In Romani 1:26-27 sull’omosessualità troviamo molte più domande che risposte
Riflessioni bibliche di Don M. Burrows pubblicate sul suo blog Unfundamentalistchristians (Usa) il 1 ottobre 2013, libera traduzione di Simone Ramacci
Ogni volta che discuto con qualcuno che dichiara aprioristicamente che la Bibbia condanna l’omosessualità, citando i purtroppo famosi versetti 26 e 27 del primo capitolo della lettera ai Romani come prova, rispondo quasi sempre così: “Che significato attribuisci al vocativo all’inizio del secondo capitolo?”. La domanda è, lo ammetto, pretenziosa da parte mia, ma ho notato che funziona, perché quanti sono rapidi a citare la Bibbia come strumento d’autorità, spesso l’hanno letta solo in traduzione, e nemmeno in una particolarmente attendibile. Ma non è una domanda di poco conto.
Chiunque abbia affrontato la questione del rapporto tra Bibbia e sessualità si sarà trovato a un certo punto davanti a Romani 1:26-27: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento.” (CEI).
Sembra terribile, come tutta la seconda parte del primo capitolo della lettera ai Romani. Di chi si sta parlando in questo punto del testo? La maggioranza è concorde che si tratti dei Gentili, e che si tratti dell’ennesimo testo ebraico ellenistico contro di loro. Ma il carattere di condanna dei versetti da 18 a 32 risulta al contempo disarmonico col resto dell’epistola, che passa dalla “giustizia di Dio” nei primi versi a un improvviso riferimento all’“ira di Dio” in questo passaggio, un’ira che Dio usa per abbandonare queste persone a ogni genere di comportamenti orribili.
Ma in fondo sono Gentili. Sono individui marci, terribili. Hai sentito che genere di cose fanno? Come indicato dallo studioso Calvin Porter, “essi” in questa parte della lettera ricorre in maniera incredibile, con la ripetizione del pronome di terza persona αὐτός tredici volte, il riflessivo (“loro stessi”) una, e verbi alla terza persona plurale di nuovo e di nuovo: “Nessun altro passaggio in Romani presenta una tale concentrazione”.
Ancora più notevole, nota Porter, è quello che segue: un improvviso passaggio alla seconda persona in Romani 2:1.
“Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose.”
Qui, dunque, si trova il vocativo (un caso usato quando ci si rivolge a qualcuno direttamente): ὦ ἄνθρωπε (“o uomo”) nel testo greco. E questo ci riconduce alla domanda che pongo a quanti citano 1:26-27 come una condanna. Chi è l’ἄνθρωπος a cui Paolo si rivolge? È una domanda centrale.
La critica si è spesso dedicata al contenuto dei versetti 1:26-27 a tal punto da ignorarne il contesto. Studiosi come James Miller e Mark D. Smith hanno fatto salti mortali per decidere se il comportamento descritto in questi versetti si debba considerare “omosessuale” dal nostro punto di vista, o si riferisca a qualcosa di completamente diverso.
Ma un punto di vista ancora più interessante è emerso quando Roy Bowen Ward si è messo in gioco: “È ancora oggetto di discussione se questi due versetti rappresentino il punto di vista di Paolo o di un ‘tu’ retorico nel passo da 18 a 32, che Paolo critica all’inizio di Romani 2:1”.
Esatto. La critica più recente, come rappresentata al meglio dall’articolo di Porter, ha notato che Romani 1:18-32 non propone il punto di vista paolino, ma quello che molti Ebrei pensavano dei Gentili all’epoca, un pensiero che l’Apostolo dei Gentili si sente in dovere di confutare. Partendo dall’analisi di J.C. O’Neil (che definisce il passaggio “un trattato tipico della letteratura missionaria del Giudaismo ellenistico”) e di E.P. Sanders (che spiega che “Paolo ricorre a un incredibile quantità di materiale proprio delle omelie del Giudaismo della Diaspora”), Porter conclude che “in Romani 2:1-16, come in tutta l’epistola, Paolo – in quanto missionario presso i Gentili – mette in discussione, critica e rifiuta sia il contenuto sia l’uso di un simile discorso. Se è così allora le idee espresse in Romani 1:18-32 non sono quelle di Paolo. Sono le idee che s’oppongono alla teologia e alla pratica missionaria di Paolo coi Gentili”.
Altre spiegazioni sul perché si trovi quel ὦ ἄνθρωπε sono meno soddisfacenti. Alcuni hanno ipotizzato che Paolo stia effettivamente condannando, mettendo in risalto (ma solo in questo specifico passaggio) l’ira di Dio invece che la sua bontà (come in 2:4), e che poi immagini un ipotetico ascoltatore approvare quanto egli sta dicendo, e di rivolgersi a questi e criticarlo poiché giudica, non per questo rifiutando però il valore del giudizio precedentemente espresso.
L’ipotesi di Porter (da lui supportata con riferimenti a modelli retorici dell’antichità) ha molto più senso: le affermazioni presenti nell’ultima parte di Romani 1 erano tipicamente usate dagli Ebrei ellenistici per distinguersi dai Gentili (di qui l’uso continuo di “essi”, come notato precedentemente), e Paolo, in quanto Apostolo dei Gentili, le ritiene problematiche e perciò tenta di confutarle, arrivando alla stessa soluzione di Romani 14:13, che presenta un linguaggio incredibilmente simile a 2:1: “Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello.”.
Paolo continua offrendo consigli su come risolvere l’attrito fra Ebrei e Gentili, quindi l’interpretazione di Porter risulta intrigante, e certamente la migliore che abbia letto quando si tratta di spiegare a chi Paolo si rivolga in 2:1: “Il riferimento diretto, la seconda persona singolare, insieme alla congiunzione διό, indica che il lettore che è d’accordo o responsabile di quanto affermato in 1:18-32 è divenuto ora la persona a cui Paolo si rivolge”.
Ovviamente ci sarà ogni sorta di discussione apologetica riguardo 2:1, di modo che si possa continuare a usare 1:26-27 come una semplice, e per niente ambigua, condanna dell’omosessualità, su cui contare come paravento per ogni genere di discriminazione contro gay e lesbiche. Ma la valanga di testi critici a riguardo, per non parlare degli studi dedicati alle singole parole di 1:26-27, dovrebbe quanto meno rendere chiaro che non si tratta di un testo poi così chiaro.
È un altro esempio di come uno studio approfondito della Bibbia, in questo caso sul valore di una singola parola, produca molte più domande che risposte.
Testo originale: Romans 1:26-27: A Clobber Passage That Should Lose Its Wallop