Io, Pierre Seel, deportato omosessuale. Gli anni della vergogna
Testo di Pierre Seel e Jean Le Bitoux tratto da Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel, editions Calmann-Lévy, 1994, pp. 135-138, liberamente tradotto da Franco Morelli
Avevo deciso di cancellare la mia omosessualità dalla mia vita. Ma è forse possibile impedirsi di fantasticare? Mi capitava di confessarmi ed ero costretto ad ammettere di avere avuto qualche godimento solitario. E il prete mi chiedeva subito:
– Pensando a chi?
– Ad un ragazzo.
– Allora non vi posso dare l’assoluzione.
– Ma si tratta di qualcosa nei cui confronti sono impotente.
– Mi dispiace.
– Ma in fondo sono un buon marito ed un padre responsabile!
– Mi dispiace. Vi trovate in stato di peccato grave. Non c’è assoluzione.
Uscendo dalla penombra delle chiese e ritrovandomi nella luce della città, con i suoi impegni e le sue tentazioni, mi sentivo ancora più sconcertato di quando vi ero entrato. A cosa serviva tutto questo? Mi incontravo anche con un prete della parrocchia della Trinité, che ha scritto molto sull’omosessualità.
Con quest’ultimo mi azzardavo ad affrontare il periodo della mia deportazione per omosessualità. Ma, anche se non mi condannava, non mi parlava che di sofferenza e di redenzione; e questo non mi dava nessun aiuto in più. Alla fine di tutte queste delusioni non mi sono più confessato.
(…) Mi dicevo che nonostante tutto avevo messo su una famiglia e ritrovata una certa dignità professionale. Ma quello che non avevo mai detto era lì, come un osso di traverso in gola.
Un giorno, dopo un pranzo fra colleghi, parlando di conoscenti che erano stati deportati, io arrivai a dire che lo ero stato anch’io. E così subito presero corpo tre interrogativi: Dove? Perché? Vi pagano una pensione?.
In seguito ho dovuto affrontare spesso queste medesime domande. Dal momento che non si trattava di Auschwitz, c’era forse qualche motivo che io non ne parlavo e che non ricevevo una pensione, e quel poco che io ero in grado di dire creava soltanto un disagio ed io mi pentivo di essermi lasciato andare in modo così maldestro.
Rientravo subito nel mio silenzio, cercando di spegnere l’interesse su di me. Mia moglie a volte insisteva: perché mi rifiutavo di riempire il mio dossier di deportato per ottenere la pensione? Questo avrebbe sensibilmente migliorato il nostro bilancio.
Avremmo potuto acquistare una vettura e i miei spostamenti per lavoro sarebbero stati meno faticosi. Le finanze di casa in effetti non permettevano una vita molto agiata. E poi si trattava di giustizia. In teoria aveva ragione, ma la urtava sistematicamente il mio rifiuto silenzioso. Non sapeva che avrei dovuto dichiarare il motivo della mia deportazione. Mi rimproverava questo rifiuto ostinato ed ingiustificato.
(…) Si impadronì di me una sensazione di disagio più generale. Paralizzato da tutte quelle contraddizioni, avevo l’impressione che i nostri progetti di felicità svanissero lentamente, scivolando lentamente fra le nostre dita.
L’estate sulla spiaggia guardavo quasi apatico i nostri tre bambini che giocavano sulla sabbia. Nessuno di loro aveva ancora compiuto i dieci anni. Di fianco a me la madre li sorvegliava da lontano. Sembrava che avesse rinunciato a rivolgermi la parola, come se un rimprovero non espresso avesse aperto fra di noi una irrimediabile distanza.
Ed io, sotto il sole delle nostre vacanza non potevo neppure mettermi in costume. Le conseguenze della guerra e della deportazione a Schirmeck erano troppo evidenti sulle mie gambe dove le vene erano scoppiate come un marchi vergognoso che io non osavo mostrare: dovevo restare in pantaloni come un vecchio signore pur non avendo compiuto neppure quarant’anni.
La tristezza di questo racconto ha bisogno solo di compassione. Non serve nessun commento. Vorrei chiedervi di pubblicare anche il mio interrogativo. Quanti hanno smesso di confessarsi perché stanchi di risposte senza senso e soprattutto prive d’amore e di comprensione?
Il nostro disagio esistenziale che si rivolge ad un confessionale per ricevere una risposta di Vita e invece si ritrova di fronte un muro fatto, se non di stupidità, di impreparazione e incompetenza. Quanti hanno fatto tacere la voce dello Spirito dentro di sé perché intesa come monopolio di una gerarchia intellettuale arrogante e miope? L’appunto che vorrei fare agli omosessuali cristiani, che ho conosciuto, è questo: ‘Perché cercare di forzare le porte di una Chiesa che non ha posto per noi (e che pertanto non è cattolica = universale)?’
Gesù sembra che non si sia sforzato tanto di voler entrare nella cerchia consolidata del Tempio, anzi sembra che abbia fatto saltare anche qualche bancarella sul sagrato. Mi si risponderà che gli argomenti sono diversi. Ma come non c’era nessuna necessità per Lui di riconoscersi nella millenaria custode della Legge, così non c’è nessuna necessità per noi di entrare in quella struttura che ha le stesse pretese di allora.
Con quanto slancio pensate che Gesù entrerebbe dalla Porta Santa? Noi abbiamo bisogno di Gesù e del suo messaggio e non di (tutta) la Tradizione che vi è stata costruita sola. Abbiamo bisogno di testimoniare con la nostra vita il fatto di essere Suoi discepoli, ma non abbiamo nessun bisogno di essere accettati da una struttura che ha perso di vista quanto siano grandi le braccia dell’abbraccio del Padre.
E’ inutile cercare un dialogo con chi non vuole dialogare. E’ tempo di svezzarci! Non per costruire una nuova religione: ce n’è già d’avanzo…, ma per semplificare quella che ci è stata proposta dalla nostra cultura, così come il nostro Maestro aveva cercato di fare con la sua (e nonostante la sua testimonianza estrema questo tentativo è ancora in atto ad opera del (Suo) Spirito).
Vogliamo smettere di sentirci in colpa ed accettare tutte le nostre debolezze come parte di noi stessi, vogliamo uscire dal ghetto e confrontarci con il disagio degli altri, anche quelli che non partecipano della nostra diversità?
Non definiamoci più “cristiani omosessuali”, ma semplicemente “aspiranti discepoli del Maestro”, insieme a tutti quelli che sono rimasti incantati dal Suo esempio. Questo è l’unico modo per poter entrare nella “Chiesa” di Gesù: ci siamo già dentro tutti e non c’è bisogno di richiedere nessun distintivo. Ma il fatto è che siamo ancora stravolti dalle risposte dei confessori… e ci diamo da fare a cercare conferme e attestati in quelle che abbiamo chiamato “Sacre Scritture”. Lì non troveremo mai niente!
Il Libro Sacro che ci ha lasciato Gesù è il ricordo della sua testimonianza e la voce dello Spirito. Lì c’è la risposta a tutto. Possiamo leggerlo quando vogliamo, da soli soprattutto, ma anche in compagnia, mettendo a confronto tutto quello che siamo riusciti a tirarne fuori…
Ma non sono nati così i primi gruppi di coloro che si rifacevano al messaggio di Gesù? Erano un po’ stravolti anche loro, perché pensavano al Suo ritorno imminente… Così non dobbiamo scoraggiarci neppure noi, perché lo Spirito il suo lavoro lo sta facendo da tanto tempo. Dal “fiat lux”! Fede è fiducia nell’oggetto della nostra fede e non ha niente a che vedere con la stesura di morali che si rifanno a pretenziose dogmatiche senza senso. Vogliamo cercare insieme di vivere il messaggio di Gesù, senza chiedere a coloro, che si ritengono di esserne i custodi, di prenderci insieme a loro?
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Testo originale: Les années de honte