«Io, gay cattolico, non partecipo al Family Day»
Intervista a Andrea Rubera a cura di Carlo Lania pubblicata su “Il manifesto” del 30 gennaio 2016
«No, non vado al Family Day. Le persone che si vedono al Circo Massimo si riuniscono per alzare barricate e tracciare un recinto ben preciso, decidendo loro chi sta dentro e chi sta fuori dalla chiesa, dentro o fuori la famiglia. E’ una piazza di scontro, non di incontro. Io invece ho un’idea diversa: per me la chiesa deve essere un luogo aperto a tutti, dove non ci sono padroni di casa e ospiti». 50 anni ben portati, professionista, Andrea Rubera è un cristiano praticante, ma è anche una persona omosessuale. Sposato con Dario, anche lui 50 anni portati benissimo e anche lui cristiano, insieme hanno avuto tre figli con la gestazione per altri: una bambina di 4 anni e due gemelli di 2. Tutto senza rinunciare, né lui né suo marito, alle proprie convinzioni di fede né al loro impegno nella chiesa. Rubera è portavoce di «Cammini di speranza», la prima associazione nazionale delle persone Lgbt cristiane.
Cristiano e omosessuale. Immagino che sia difficile coniugare le due cose.
Il discorso è un po’ più complicato. Oggi ho superato l’idea di chiesa come un club all’interno del quale si devono seguire delle regole. La difficoltà non deriva tanto dall’essere omosessuale, quanto dall’essere una coppia sposata con tre figli. Se per un omosessuale single si stanno aprendo degli spazi, con sempre più parrocchie che ne ammettono l’esistenza, per una famiglia come noi non c’è posto.
Ma non c’è contraddizione nell’essere cristiano e omosessuale?
Se intende se c’è contraddizione fra il magistero della chiesa e l’essere coppia omosessuale allora sì. Alla luce del magistero non dovrei sentirmi parte della chiesa. Ma se andiamo al messaggio originario, che è quello che si riscopre banalmente leggendosi il Vangelo in greco, lì non vedo nessuna contraddizione. Anzi nella mia esperienza di Vangelo fatta con un biblista come Alberto Maggi, c’è la condanna esplicita di ogni legge che schiaccia l’uomo. Il sabato è al servizio dell’uomo, non l’uomo del sabato.
Molti cristiani vivono però di nascosto la loro omosessualità.
Come omosessuali credenti in passato abbiamo vissuto in clandestinità, nascosti in attesa che qualcuno ci tendesse la mano facendoci l’elemosina di un minimo di accoglienza. Adesso il percorso maturato tra vari gruppi ci ha portato a fare un salto di qualità. Se davvero riteniamo che la chiesa sia un organismo in movimento, dobbiamo mettere le nostre vite, le nostre esperienze, le nostre famiglie a disposizione del cambiamento.
Quando e perché ha deciso di fare coming out?
Io sto con Dario dal 1986, ormai sono trent’anni, e per entrambi è stata la prima e unica storia. A quei tempi di omosessualità si parlava solo in tre modi: come una macchietta o come malattia, perché si cominciava a parlare di Aids. Infine con discorsi legati alla sessualità rubata. Ci siamo trovati a innamorarci con entrambi alle spalle un background totalmente cattolico e quindi consapevoli che non avremo dovuto mai amarci. La decisione di uscire allo scoperto è venuta molto dopo. Per i primi anni ci siamo costruiti una vita nascosta, solo per noi. Ci eravamo detti: «Siamo una coppia, ma lo siamo solo per noi, per tutto il resto del mondo siamo due amici». In questa situazione abbiamo passato più di dieci anni..
E il coming out?
C’è stato in seguito a un evento drammatico. Ebbi un bruttissimo incidente in moto, tanto da essere vicinissimo alla morte. Mi ripresero per i capelli. Nei mesi in cui sono stato costretto a fermarmi è nata la consapevolezza di alcune cose. La prima è che non sopportavo più di nascondermi e di non essere me stesso. La seconda di voler recuperare non la mia fede, perché non l’avevo persa, ma il
rapporto con la mia fede vissuta dalla quale mi ero allontanato proprio perché per il messaggio che avevo in testa non potevo svolgere nessuna attività nella chiesa visto che ero nel peccato. Nel 2.000 tutto questo è crollato dando vita a una seconda fase del percorso. Poi ci sono stati altri capitoli successivi, come andare a vivere insieme.
E successivamente il matrimonio.
Lo abbiamo fatto perché sentivamo già di essere sposati. Avevamo fatto testamento per proteggere un minimo il nostro rapporto. Alla fine ci siamo detti: ma è possibile che la nostra vita in comune cominci con un testamento? Ci è sembrata una cattiveria nei nostri confronti, ma ci siamo anche resi contro che questo era quello che ci offriva la società. Meritavamo un momento simbolico tutto per noi. Quindi nel 2009 siamo volati in Canada e ci siamo sposati, scoprendo un mondo di inclusione e accoglienza che ci era totalmente sconosciuto.
E poi la scelta di avere dei figli.
L’idea di averli è nata proprio in Canada. Abbiamo cominciato a vedere tante coppie di papà a spasso con i loro bambini. Fino ad allora per noi pensare di avere dei figli era un tabù, qualcosa che non avevamo mai neanche osato nominare. Vedere tanta naturalezza ci ha spinto a parlarne, avviando un percorso durato più di due anni per capire se questo desiderio aveva delle radici profonde. E alla fine abbiamo deciso.
Figli avuti in Canada con la gestazione per altri.
Esatto. Se avessimo potuto adottare lo avremmo fatto, ma non è possibile. Abbiamo scelto il Canada perché lì la legge è molto severa e protegge tutte le perone coinvolte. Prevede la gestazione per altri altruistica, quindi senza scambio di denaro, ma anche dei periodici controlli medici, psichiatrici e patrimoniali. Alla fine viene chiesto test del Dna per dimostrare che il papà è collegato geneticamente al bambino, mentre la gestante no.
Lei è cattolico, i suoi figli sono battezzati?
Si, tutti e tre.
E il giorno del battesimo il sacerdote cosa ha detto vedendo di fronte a sé due papà?
Non ha detto niente. Ovviamente non siamo andati nella prima parrocchia che ci è capitata. Io e Dario partecipiamo a molte attività dei gesuiti, che ho conosciuto partecipando a un’esperienza chiamata «Chiesa casa per tutti» presso la parrocchia di San Saba, a Roma. I bambini sono stati battezzati dal gesuita che curava questi incontri. Ricordo la frase che pronunciò il celebrante. Disse: «Indubbiamente il progetto di Dio per questi bambini passa per questi genitori».
Cosa pensa delle aperture di papa Francesco sull’omosessualità?
Segnano un cambiamento rispetto al passato, ma solo nelle parole, semantico. Per la prima volta un papa usa le parole giuste, usa la parola gay. Nel documento preparatorio per il Sinodo si parlava di unioni tra persone dello stesso sesso. E’ indubbiamente un cambiamento. Oltre questo però non siamo andati.
Invece del dibattito politico di queste settimane cosa pensa?
Tutto il male di questo mondo. Non solo quello politico, ma anche quello sui media. Si fa di tutto per confondere le acque.
Cosa direbbe alle persone che oggi parteciperanno al Family Day?
Rivolgerei loro una domanda e poi gli farei un invito. La domanda è: ma perché le piazze del Family Day si occupano solo di morale sessuale e delle famiglie degli altri? Perché non si sono mai occupate di riforma del welfare familiare, di asili nido, di assistenza agli anziani? L’invito che invece gli rivolgo è quello di riscoprire la bellezza delle piazze come luoghi di incontro, non luoghi dove ci si rinchiude come in una cittadella. Un Family Day fatto con questi toni all’interno del Giubileo della Misericordia è davvero stonato.