La benedizione delle coppie omosessuali e i Cardinali, tra cardini e porte da spalancare
Riflessioni di Paolo Spina
È noto come i vescovi fiamminghi, insieme al cardinale Jozef De Kesel, arcivescovo di Malines-Bruxelles, richiamandosi all’esortazione apostolica Amoris laetitia, abbiano preso posizione sul loro Essere pastoralmente vicini ai gay (così recita il titolo del loro comunicato del 20 settembre scorso).
Nei giorni seguenti se ne è diffusamente parlato e scritto: esso prevede una forma maggiormente strutturata di cura pastorale in collaborazione interdiocesana sul territorio, un approccio pastorale fondato sull’incontro, sul dialogo, sul discernimento, e anche proposte di preghiera comunitaria che accompagnino i cammini di coppia. È la prima volta che un gruppo di vescovi descrive in un proprio documento una liturgia di questo tipo (con tanto di preghiere di benedizione).
Le risposte non si sono fatte attendere, e non tutte sono state di plauso. L’arcivescovo di Utrecht, il cardinale Willem Jacobus Eijk, pone alcune obiezioni ai confratelli belgi, contestando loro che tale forma di benedizione, analoga a un sacramentale – secondo la definizione: segno sacro che, senza essere un sacramento, genera frutti spirituali nelle persone che lo ricevono –, mostra un’analogia troppo forte con il rito del matrimonio tra uomo e donna; precisa che la benedizione non presuppone solo una buona intenzione da parte di chi la riceve, perché ciò che è benedetto deve anche corrispondere all’ordine della creazione di Dio, e che non si possono benedire situazioni moralmente sbagliate (richiamandosi alla celebre risposta data dalla Congregazione – ora Dicastero – per la Dottrina della fede a una domanda sulla benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso del 22 febbraio 2021).
Un terzo porporato, il cardinale svizzero Kurt Koch, prefetto del Dicastero per l’Unità dei cristiani, pochi giorni dopo, in maniera infelice, ha paragonato il cattolicesimo del Cammino sinodale della Chiesa di Germania ai “cristiani tedeschi che, in epoca nazista, avevano visto nell’ascesa di Hitler una nuova rivelazione di Dio”, sostenendo in questo modo che lo spirito del tempo non sia motivo sufficiente per modificare la dottrina della Chiesa (scusandosi successivamente per l’equivoco causato dalla dichiarazione).
Insomma, anche il collegio cardinalizio si conferma letteralmente “cattolico”: c’è posto per tutti, e per ogni sorta di posizione, condivisibile o meno. Di fronte a queste tre berrette, identiche nel loro colore porpora, eppure posate su teste molto diverse tra loro, a me viene in mente che non ci sono etimologie particolarmente auliche dietro questo titolo d’onore per un prelato della Chiesa Cattolica, bensì di servizio: la porta ha bisogno di cardini, di riferimenti propri, cioè, per aprirsi, per fare bene il proprio mestiere.
Nell’interloquire comune spesso si dice: “L’ultimo chiuda la porta”. Quanto mi piacerebbe, invece, che soprattutto chi occupa i primi posti, quelli più in alto, di chi guida, governa e istruisce, divenisse “un primo ad aprire la porta”. Non serve aspettare un giubileo, né porte più sante di altre; non servono liturgie altisonanti, martelli d’argento o piviali luccicanti.
Servono battenti che si schiudano sul quotidiano delle vite di molte e molti; servono braccia allenate a spingere non solo ante, ma a favorire slanci per creare rapporti autenticamente solidali; serve ricordare che quell’unzione ricevuta da ogni battezzato – e in duplice dose da un prete, e in triplice da un vescovo – è per oliare cardini ormai arrugginiti, serrature che paiono incapaci di schiudersi.
Serve olio di misericordia, olio di Vangelo. Per i cardinali, e per tutti.