Insegnare la diversità, superare i pregiudizi. Intervista a Paolo Valerio
Intervista di Antonio Rossano a Paolo Valerio pubblicata sulla Stampa il 28 ottobre 2015
«L’identità è ciò che lentamente costruiamo nel nostro percorso evolutivo. Le prime esperienze di vita sono cruciali, fondamentali, sapendo che siamo tutti diversi gli uni dagli altri, come già le nostre impronte digitali ci dicono. E sviluppiamo capacità diverse, per ciascuno, di adattamento al mondo esterno. Oggi è un percorso più articolato. Siamo in un’epoca di continui cambiamenti».
A fornirci questa definizione di “identità” e della sua dimensione evolutiva è Paolo Valerio, direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università Federico II di Napoli e presidente della Fondazione “Genere Identità Cultura”, uno dei massimi esperti clinici in Italia sulle questioni inerenti l’identità di genere. Una persona che ha fatto dell’inclusione e della lotta al pregiudizio una ragione, scientifica, di vita. La sua area di ricerca si sviluppa intorno all’identità di genere, ai transgenderismi, ai disordini della differenziazione sessuale (DSD) ed all’orientamento.
Professor Valerio quindi l’identità è un concetto dinamico-adattivo. E l’identità di genere?
Il costrutto dell’identità di genere ha a che vedere con l’interazione di più fattori, il corpo che uno ha ed il contesto affettivo – emozionale nel quale si vive. Ed ha anche a che vedere con il caso. Quello che sappiamo è che ci sono alcune persone, bambini e bambine, che non si sentono in sintonia con il corpo che hanno, sentendo di appartenere a un genere diverso, rispetto a quello assegnatogli dai propri genitali. Vi sono processi la cui natura non è ancora ben chiara, penso, ad esempio all’unità mente-corpo. Quando parliamo di identità di genere o orientamento sessuale, dovremmo pensare all’immagine che Nancy Chodorow propone dell’arcobaleno, dove tutte le sfumature dei colori sono presenti nella nostra vita. L’identità di genere si forma intorno ai due – tre anni e poi lentamente va consolidandosi. Esistono bambini che vengono oggi definiti “gender variant” o “gender non conforming” e non sappiamo che identità di genere assumeranno.
E come si sviluppa il rapporto tra genere e società?
È un rapporto difficile. Viviamo in un contesto che è ancora patriarcale, genderista ed etero normativo. E mi spiego. In una cultura più antica, pastorale, patriarcale appunto, il maschio era il perno della società, era quello a cui tutto faceva riferimento. Il genderista è colui che immagina che esistano solo due generi, maschio – femmina, e tutto quello che non rientra in questi viene visto come patologia. In un contesto eteronormativo l’eterosessualità è la norma, per cui tutto ciò che non è eterosessuale è anomalo. Di fronte a queste pretese “verità assolute”, ogni volta che si genera un cambiamento si genera una resistenza.
Alcuni sono convinti che questi cambiamenti sono frutto della modernità e relativi solo ad alcune culture. È vero?
La diversità sessuale è un fenomeno ubiquitario e universale, trasversale alle culture ed alla storia: se pensiamo alla cultura indiana ricordiamo gli Hijras, una casta “fuori casta”, a quella italiana abbiamo i “femminielli” napoletani descritti già nel ’500 da Giovan Battista della Porta, se pensiamo alla cultura Thailandese abbiamo i Kathoey e i Ladyboys, e poi i Rae Rae della Polinesia ed i Muxe del Messico. Insomma, il fenomeno c’è sempre stato. La morale giudaico – cristiana ha poi etichettato tutto questo come “peccato”. Interessante la storia: la prima volta in cui le relazioni “same-sex” (tra lo stesso sesso) vengono depenalizzate è la Rivoluzione francese, per cui il successivo Codice napoleonico non condanna più queste relazioni.
Ricordiamo che in precedenza tali comportamenti venivano puniti anche con il rogo: la stessa parola “finocchio” deriva dai fasci di finocchio che venivano buttati nei roghi dei sodomiti per non far sentire l’odore di carne bruciata. Quando ci fu l’unità d’Italia vi erano alcune norme che penalizzavano i comportamenti omosessuali, norme che venivano applicate prevalentemente da Torino a Roma ma non da Roma in giù, dove vi era una cultura più aperta. Durante il fascismo ci si chiese se fossero necessarie norme restrittive su questi comportamenti, fu poi deciso che il popolo italiano fosse così virile da non richiedere tali leggi, ancora confondendo identità di genere e orientamento sessuale. Perché quella che viene stigmatizzata principalmente è la femminilizzazione del maschio; il maschio che viene penetrato, sodomizzato, non è ammissibile in una società patriarcale.
Eppure oggi il mondo sembra più aperto al cambiamento…
In parte sì. Tutte quelle che una volta erano diversità patologiche sono oggi invece definite, secondo l’American Psychological Association, come fattori di variabilità: transessualismo, transgenderismo, gender variant, gender non conformity. Parte delle difficoltà ad affrontare questo cambiamento vengono dal fatto che abbiamo sempre vissuto in un contesto dove il binarismo di genere, maschio -femmina, è fondante. Con la consapevolezza che un mondo agito all’interno di un codice binario ha sempre visto la contrapposizione di due termini: maschio – femmina, bello – brutto, buono – cattivo, alto – basso, dove uno dei due termini ha sempre una connotazione negativa. Il mondo in cui viviamo oggi ci pone innanzi ad una molteplicità, un pluralismo di identità, nel quale l’autodeterminazione è cruciale.
In Germania, nel 2013, per i bambini con genitali che possono essere definiti ambigui o atipici è stata aggiunta una terza “casella” a fianco alle tradizionali “m” o “f”. Da adulti questi bambini, una volta definiti “intersessuali”, oggi “con “disordine della differenziazione sessuale” o “con diverso sviluppo sessuale”, potranno scegliere di optare per uno dei due sessi o rimanere indeterminati. Anche i termini, come vede hanno una valenza importante per rimuovere le barriere e lo stigma.
Qual è la principale difficoltà che ha riscontrato in questo percorso?
La necessità che chi lavora in questo campo abbia una formazione specifica e complessa ed articolata. Sono campi dove se non sai abbastanza non puoi davvero comprendere ed offrire un aiuto utile alle persone per il loro benessere psicofisico. Allora vorrei parlare di me stesso. Io lavoro in quest’ambito da oltre 20 anni ed una volta venne da me una ragazza, con la sua compagna, che voleva fare un cambiamento di sesso. E io, benché fossi già psicoterapeuta formato, non avevo però avuto strumenti conoscitivi sufficienti dai miei studi universitari, e pensai: “Ma perché deve fare tutto questo e non può accettare il rapporto affettivo con la compagna e sentirsi lesbica?”. Oggi non mi permetterei neanche di pensare questo, perché ho conosciuto bene questo mondo, dove l’identità di genere è un elemento fondamentale della vita di una persona. Chiesi del tempo, ricominciai a studiare. Da li è nato un gruppo di lavoro e di studio.
Oggi penso che l’intervento chirurgico corrisponda ad un bisogno profondo di potersi sentire più a proprio agio in una nuova configurazione anatomica e genitale. La figura dello psicologo, in questi processi, è una figura di accompagnamento, ma anche una strada ineludibile per poter ottenere la certificazione di “gender variance” ed accedere sia al percorso endocrinologico che poi, eventualmente a quello chirurgico con il sostegno della sanità pubblica.
La mancanza di accettazione e di inclusione generano dolore. Nella sua storia professionale avrà visto molta sofferenza…
Dolore e difficoltà tanto e a tanti livelli: ricordo di un bambino tornato dalle vacanze, che il papà aveva portato con sé al lavoro in cantiere per farlo diventare più “maschio”. Il bambino era triste perché non era potuto stare con la mamma e fare quello che voleva. Penso ad un episodio che mi ha raccontato un amico di una persona, transgender F to M (femmina che si identifica in maschio), di cui un amico sta scrivendo un libro, che, negli anni ’50, si fece tagliare le gambe da un treno, per poter indossare i pantaloni. Penso a tutti gli episodi di bullismo omofobico, alle esperienze di una educativa sociale di Secondigliano dove alcuni bambini sono stati etichettati come “femmenella” o “ricchione”. Tanta sofferenza c’è nel momento in cui una tua istanza viene vista solo come vizio, malattia e non come possibilità di declinare la tua esistenza, aiutandoti ad autodeterminarti.
Professore, è di questi ultimi mesi un ampio dibattito pubblico, spesso condito da ignoranza e pregiudizio , sulle questioni di genere e sul loro impatto in ambito educativo, nella scuola. È possibile parlare ai bambini di queste tematiche?
Stereotipi e pregiudizi hanno a che vedere con la non conoscenza. Lo stereotipo è, in termini concreti, “i napoletani sono un po’ imbroglioni e ladri”. Il pregiudizio significa che, se incontro un napoletano, non penso più alla persona che sto incontrando ma alla categoria descritta dallo stereotipo e da questo viene lo stigma, ovvero la de-umanizzazione. Questo è quello che è accaduto con gli ebrei, che sono stati deumanizzati, per cui anche persone tedesche sensibili sono state condizionate nel loro pensiero.
La conoscenza è quindi il primo elemento per superare il pregiudizio e lo stigma. Per poter individuare nella cultura della differenza un valore e non un limite. Educare i bambini ad una cultura che vede le differenze, non solo di genere, ma anche religiose, etniche e culturali, come una risorsa. È giusto cominciare nella scuola dell’infanzia a promuovere una cultura che aiuti a riconoscere e rispettare le differenze di genere, a rispettare l’altro diverso da sé, certamente dosando l’informazione a seconda del momento evolutivo del bambino o della bambina.
Eppure alcune associazioni sostengono che parlando di queste cose, si finirà per condizionare i bambini, generando in essi confusione…
Quando ero io bambino, tanti anni fa, diverso era, per esempio, il bambino che aveva genitori separati o divorziati. Oggi, probabilmente, entrando in una classe, i bambini che hanno una famiglia strutturata in senso tradizionale sono una minoranza e questo non costituisce più uno stigma. Può essere quindi utile aprire all’informazione, un’informazione giusta, sapendo che l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono processi profondi che hanno a che vedere con i piani di vita ed a 6-7 anni sono costrutti già abbastanza consolidati. Non può essere certo una maestra che introduce questi concetti in una classe a determinare l’orientamento del bambino.
Importante non etichettare ed educare il bambino che la sessualità è anch’essa affettività. Parlerei non solo di educazione sessuale ma di educazione affettiva. Ricordo un bambino, forse quindici anni fa, che durante uno di questi corsi di educazione all’affettività, mi disse: “Professore noi non vogliamo sapere come nascono i bambini, lo sappiamo già. Vorremmo sapere come si fa a voler bene”. E mi fece una domanda che mi trovò, in quel momento, impreparato, visto che molto spesso noi stessi adulti abbiamo difficoltà a voler bene nel modo giusto.