio può diventare segno esteriore di un pane celeste, la manna, di cui dichiaro la volontà e manifesto l’impegno affinché diventi nutrimento quotidiano e costante della mia anima.
Se ci pensate, la stessa Eucarestia è un termine greco che significa appunto ringraziamento, e se pensate che le nostre piccole preoccupazioni ci inducano a non aver nulla da ringraziare, pensate però anche che il Maestro ha voluto insegnarci il precetto di ringraziare proprio nel momento in cui aveva intuito che sarebbe stato consegnato e tradito, e non ci vogliono superpoteri per capire quando la situazione sta volgendo al peggio. Solo la prospettiva unitariana, che vede in Gesù un uomo senza assi nella manica, è in grado di restituirci la drammaticità e il coraggio di quest’ultimo insegnamento. Ringraziare di fronte all’esperienza più orribile possibile, la morte per disprezzo e tradimento: o si è fuori di testa, oppure si è guadagnato, nel tempo, uno sguardo verso la vita che la rende degna comunque di essere vissuta, anche all’ultimo secondo, anche nell’ora più buia, ed è questo sguardo che, come cristiani o come cercatori spirituali, ci impegniamo ad acquisire ogni giorno, con la pratica e la preghiera/meditazione.
E, se ci pensate, quest’ultimo insegnamento, che come cristiani riteniamo il vertice della predicazione del Maestro, è un atto legato ad una preghiera di ringraziamento legato all’assunzione di cibo, che siamo invitati a replicare in memoria del Maestro. Durante il servizio liturgico, durante la Sacra Cena, noi replichiamo in realtà le condizioni di una assunzione di cibo e di una preghiera di ringraziamento che dovremmo ripetere ogni giorno, ogni volta, di fronte al cibo. Come vi dicevo, la cosa che mi ha colpito, e che traggo dalla versione della Chiesa d’Inghilterra, è che l’idea di ringraziare per il cibo non deve essere intesa come fine a se stessa, ma è un pretesto, comodo per la sua necessità e frequenza, per ringraziare di ogni cosa ci capiti. E qui casca l’asino: siamo davvero capaci di ringraziare di ogni singola cosa che ci capiti, scudetti bianconeri compresi? Come sapete, io non ho mai preteso da alcuno di voi gesti eclatanti, ma coerenza sì. Ebbene, se permettiamo alla nostra lingua di dire che siamo grati, il nostro cuore è davvero d’accordo? Non lo fosse, sarebbe un puro esercizio di ipocrisia, che vi pregherei, quello sì, di evitare.
Forse potrebbe aiutarci l’idea che ci viene dalla versione scozzese antica:
Alcuni hanno cibo e non possono mangiare, altri non possono mangiare cosa vorrebbero. Noi abbiamo cibo e possiamo mangiarlo. Per questo sia ringraziato il Signore.
ossia che il nostro gesto, per quanto insignificante possa sembrarci, costituisce un sogno per buona parte delle persone del pianeta, che hanno difficoltà ad avere cibo ed acqua. Oppure anche l’idea, comune a molte denominazioni, di invitare il Maestro al nostro tavolo, dove per “maestro” ciascuno di vuoi può vedere una figura importante della propria linea di ricerca spirituale: se noi ad ogni pasto riuscissimo a pensare di invitare qualcuno che stimiamo, qualcuno cui raccontare la giornata nel suo svolgersi, e qualcuno con cui e per cui provare ad essere migliori, se noi usassimo pochi secondi di ogni pasto per rammentarci le gesta di persone esemplari, allora sarà più facile essere credibili quando ringraziamo. Ma se davvero abbiamo capito cosa sto dicendo, allora ha ragione la versione Bahá’í:
Come possiamo renderti grazie, o Signore? I tuoi doni sono infiniti e la nostra gratitudine non li può eguagliare. Come può la lode finita lodare l’infinito dell’Infinito? Non siamo in grado di dar voce alla nostra gratitudine per il Tuo favore e i Tuoi doni. […] Tu sei il Donatore e l’Altissimo.
nell’interrogarsi su quali parole potremmo usare per esprimere coerentemente la nostra consapevolezza di quale dono sia la vita, di quale combinazione irripetibile di esperienze emozionanti, belle e brutte, essa sia e di quanta parte noi abbiamo nell’essere artefici delle nostre fortune, costruendo al meglio, col materiale a disposizione, la nostra esperienza di vita. Molti obietteranno che manca loro questo o quello, ma la disabilità in questo caso mi offre un background credibile per poter dire: non vi torturate con ciò che non avete, concentratevi su ciò che avete e fate della vostra esperienza qualcosa di degno e unico, biograficamente, spiritualmente e moralmente. Per far questo occorre però umiltà, altro aspetto che colgo esplicitamente dalla versione giapponese:
Itadakimasu – Umilmente ricevo.
ma in fondo in molte altre. Umiltà non vuol dire un esercizio retorico di masochismo ad alta voce, spesso fine a se stesso: vuol dire fermarsi un attimo per riconoscere che il pezzettino di pane sul tavolo, che spesso sprechiamo, non è scontato, che l’abitudine e la facilità che abbiamo nell’averlo a disposizione è una specie di torpore dell’abitudine, che ci fa dimenticare quanto dobbiamo essere grati per ogni singolo boccone.
Qui finisce la mia carrellata tra le preghiere legate al cibo nelle diverse tradizioni. Vorrei che in questi minuti le leggeste, ci pensaste e mi diceste quali incontrano il vostro gusto, quali utilizzate e per quale motivo, considerando il fine comune di far crescere in noi una persona spirituale salda e consapevole.
Nasé Adam [Facciamo l’uomo]
Amen
Rob
* Roberto Rosso, laureato in filosofia e psicologia, ha fondato nel 2004 la Comunione Unitariana Italiana.