Troppo amore. Le tre vite di don Marco Bisceglia
Recensione di Emanuele Macca pubblicata sul blog Nipoti di Maritain del 2 settembre 2013
Ho appena terminato la lettura del libro di Rocco Pezzano, “Troppo amore ti ucciderà – Le tre vite di don Marco Bisceglia” (ed. Edigrafema, 2013, 320 pagine). E mi è rimasto un nodo alla gola, come spesso mi capita quando condivido storie forti di altre persone identificandomi in pezzi delle emozioni che esse sanno trasmettere.
Si parla di una persona che è stata sacerdote di formazione gesuita, guida spirituale nella principale parrocchia di Lavello (Potenza) dove fonda la “comunità di base” del Sacro Cuore legandosi così ai preti del dissenso rispetto alle Gerarchie Ecclesiastiche; all’arrivo delle forze dell’ordine per allontanarlo dalla parrocchia, la comunità di fatto si sfalda.
In stretti rapporti con esponenti della sinistra estrema e anche con Marco Pannella e i Radicali con cui si candida alle elezioni nazionali, è vittima di un raggiro giornalistico per cui si sparge la voce che abbia celebrato un matrimonio tra omosessuali : è la goccia che fa traboccare il vaso e viene sospeso a divinis con un documento, comunque, di dubbia validità.
Allora fa coming out e a Roma collabora con l’ARCI (sezione diritti umani) per la quale propone l’idea di fondare l’ArciGay. Di essa non è quindi il fondatore ma l’ispiratore; infatti al sorgere concreto dell’associazione, si defila.
In questi anni, diventa amico stretto di Nichi Vendola, primo suo collaboratore. Ammalatosi di AIDS, viene reintegrato nel clero e diventa aiuto parrocco nella Chiesa di San Cleto a Roma gestita dai Padri Venturini (un ordine che ha come missione la cura spirituale del clero). Qui, una delle sue attività principali è l’assistenza delle suore e delle donne malate di AIDS ospitate dalle Suore di Madre Teresa. Ma di lui si perde ogni traccia, quando prima era un uomo immerso senza sosta nelle pubbliche vicende.
In questa molteplicità e contraddittorietà di azioni e scelte di vita, sta quello che più mi ha affascinato. Perché dietro a tutto c’è un percorso umano che, comunque lo si voglia leggere, è lineare. Sono i nostri schemi umani che vorrebbero ingabbiare tutto e tutti dentro una presunta logica e coerenza pubblica e politica.
Ma la vita umana è tutt’altra cosa… è una continua tensione alla ricerca della Verità che ci fa percorrere differenti strade e quel cammino ci arricchisce. La coerenza di fondo sta nella volontà di rielaborare continuamente quello che osserviamo, che subiamo e che agiamo alla luce della nostra più intima Coscienza.
Il radicalismo di Don Marco gli ha fatto fare queste scelte di vita, ma gli ha dato alla fine la capacità di confrontarsi con se stesso.
Logoro dal continuo agire, egli ha rimesso al centro la cura della propria anima.Nella prima vita ho rilevato un continuo concentrarsi sulle evidenti ingiustizie sociali che i contadini della bassa Italia hanno vissuto fino a quegli anni. E dall’altra parte la strutturale connivenza del clero con questo sistema non poteva che urtare fortemente un’anima attenta agli ultimi e ai cittadini emigrati al nord in cerca di una vita migliore.
Basta citare il fatto che era uso far pagare una tariffa per i funerali e che in base alla quota offerta veniva celebrata una cerimonia più o meno sfarzosa, con o senza corale. L’opposizione verso le Gerarchie Ecclesiastiche è diventata sempre più radicale anche per via dei difficili rapporti che Bisceglia ha avuto con i suoi Vescovi. Il suo carattere tendenzialmente oppositivo non gli ha fatto trovare agio in nessuna dimora strutturata (né nel Partito Comunista né con i Radicali né con l’ArciGay nel momento in cui si stava organizzando in modo preciso).
Ma molto affascinante della sua seconda vita iniziata ben oltre i cinquant’anni è stata la gioia vitale con cui ha sentito di riappropriarsi del proprio corpo, della propria sessualità, dell’affetto anche carnale di cui prima si era deprivato tutto concentrato sulle ingiustizie sociali. Era l’epoca dei campeggi organizzati dai pochi soci dell’ArciGay e “tutti lo ricordano come un compagnone, sempre gioioso, disinibito, senza alcun tabù nel cercare e dare amore anche per un’avventura, per una storiella” (1).
Questa gioia è stata talmente grande da fargli sopportare la povertà in cui si trovava. La casa alla estrema periferia di Roma in cui viveva era umida, senza riscaldamento e non del tutto stabile. Lì ci si nutriva di poco, come ricorda anche Nichi Vendola che da Don Marco era stato ospite durante la loro collaborazione. In quella fase il rapporto con la Fede era inevitabilmente in crisi. Vendola ricorda le continue discussioni che lui cattolico aveva con don Marco proprio sul nucleo del Credere che non voleva fosse buttato al vento.
Così dice Nichi: “Marco fu molto importante anche perché era un prete. Uno dei motivi di discussione più accesa fra me e lui (…) fu la religione: lui ebbe una fase quasi di iconoclastia. Rileggeva se stesso, cioè la sua fede e il suo sacerdozio, come frutto di una nevrosi, del tentativo di occultare la propria omosessualità. (…) Ricordo una notte in cui gli dicevo che stava trasfigurando il senso della sua esistenza (…). E che quel suo racconto non restituiva l’immagine di quella Chiesa dei poveri e tra i poveri che era stata la sua parrocchia a Lavello.”(2)
E infine mirabile ai miei occhi si apre la terza vita di Don Bisceglia, quella del reintegro. Dopo aver abbandonato le attività con l’ArciGay, dopo aver rivissuto a cinquant’anni suonati le gioie dell’affetto carnale e dopo essersi scoperto malato di AIDS, forse esplode la ricerca di una affettività e di una serenità non solo fisica ma anche interiore e spirituale.
Quella gioiosa serenità che don Marco sembra non aver vissuto mai prima quand’era sacerdote a Lavello. Non aveva certo cambiato il suo carattere tendenzialmente conflittuale e radicale tanto da cercare un taglio netto con tutto il suo passato. La sua ricca biblioteca sull’omosessualità donata al Centro Culturale Mario Mieli pare essere stato l’ultima relazione avuta col movimento di liberazione omosessuale. Per quanto si sa non ha mai negato se stesso e la sua vita passata, ma sembra rileggerla con occhi diversi. In particolare cambia il suo rapporto con le Gerarchie.
In una lettera scritta all’amico Giancarlo dice: “Sono consapevole che sono tante le strutture della Chiesa che non corrispondono allo spirito del Vangelo. Ma non lasciamoci irretire dai facili stereotipi. Per esempio il ‘mio’ vescovo col quale ho avuto da fare in questi ultimi anni non ha niente dello stile prelatizio : è un uomo mite, ricco di umanità che ha favorito la mia integrazione, pur sapendo di avere a che fare con un soggetto ‘sieropositivo’ in cura presso il Gemelli qui a Roma.
Ti lascio con questi pochi righi perché oggi stesso debbo ricoverarmi per sottopormi a una serie di controlli.”(3) Forse il definitivo ed ultimo ricovero… In silenzio ricordo questa vita che credo meriti di essere reinserita nel pieno della memoria della comunità cristiana e della Chiesa.
Lo dice bene anche Vendola quando ricorda tutti i preti gay che ancora vivono con clandestinità nella Chiesa perché hanno il terrore che si venga sapere della loro tendenza omo-sessuale, o meglio ancora, omo-affettiva. “La storia di Don Marco andrebbe raccontata anche per questo. Il legame fra il don Marco che fa della Chiesa la polis dei braccianti, il don Marco che fa dell’omosessualità un’epifania, il don Marco che sceglie di salire in cielo, cioè di abbandonare la terra, questo strano movimento che lui fa, lui va e torna contemporaneamente, perché torna alle origini, a Lavello, alla sua terra.
Torna alla carne di famiglia, alla sorella, è un ritorno che però lo fa salire fuori dal mondo: ci sarà una relazione fra tutte queste facce di Don Marco.” Vendola, che a questa prete ha voluto davvero molto bene, chiude l’intervista fatta all’autore alzando per l’ultima volta gli occhi al cielo e facendo l’ennesimo sospiro, dice: “È la prima volta che parlo di Don Marco. Non è facilissimo per me.”(4)
Ma il don ha trovato pronti ad accoglierlo e sostenerlo le braccia di don Luigi Di Liegro (fondatore della Caritas di Roma) che l’ha indirizzato a padre Paolo Bosetti, il padre della Congregazione di Gesù Sacerdote e parroco alla Chiesa di San Cleto a Roma.
In quella comunità don Bisceglia ha passato gli ultimi anni della sua vita impegnato in opere pastorali volutamente lontane dai mass-media. E, sorpresa per me ancora maggiore, lì ha fatto richiesta di tornare al sacerdozio, richiesta assecondata dal cardinale Ugo Poletti che ha inoltrato la domanda a Giovanni Paolo II, mentre a lavorare al caso è stata la Congregazione del cardinale Joseph Ratzinger.
La mia sensibilità non è mai stata vicina alle modalità comunicative delle “comunità di base” né ha alcun punto di assonanza con un carattere radicale e conflittuale. Eppure questa figura di uomo mi ha colpito proprio per la sua trasparente voglia di Fede e di Umanità. Proprio per questa apparente contraddittorietà, don Marco non merita nessuna damnatio memoriae collettiva, e tanto meno nessuna manipolazione finalizzata a qualsiasi scopo contingente. La procedura del reintegro e l’osservazione di Vendola testimoniano, su fronti apparentemente opposti, che davvero nessun figlio può e deve essere escluso dalla casa materna o in essa tenuto nascosto, come un tempo si faceva in alcuni casi con i figli portatori di handicap fisici.
Da questa storia sorgono davvero mille spunti e mille emozioni da cui sarebbe fondamentale e bello ripartire per tutti, non solo per i figli omosessuali della Chiesa, ma per tutti quelli che temono di essere vittime di maldicenze e di stereotipi laddove si venisse a sapere qualcosa che essi tengono nascosto nella mente e nel cuore.
(1) Rocco Pezzano, “Troppo amore ti ucciderà – Le tre vite di don Marco Bisceglia” (ed. Edigrafema), pag. 155
(2) ivi, pag. 271
(3) ivi, pag. 191
(4) ivi, pagg. 276 – 277