Io, la Romanina. Storia di una transizione nell’Italia degli anni ’60
Articolo di Marco Luceri pubblicato sul sito del Corriere Fiorentino l’11 novembre 2015
C’è stato un tempo in cui chi nasceva in un corpo che non sentiva suo aveva due strade da imboccare, il marciapiede o il palcoscenico. Romina Cecconi le ha percorse entrambe. Bruciando la sua vita e diventando un mito. È a lei, nata Romano Cecconi — per tutti la Romanina — che il Florence Queer Festival dedica l’apertura con un film documentario che ripercorre la sua storia, “La donna pipistrello” di Francesco Belais e Matteo Tortora, presenti in sala con lei.
Il film arriva dopo un’autobiografia cult (“Io, la Romanina“, uscita per Vallecchi nel 1976) e uno spettacolo teatrale scritto dieci anni fa da Luca Scarlini e interpretato da Anna Meacci. La seducente, provocatoria Romina, nata a Lucca nel luglio di guerra del 1941 e rinata nell’estate del 1972, dopo un’operazione in Svizzera, è stata tra le prime in Italia a rivolgersi al chirurgo per ottenere l’identità che da sempre sentiva più sua, pagando sulla propria pelle la sua voglia di libertà con violenze, processi, carcere e persino il confino per tre anni a Volturino, un paesino sperduto in provincia di Foggia. Ora è una loquace signora che vive a Bologna tra ninnoli e ricordi, che quando parla della sua vita lo fa con il buonumore tipico di chi ne ha viste di tutte i colori e sa che l’esistenza in fin dei conti non è che un susseguirsi casuale di dolori e comicità.
«Sono venuta a Firenze con la mia mamma che ero poco più di una bambina — racconta — scappavamo da una miseria nera. Non ho mai conosciuto il mio vero padre, quello che ci adottò era un brav’uomo, ma spesso si ubriacava e diventava violento. Dopo la sua morte siamo arrivate in una città che non conoscevamo, ma che ci sembrava bellissima.
Abitavamo in un appartamentino in via Senese e la mamma andava a lavorare alla trattoria “da Nello” in Borgo Tegolaio. A 15-16 anni andavo a bottega in San Frediano perché imparavo a fare la doratura delle cornici e iniziai a vestire con abiti colorati e a sculettare nei miei jeans strettissimi, così in poco tempo diventai per tutti la Romanina. Mi dedicarono anche una canzone: “Lasciatela passare la bella Romanina…”.
Quando passavo da Piazza Santo Spirito i soliti buontemponi spesso mi gettavano nella vasca della fontana, però in tanti si giravano a guardarmi! Con la mia amica Silvia cominciammo a frequentare le Cascine, il ritrovo per tutti i gay era la Capannina. E lì iniziarono i guai, perché ogni giorno c’era la Buoncostume che faceva le retate, e così cominciai a passare sempre più tempo alla Questura. Quando andava bene ti facevano le multe. Come potevo pagarle?».
Ed è qui, all’inizio degli anni Sessanta, che nasce il mito della Romanina, prima sul palcoscenico, poi per le strade e i locali della Firenze notturna e underground. «Mi presero al Circo Gratta, che la sera girava per Campo di Marte, piazza Tasso e piazza Garibaldi. Mi inventai un numero tutto mio: agghindata di piume cantavo una canzone piena di doppi sensi, facendo ben vedere il mio lato b, poi ballavo il Let’s twist again di Peppino Di Capri e imitavo Milva, con addosso un bel parruccone rosso fuoco.
La prima sera dalla piazza mi lanciarono un finocchio, che iniziai subito a sgranocchiare: “Ma siete matti a buttar via i finocchi? Sono tanto boni!” esclamai e giù gli applausi. Fu un debutto trionfale. Ero diventata una star, tanto che quando iniziai a fare la vita su e giù per via Tornabuoni la mia clientela era fatta di medici, avvocati, architetti. Io e la Silvia entrammo nel bel mondo di Firenze dalla porta principale.
I ricchi ci invitavano nei loro attici con vista. Una volta mi ricordo che in una cantina vicino Santo Spirito, una taverna frequentata dalle grandi famiglie della città dove si facevano gli spogliarelli, ci fu una retata della Buoncostume e finimmo tutti sulla rivista Specchio . Fu la mia prima copertina».
Sono tanti gli aneddoti sulla Firenze di quegli anni: «Non c’era festa, night club o appuntamento mondano in cui io e la Silvia non fossimo le star. Facemmo amicizia con il pittore Scatizzi, grande appassionato di opera che ci faceva cantare le arie e ci aiutava a truccarci. Una volta uscii da casa sua che sembravo Alex di Arancia meccanica . Un’altra volta mi beccarono all’uscita del River Club con quelli che tempo dopo si scoprì essere una banda di pericolosi ladri, a cui avevo solo chiesto un passaggio in auto.
Ogni volta che succedeva qualcosa il giorno dopo mi ritrovavo sulle pagine della Nazione , con titoloni che gridavano allo scandalo. Lo facevano per vendere più copie, naturalmente».
Diavolo di una Romanina, che se la sfangò – è proprio il caso di dirlo – anche nel novembre del 1966 con la città alluvionata: «Abitavo in Piazza Santo Stefano, vicino all’Arno, quando il fiume ruppe gli argini. Dalle botteghe di via Por Santa Maria arrivò ogni ben di dio, compresa una splendida borsa in pelle di coccodrillo che riuscii ad arraffare.
Fu la mia fortuna: la sera andavo alla stazione dove c’erano tanti volontari da consolare e feci in pochi giorni un gruzzolo di 800 mila lire. Avrei potuto comprarmi una casa. Pensai di tenere quei soldi da parte per l’operazione. Invece spesi quasi tutto in una boutique in via de’ Pecori per comprarmi visone e chignon e andare alla riapertura del Teatro Verdi, nonostante il coprifuoco impostomi dal Giuseppe Vigna. Quella sera non ebbi rivali. Dicevano che grazie a me Firenze stava vivendo il suo secondo Rinascimento».
Dalla città dorata e folle di quegli anni la Romanina passò poi al jet-set internazionale, all’amicizia con le figlie di Chaplin, ai flirt consumati e mancati (come quello con Vittorio Emanuele di Savoia), passando per il confino, fino alle battaglie politiche per vedere riconosciuti i propri diritti. Tra i ricordi più belli quello vissuto a Losanna, il giorno dopo l’operazione: «Non avevo i soldi sufficienti per pagarmela. Così telefonai a mamma. Il giorno dopo me la vidi arrivare in ospedale. Aveva 500 mila lire, i risparmi di una vita. Sapeva di avermi ridato la vita per una seconda volta. Ci siamo guardate e abbiamo iniziato a piangere, come due grulle».