Io, trans, dal campo di concentramento di Dachau al Pride
Articolo di Linda Chiaramente pubblicato su Il manifesto del 27 Giugno 2008
Il ventesimo secolo visto dagli occhi di Lucy. Una testimonianza quasi unica la sua. All’anagrafe Luciano, classe 1924 fra i primi transessuali italiani ad operarsi a Londra negli anni ’60 e fra le poche a raccontare la sua esperienza attraverso gli anni del fascismo, la guerra e la deportazione nel campo di concentramento di Dachau come disertore e omosessuale. Nato a Fossano, Cuneo, fin da bambino è consapevole della sua diversità, alla fine degli anni ’30 si trasferisce a Bologna con la famiglia dove vive l’adolescenza e i primi amori. All’epoca non si parlava di omosessualità, «non si sapeva neanche cosa significasse omosessuale» racconta, ma è a Bologna che frequenta un gruppo di amici omosessuali «perché ci stavo bene, mi sentivo uno di loro.
Ci trovavamo quasi tutte le sere sempre nello stesso posto, vicino alla cattedrale o alla Montagnola e ci raccontavamo le nostre avventure. C’era già un giro; praticamente clienti fissi che venivano a cercarci. Sapevano dove trovarci. Poi andavamo nelle zone vicine dove era comodo e c’era un po’ di buio. Si faceva come si poteva. Io andavo con la divisa da marinaretto così ero sicuro che combinavo qualcosa».
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Nell’esercito fascista. Da gay
Erano gli anni del fascismo e bisognava fare attenzione a non dare troppo nell’occhio. «Se avveniva tutto troppo alla luce del sole c’erano botte in vista», ricorda Lucy, «c’erano le bande di fascisti: dove trovavano un po’ di assembramento del nostro genere, succedeva sempre qualcosa. Stavamo sempre all’erta.
Noi non ci siamo mai permessi di abbordare dei fascisti perché capivamo che era pericoloso. Invece c’erano delle checche che si buttavano allo sbaraglio e poi li abbiamo visti arrivare imbrattati con il catrame. Col catrame e tutti pelati! I fascisti facevano finta di starci e li invitavano in un posto dove c’era il resto di loro. Una volta che giravo con una di loro ho trovato una ghenga di queste persone: lui l’hanno massacrato, a me hanno dato due ceffoni, m’hanno fatto un muso così. L’unica volta che mi hanno picchiato, l’unica».
Il primo giorno da soldato nel ’43 Lucy lo ricorda ancora bene: «Uno shock! Io ho detto quello che ero, ma non ci hanno creduto. Ho detto: sono omosessuale. E loro: dicono tutti così, perciò vai vai… L’8 settembre si è disfatto l’esercito, ognuno ha cercato di andare a casa propria, io arrivai a Bologna, ma non trovai i miei genitori, andai a Mirandola, ma non mi trovavo bene lì, era un paese piccolo. Tornato a Bologna, nel frattempo era uscita la legge che se i militari fuggiti dall’esercito non si presentavano, uno dei genitori sarebbe stato ucciso. Non potevo permettere questo e mi presentai.
Lì mi dissero: o con i fascisti o con i tedeschi. Risposi: non vorrei né l’uno né l’altro. Devi scegliere. Coi fascisti non ci vado. Allora vai con i tedeschi. Pazienza, vado coi tedeschi. Così andai a Suviana, ma non mi trovavo, non mi potevo adeguare ad un esercito. Perché dovevo fare il militare con loro? Io sono italiano! Allora mi buttai nell’acqua, presi una bella bronchite, mi ricoverarono all’ospedale e decisi di scappare da lì. Ho vissuto un po’ a Bologna, vivevo di espedienti.
Una sera che andai all’Albergo Bologna con un tedesco che avevo incontrato al bar Centrale, venne la polizia, probabilmente fu una spiata, e ci bloccarono. Lui non l’ho visto più e a me mi hanno accusato di essere un gay. Poi hanno saputo che ero a Suviana e avevo disertato.
È stata una tragedia. Ci hanno portato direttamente in galera. Mi hanno processato e mi hanno condannato a morte. Ho chiesto la grazia a Kesserling che me l’ha concessa, però ai lavori forzati in Germania. Mi hanno assegnato a una fabbrica dove facevano le V1, V2, i pezzi di queste bombe. Anche da lì sono scappata via con un amico».
La fuga è rocambolesca. Una sera, dopo aver scavalcato il recinto, sono corsi verso la piccola stazione, saliti su un treno nascosti sotto i vagoni, sulle ruote aggrappati ad una sbarra, ma invece di andare verso l’Italia il convoglio arrivò a Berlino. «Un disastro. Cambiammo treno, questa volta per l’Italia». Anche lì nascosti, ma dopo poco l’amico uscì.
«A un certo punto hanno fermato il treno, lui è sceso, correva in mezzo a un campo e dei militari gli hanno sparato e l’hanno preso. Nessuno si è curato di andarlo a guardare, ritirare, gli hanno sparato e lo hanno lasciato lì e il treno ha ripreso ad andare. Ma io sono stato preso. Prima mi hanno fatto un interrogatorio bestiale, e non capivano, perché non potevo dire che ero scappato da un campo di lavoro e dicevo un sacco di bugie. Allora mi hanno messo in campo di concentramento. A Dachau».
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Nel campo di concentramento
A Dachau arrivò nel dicembre del ’43, uscì qualche tempo dopo la liberazione del campo perchè fu ferito a una gamba in un tentativo di fuga. Tornò a Bologna nell’agosto del ’45. Nel campo di concentramento Lucy era contrassegnato con un triangolo rosso: deportato come disertore. Arrestato perché omosessuale.
Al ritorno in Italia Lucy, nonostante la grazia ricevuta, non è ben accolta dalla famiglia. È diventata una presenza scomoda per la sua scelta di indossare abiti femminili, truccarsi, e per il suo recente passato da disertore, due macchie troppo pesanti da sostenere per una famiglia che vive in un piccolo centro della provincia di Bologna.
«I miei fratelli dicevano che ero lo scandalo della famiglia. La vergogna del mondo. Allora decisi di andarmene perché i miei fratelli dicevano: se c’è lui non posso sposarmi perché vanno a vedere cos’ha fatto lui, e magari pensano che sono anch’io così. Così ho detto: vi lascio liberi, io me ne vado. E me ne sono andato a Torino».
Lì, dopo un passato da cameriere, s’inventa una nuova professione: tappezziere, poi arredatore, (riceve la pensione da artigiana ed è tesserata alla Cgil) alle quali affiancherà, fino agli anni ’90, la prostituzione. Viaggia spesso a Parigi dove frequenta i locali di cabaret en travesti e dove fa anche l’attore. È in quegli anni che diventa sempre più Lucy. Anche a Torino frequenta il giro trans, i locali notturni, poi decide di operarsi a Londra. Una pioniera in tempi in cui il cambio di sesso era ancora agli inizi. Negli anni ’80 un grande amore, la separazione, e di nuovo il ritorno a Bologna per assistere i genitori malati.
Negli anni ’90 un altro incontro con l’uomo che è ancora oggi il suo compagno: «L’ho conosciuto che era un ragazzo, quando ero in Fiera che facevo la vita», ricorda Lucy, «si vede che gli sono piaciuta. Lui ha avuto dei problemi con la famiglia. Gli dicevano: perché non ti sposi, così ha dovuto sposarsi. Infatti adesso ha tre bambini, una bella moglie. Però mantiene sempre la relazione con me».
La loro storia dura da circa 15 anni, «ho avuto altre storie di cinque, sei anni, ma andavano a finire sempre allo stesso modo: che si sposavano e poi volevano pretendere che io ogni tanto… ma io dicevo no, lasciamo perdere! Ormai sei con la famiglia. E così feci con questo, solo che questo disse di no. E continuiamo a vederci. Per me è come se fosse stato mio marito».
Lucy pensa al passato e conclude: «Quello che è stato è stato, adesso siamo ricchi, non ci manca niente, dobbiamo agire di conseguenza, dobbiamo adeguarci al giovane, ad essere vecchi c’è sempre tempo!». Squilla il telefono, Lucy risponde, guarda verso la camera e dice: «Ciao, ciao. È lui!».
Questa è solo una parte della lunga storia di Lucy, a cui mancano ancora molti tasselli: Torino, Fossano e Dachau. La sua vita è raccontata in prima persona nel promo del documentario «Essere Lucy» realizzato dalla regista Gabriella Romano, che da anni si occupa di storia glbt con un interesse particolare sul tema dell’omosessualità durante il fascismo.
L’autrice, che lavora al progetto da circa due anni, ha avuto molte difficoltà per il finanziamento, e al momento il lavoro è fermo in attesa di fondi. Il documentario, oltre a mostrare il periodo bolognese relativo al fascismo e alla sua vita oggi, dovrebbe ripercorrere in un viaggio a ritroso i luoghi in cui ha vissuto. […]