In quanti siete, omosessuali sparsi nella nostra vita quotidiana?
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Ma in quanti siete? In quanti siete, omosessuali sparsi nella nostra vita quotidiana? É la domanda che mi faccio, da quando ho avuto con voi incontri ravvicinati, così ravvicinati da averne portato uno di voi in grembo, senza saperlo.
Sì, perchè si sta poco a dire omosessuale. O lesbica. Ma per noi, “normali”, e direi anche banali eterosessuali, il mondo è visto con altri occhi. Almeno così è per me, e immagino per molti della mia età, quando “omosessuale” voleva dire effeminato, e in qualche modo malato, se non anche depravato.
Per lavoro mi occupo delle persone, della gente. Ho studiato per farlo. Ho studiato anni fa, quando l’omosessualità era ancora per tutti una malattia. Per cui nessuno mi ha insegnato a rapportarmi davvero con rispetto ad un omosessuale. Ma chissà quanti me ne sono passati sotto gli occhi, senza che nè io nè i miei colleghi avessimo quegli strumenti minimi per capire davvero il mondo di un omosessuale!
Siete invisibili. Confusi fra noi “normali”, fingete. Vi camuffate. O vi abbiamo costretto a camuffarvi, a fingere?
Siete vissuti accanto a noi, fingendo di essere come noi, e ciò ci ha impedito di conoscervi. Voi conoscevate di noi tutto, perchè eravate stati trattati dalle vostre famiglie come se foste eterosessuali. Avete imparato i nostri pregiudizi su di voi, e avete imparato a nascondervi. Nel vostro nascondervi sta anche la nostra ignoranza, e la nostra difficoltà di conoscervi, di capirvi, e di rispettarvi.
Conoscervi è un lavoro che dovremo fare assieme. È un lavoro lungo, di ricostruzione del rispetto, e della dignità di ognuno, della dignità di ogni desiderio di rapporto d’amore.
E adesso che qualcosa di più conosco, mi chiedo: in quanti siete? E chi lo è, tra le persone che incontro ogni giorno? Chi non lo è? Non perchè io abbia voglia di tormentarvi, no, certo che no. Ma per avere la misura della mia ignoranza. E per imparare un nuovo modo di rispetto. Tocca a voi farvi rispettare, ma tocca anche a noi imparare a farlo.
Il primo omosessuale di cui ho ricordo, nella mia infanzia, era un “finocchio”, carino, educato, simpatico. Ma quando lui non c’era, di lui si diceva, appunto, che “era un finocchio”. Io non capivo cosa volesse dire, e lo chiesi a mia madre. Della sua risposta capii solo l’imbarazzo. Mi fu chiaro che non sapeva cosa dirmi.
Capii che sono persone che non si sposano, e che non hanno figli. Capii anche che in qualche modo dovevo diffidarne. Che era meglio non stare mai da sola con un “finocchio”. Non so perchè, non c’è ragione alcuna, ma è questo che colsi, allora.
La parola “omosessuale” forse la lessi per la prima volta da qualche parte, senza comprendere. Ma ero sicura che erano comunque cose così lontane dalla mia realtà, che non avevo motivo né di approfondire, né di capire. Erano come marziani. Sì, forse, da qualche parte, qualcuno. Ma non mi avrebbe mai riguardato. Non avrei mai avuto a che fare con nessun omosessuale, nella mia vita. Ne ero certissima.
E se proprio proprio ne avessi incontrato qualcuno, sarebbe stato facile riconoscerlo, perchè il ridicolo “finocchio” che conoscevo era così evidente che era diverso dagli altri, che mai e poi mai avrei potuto confondermi.
Mi sarebbe bastato riderne, deriderlo, considerarlo una specie di “mezzo uomo”, e starne alla larga. Ecco. Non averne ami a che fare, anche incontrandone uno. Era sufficiente. Non avere a che fare con un finocchio. Con un frocio, ecco. Le altre parolacce non riesco neppure a pensarle: mi spezzano il cuore.
Poi studiando imparai che gli omosessuali sono fermi nel loro sviluppo emotivo e psichico, che restano legati all’amore materno, che nessuna donna potrà mai prendere il posto della loro mamma, perchè sono rimasti un po’ “bambini”. Che hanno avuto un padre assente, e una madre troppo presente. Era il tempo in cui Pasolini venne ucciso. E di Pasolini si parlò molto. E della sua mamma Susanna. Così la teoria trovava conferma. E che conferma!
Però, detto per inciso, non mi pare mica che mio figlio gay sia così tanto legato a me! Anzi. A volte sento che vorrebbe starmi distante. Molto distante. Mi pare più legato a me l’altro, il primogenito. Che sia gay anche lui? Tutto e due? Mi sbaglio? Non so più. Non capisco più. Non ho più le certezze di un tempo.
Già. Ne so così poco della crescita di un omosessuale normale! Non ho strumenti per capire. Non abbastanza. Ho solo il desiderio di capire.
Così mi vengono in mente tutti gli omosessuale incontrati nel corso della vita professionale.
Quello che, in un momento di confidenza, mi chiedeva se mi desse fastidio che mi raccontasse della sera prima, che aveva incontrato il suo compagno, e di quanto bello era potergli stringere le mani.
E l’altro giovanissimo ragazzo, i cui genitori erano disperati più per l’omosessualità che per la tossicodipendenza. E l’altro ancora, perduto tra droga e alcool, ammalato di AIDS, che si stupiva di come i suoi clienti, regolarmente coniugati, preferissero “farlo senza” protezione dalle malattie.
E poi, un’altra ragazza, allora giovane mia coetanea, anche un po’ tossicodipendente, ma soprattutto lesbica. E la sua famiglia tutto poteva sopportare, ma che facesse l’amore a casa sua con l’amica-amante, no, proprio quello no.
Noi operatori, all’epoca (anni ’80/’90, o giù di lì), ci sentivamo tanto bravi a non avere pregiudizi. Certo, non avevamo pregiudizi, ma non avevamo neppure strumenti per capire. No. Oggi so che non li avevamo.
Scivolavamo tra una ignorante tolleranza, e una lettura dell’omosessualità come mancato sviluppo emotivo. Perchè normali proprio no, gli omosessuali e le lesbiche non potevano essere. Generosamente li accoglievamo, li tolleravamo, ma non li capivamo. No. Questo proprio no.
Adesso che ne so un po’ di più, riesco a coglierne i segni più facilmente. Ed è importante farlo, perchè così, ad esempio, evito di fare quelle domande stupide che facevo, tipo: “Perchè non si è mai sposato?”, dando piuttosto spazio a narrazioni di sé più reali e rispettose della propria dignità.
L’omosessualità normale è invisibile. E nella sua invisibilità è anche discriminata. Perchè non appena la si riconosce, rischia di venir in qualche modo “segnata”. Devo riconoscerlo: troppo spesso avete ragione a restare invisibili.
Per questo il pugno nello stomaco che ricevetti, quando mio figlio mi disse “Sono gay”, era fatto di tutta questa sofferenza. L’ho vista. Forse l’ho provocata anche io, ignorante com’ero! Ho visto quanta sofferenza c’è in una persona omosessuale. Come posso proteggere mio figlio da tutto questo dolore? Ecco, il pugno che batte e ribatte nello stomaco, bloccando ogni cosa.
Dopo l’exploit di quasi un anno fa, lui non ne parla più. E mi dispiace, perchè vorrei capire. Ma forse è ancora troppo giovane per mettersi a discutere con me, che sono sua madre. Verrà il giorno, spero solo di esserne pronta.
Dove lavoro adesso, un paio di anni fa arrivò un paziente chiaramente “effeminato”, con una malattia della quale alcuni mesi dopo morì. Quando lo visitò, il medico commentò: “Avremo problemi di gestione con questo qui, fragile com’è!”.
Questa volta ero più preparata, non sapevo ancora di avere figli gay, ma avevo conosciuto, per altre ragioni, dal di dentro quel mondo, e corressi il commento del medico: “Fragile? Con tutto quello che avrà passato nella sua vita, non credo proprio sia fragile”. E così fu.
Affrontò tutto con estrema dignità. Quando parlai con lui, qualche giorno dopo la visita medica, ebbe cura di precisarmi che no, non era sposato, ma ogni domenica andava a ballare ed era pieno di donne che volevano ballare con lui. Io spero che avesse avuto un compagno e che questo suo compagno avesse potuto stargli vicino fino all’ultimo.
Adesso, forse, colpita dalle vicende, vedo omosessuali dappertutto. Se un ragazzo, dopo i 20-30 anni non ha ancora avuto una storia, scommetterei non so quanto che è omosessuale. Oppure le signorine che sono “signorine” ancora a 60 anni, e che hanno amiche, una o più amiche, di sicuro sono lesbiche. O anche no. Non so. Non so più. Non so dirlo. Non so distinguerlo.
È importante? vi chiederete. Dal mio punto di vita è importante. Poter essere se stessi nel mondo, serenamente, è importante. Se vi si potesse riconoscere senza difficoltà, vorrebbe dire che siete liberi di esserlo. Vorrebbe dire che viviamo in una società rispettosa e libera, che riconosce a ciascuno il diritto di essere se stesso, e di essere riconosciuto come tale.
Siete trasparenti. Avete imparato ad essere trasparenti, per difesa.
Riprendere colore, forma, e gioia, è compito vostro e nostro. Ne sono sempre più convinta.
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* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere la prima puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perché normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale.
Non ho idea di come andrà a finire, perché si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.