Intervista alla filosofa Michela Marzano: “Omofobi, rileggetevi il Vangelo”
Intervista di Giovanna Pavesi alla filosofa Michela Marzano pubblicata sul sito Lettera Donna il 13 maggio 2016
Coerente. Ferma. Fedele al proprio pensiero e alla propria vocazione. All’indomani dell’approvazione della legge sulle unioni civili, Michela Marzano, voce illustre, tra le più stimate filosofe contemporanee, docente all’Università parigina Descartes e deputata del Partito democratico, ha rassegnato le sue dimissioni, abbandonando il gruppo alla Camera.
Troppe modifiche al testo iniziale del ddl Cirinnà, eccessivi e rumorosi trionfalismi, ma soprattutto ancora molte, troppe disuguaglianze. Compromessi inaccettabili e ingiustificabili. Tuttavia la sua decisione non è giunta inaspettata: a febbraio, lei stessa aveva spiegato che, se la legge fosse passata senza includere la stepchild adoption (la possibilità dell’adozione del figlio del partner, ndr) per le coppie omosessuali, avrebbe lasciato il partito.
Michela Marzano ha scelto di non tradire sé stessa e nemmeno il suo pensiero. Al telefono, con assoluta delicatezza esprime concetti importanti e racconta i motivi che l’hanno portata a questa decisione.
DOMANDA: Onorevole Marzano, la sua decisione di abbandonare il gruppo del Pd alla Camera non è stata una scelta improvvisa. Sente di aver atteso invano cambiamenti che non sono mai arrivati?
RISPOSTA: Il mio gesto segue la continuità delle mie parole. Feci questa dichiarazione immediatamente prima del voto di fiducia, quando ancora esisteva la speranza che si andasse avanti sul testo base, l’ormai ex Cirinnà. Dopodiché, nel momento in cui la legge venne votata al Senato, in realtà, era chiarissimo che non ci sarebbe stato nessun passo avanti, nessun cambiamento.
D: Che cosa è mutato invece?
R: Ciò che è molto cambiato sono stati i discorsi e le dichiarazioni: le stesse persone che, come me, chiedevano di non stralciare la stepchild e, soprattutto, di non cambiare la legge, hanno progressivamente cambiato discorso mostrando che poi, di fatto, ancora una volta, si dice una cosa, si fa il contrario e si cambiano semplicemente le parole che vengono utilizzate. Probabilmente, se ci fossero stati meno trionfalismi e se il Pd avesse avuto anche il coraggio di chiedere scusa alla comunità LGBT, forse le cose potevano andare diversamente.
D: Quindi è anche per questo motivo che ha deciso di lasciare il Pd, proprio all’indomani dell’approvazione?
R: È la coerenza con quello che ho sempre dichiarato, con il mio impegno di partenza in Parlamento. Mi ero espressa molto chiaramente: questo testo andava approvato così com’era.
D: Come mai, secondo lei, il nostro Paese ha aspettato tanto prima di arrivare a una legge sulle unioni civili?
R: Credo che ci sia un profondo problema culturale, fatto di atavismi e di incapacità di aprirsi all’accoglienza dell’altro. Ci sono delle incrostazioni che vengono da lontano: c’è una reticenza molto forte ad accettare la complessità della vita e del mondo; è diffusa l’illusione che esista un modello unico di persona, un modello unico di famiglia. Credo che sia una questione profondamente culturale, di ignoranza, ma anche di volontà di non rimettersi in discussione.
D: Che cosa le piace di questa legge?
R: Mi piace il fatto che ci sia una legge, che infatti ho votato. Esisteva un inaccettabile vuoto normativo: non c’era nulla, le persone omosessuali erano completamente abbandonate a loro stesse, nonostante i richiami della Corte Costituzionale e nonostante l’ultima condanna, nel 2015, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
D: Che cosa non le piace, invece, di questa legge così com’è?
R: È una legge fatta nel nome dell’uguaglianza ma che poi, di fatto, questa uguaglianza non la sancisce, perché continua, nonostante tutto, a trattare le persone omosessuali come meno uguali. Ma soprattutto discrimina i bambini, in ragione dell’orientamento sessuale dei propri genitori.
D: Giovedì, su Repubblica, ha scritto: «Oggi, dunque, si colma finalmente una lacuna. […] Tutto bene, allora? Purtroppo no. Visto che, ancora una volta, si è dovuto scendere a compromessi». Quali sono quelli che lei ha trovato più inaccettabili?
R: In assoluto, il vulnus di questa legge riguarda appunto i bambini: nel nostro Paese esistono, ancora oggi, dei bambini di serie A e bambini di serie B. I bambini andrebbero tutti protetti, allo stesso modo, indipendentemente dalla modalità con cui sono venuti al mondo. Il secondo problema è che alla fine, nonostante tutto, le persone omosessuali non sono esattamente uguali a quelle eterosessuali.
D: Perché?
R: Perché le persone eterosessuali hanno accesso al matrimonio, che è ancorato all’articolo 29 della nostra Costituzione, dove si parla di famiglia. Questa legge, invece, si guarda bene dal farvi riferimento: c’è un solo riferimento alla vita familiare, al comma 12. Tutti gli altri richiami a famiglia e famigliari sono stati eliminati. C’è, inoltre, lo sfregio dell’aver voluto togliere il dovere di fedeltà, che io trovo simbolicamente una violenza fatta, ancora una volta, a queste persone.
D: Secondo lei, quanto ci vorrà prima che il nostro Paese possa dirsi definitivamente pronto ad accettare questo processo di uguaglianza?
R: Probabilmente tanto, perché è necessario ricominciare da capo. Bisogna iniziare dalla scuola, dall’educazione: si deve insistere molto su questo punto, ma non solo educazione alla pari dignità; esistono criticità che riguardano l’ascolto e la capacità argomentativa. Ciò che è importante, più d’ogni altra cosa, è l’ascolto e l’accettazione dell’altro, in quanto altro, indipendentemente dall’alterità. È qualcosa che va imparato e insegnato. La strada da percorrere è ancora lunga.
D: Da chi sono arrivati i veti più gravi, a suo avviso?
R: C’è tutta una parte omofoba nel nostro paese che viene ben rappresentata dalla Lega e da tutti coloro che la legge non l’hanno votata, cioè che hanno votato no. Esistono poi delle resistenze molto forti di un pezzo del mondo cattolico, ad esempio tutti quelli che ora parlano di un referendum per abrogare questa normativa. Ciò che mi rattrista maggiormente è che, spesso, ci si appella al Vangelo, laddove è proprio nel Vangelo che le persone sono riconosciute come uguali in Cristo. Probabilmente bisognerebbe rileggerne le pagine.
D: Ritiene che questa legge, così com’è, sia più al servizio degli equilibri politici di questo governo piuttosto che delle coppie e delle famiglie che chiedevano una legittimazione della loro unione?
R: Non credo. Diciamo che è quello che probabilmente gli equilibri hanno permesso. Sicuramente è al servizio delle persone omosessuali, ma è anche poi diventata una bandierina.
D: Ritiene vi sia stato un entusiasmo eccessivo?
R: Credo che sarebbe bene evitare questo tipo di strumentalizzazioni per una legge comunque importante. Legiferare non è vendere un prodotto: se fare una legge al servizio o per le persone omosessuali significa avere un qualcosa da vendere, allora io credo che sia tutto da rifare. Ecco perché dicevo, prima, che forse il problema nel nostro Paese è culturale.
D: Secondo lei è l’opinione pubblica a non essere pronta oppure è la politica ad essere così immobile?
R: Io credo, l’ho sempre detto e lo ripeto, che il Parlamento sia solo lo specchio del Paese: bisogna lavorare molto. Una volta fatto questo passaggio, forse, avremo anche una classe politica capace di rappresentare la parte più bella.
D: A suo avviso, oggi, una famiglia omosessuale può comunque festeggiare l’approvazione di questa legge?
R: Io penso che ci siano ragioni per festeggiarla. Dopo la gioia, però, è fondamentale continuare a chiedere le giuste e oneste rivendicazioni.
D: Molte famiglie omogenitoriali, per poter godere degli stessi diritti di qualsiasi altra famiglia, hanno dovuto abbandonare l’Italia per trasferirsi in altri Paesi. Si sentirebbe di invitarli a tornare qui?
R: Ognuno trova il proprio posto dove si sente meglio. È triste che le persone siano costrette a partire perché non si sentono sufficientemente e adeguatamente accettate. Più che invitarle a rientrare, ritengo necessario lavorare perché ci siano le condizioni per un loro rientro.
D: Su Repubblica disse che quando Bersani e Letta le chiesero di accettare la candidatura per il Pd, lo fecero per mettere al servizio del partito e dell’Italia le sue competenze sui diritti e l’etica. Le sue dimissioni procureranno qualche delusione tra i cittadini che hanno riposto in lei la loro fiducia?
R: Io resto in Parlamento: continuerò ad essere lì per portare avanti le idee e i valori per i quali mi fu chiesto di candidarmi. C’è chi mi dice che non potevo fare altrimenti e c’è chi mi dice che non avrei mai dovuto fare questa scelta. Ma questo è legittimo: non credo sia possibile far contenti tutti. Talvolta si deve avere il coraggio di scontentare. Bisogna sempre guardarsi allo specchio senza voltarsi dall’altra parte.
D: Si aspettava che altri facessero la sua stessa scelta di grande coerenza?
R: No. Già è faticoso cercare, nella misura del possibile, di esserlo per sé stessi. Non si può chiedere lo stesso agli altri.