Io mi incammino lungo un sentiero. Se sbaglio aiutami e fammelo capire
Email inviataci da Gianni Geraci del gruppo Il Guado di Milano
Qualche giorno fa un amico mi ha scritto scandalizzato perché aveva letto su Gionata una testimonianza in cui, tra l’altro, si leggeva: «Credo che, come seguace di Gesù, il matrimonio omosessuale non faccia per me».[1]
L’ho letta con attenzione e, anche se ho trovato davvero apprezzabile il fatto che la prima conclusione a cui l’autore arriva è quella che non ha nessun senso «chiedere a Dio di diventare eterosessuale», al termine della lettura avevo una sorta di retrogusto amaro di cui non riuscivo a trovare la causa.
Premetto che, secondo me è giusto che Gionata traduca anche le tesi e le testimonianze delle persone di cui non condivido le idee. La sua bellezza è proprio questa: proporre in uno stesso sito le tesi della teologia queer di Marcella Althaus-Reid e le raccomandazioni di una parrocchia dello Iowa in cui si dice che una persona omosessuale che vive pubblicamente una relazione di coppia «non può fare il catechista, l’insegnante, il padrino o la madrina di Battesimo o di Cresima».
Nonostante questo debbo davvero confessare di aver trovato il testo che mi avevano segnalato un po’ una “americanata”, come una “americanata” mi è parsa la lettera della parrocchia dell’Iowa che, dopo aver scritto che: «Se sei un gay cattolico o una lesbica cattolica, la prima cosa che dovresti sapere è che le persone omosessuali sono sempre le benvenute in una comunità di fede cattolica», si mette poi a elencare le cose che un gay cattolico o una lesbica non possono fare, come vivere una relazione di coppia e, nello stesso tempo, accostarsi all’Eucarestia o fare il catechista.
Ci ho pensato su qualche giorno e, alla fine, mi sono convinto che la cosa che non va bene in questi testi è l’idea che si possa proporre un unico cammino valido per tutti senza educare le persone a esercitare quel discernimento in cui, attraverso la voce della nostra coscienza, come scrive Tommaso, «vox Dei est»[2], capiamo cosa è giusto e cosa è sbagliato per noi in una determinata situazione.
Ho conosciuto persone omosessuali che vivono in maniera serena una castità continente. Le stimo e le considero persone che hanno raggiunto un equilibrio di cui dovrebbero senz’altro ringraziare il Signore.
Conosco persone omosessuali che, come me, hanno scoperto che il Signore le chiamava a vivere una relazione di coppia con una persona del loro sesso, basata su quell‘amor coniugalis che, secondo Giovanni Paolo II, non è il frutto dell’estro di un momento, ma è il risuttato di una decisione che coinvolge la volontà di stare di fiano all’altro per tutta la vita.
Conosco anche persone omosessuali che non hanno avuto la fortuna di trovare una strada così chiara come quelle che ho indicato sopra, ma che sono degli ottimi cristiani anche se, al posto di vivere la loro sessualità al servizio dell’amore, si vedono spesso coinvolti in rapporti che, al massimo, sono al servizio di un amore che si desidera, ma che non c’è.
La cosa più bella è che, anche tra i miei amici eterosessuali c’è una casistica analoga. E sono davvero convinto che tutti siamo comunque sulla stessa barca, una barca in tutti siamo segnati dall’esperienza del peccato che nasce da una concupiscenza che solo una formazione ossessionata da certi temi identifica con con l’esercizio disordinato della propria sessualità.
Quando faccio l’esame di coscienza per esempio. mi rendo conto che il vizio che mi condiziona di più non è certo la lussuria: l’accidia e la gola sono molto più pericolose per la mia vita cristiana. Per non parlare dell’ira e, qualche volta, anche dell’avarizia. Siamo tutti peccatori. E in quanto peccatori abbiamo l’opportunità di scoprire che «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom 5,20).
Che senso ha, allora, dire, come fa l’autore della testimonianza che ha tanto fatto arrabbiare il mio amico, che lui ha scelto la continenza e che questa è una conseguenza immediata dell’essere seguace di Gesù?
Nel riflettere su queste cose, a un certo punto, ho pensato che, all’età di 27 anni (l’età che l’autore del testo dice di avere), quasi sicuramente, l’avrei scritta anch’io: avevo appena preso coscienza della mia omosessualità e non ero affatto contento di quella scoperta, tant’è che qualche mese dopo, avrei iniziato una terapia che, come obiettivo dichiarato, aveva proprio quello di farmi diventare eterosessuale (con quali risultati lascio giudicare a voi, visto che, adesso, non solo sono omosessuale, ma sono anche grato al Signore per questo mio orientamento sessuale).
E allora ho capito!
La causa del retrogusto amaro che avevo sentito quando ho finito quell’articolo era proprio la giovane età del suo autore. Una giovane età che, soprattutto quando qualcuno è chiamato a dare la propria testimonianza, ci dovrebbe suggerire una sana prudenza che si traduce in una sola domanda: «Ma questa persona, tra vent’anni, sarà in grado di scrivere le stesse cose?».
Naturalmente una risposta per lo sconosciuto autore di questa testimonianza pubblicata negli Stati Uniti, non ce l’ho. Di certo ho una risposta che vale per me e che mi dice che quella che quando ero giovane mi sembrava una cosa sicura adesso è qualcosa di molto più sfumato e di molto meno incasellabile in affermazioni certe.
D’altra parte, come scrive Paolo: «Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa» (1 Cor 13,12) e, quando le cose si vedono in maniera confusa, è davvero difficile dire che le affermazioni che facciamo varranno per sempre.
E allora vorrei invitare quelli che mi stanno leggendo a fare propria una frase che papa Giovanni aveva scritto nel suo diario dopo essere arrivato a Parigi: «Ascolta tutti. Credi a pochi!».
Se siamo in ricerca e vogliamo trovare la strada a cui il Signore ci chiama ascoltiamo pure i consigli di tutti, ma poi mettiamoci in silenzio davanti al Santissimo e, dopo avergli chiesto di farci capire quale sia la nostra strada, diciamogli con la fiducia che si può avere nei confronti di un grande amico: «Io mi incammino lungo un sentiero. Se sbaglio aiutami e fammelo capire».
Si tratta di ripercorrere l’esperienza di Abramo a cui Dio chiede di fare coming out, di uscire dalla sua terra, di abbandonare la sua casa e le certezze di un tempo e di mettersi in cammino (Gen 12,12). C’è un midrash che commentando questo brano fa chiedere ad Abramo: «E dove debbo andare Signore?» e fa rispondere a Dio: «Tu incamminati. Io ti seguirò!».
1 gionata.org/non-ce-bisogno-di-chiedere-a-dio-di-farmi-diventare-etero
2 Tommaso d’Aquino, De Veritate, 17