La Bibbia e i nostri discorsi sulla sessualità
Relazione di Daniele Garrone, Atti del IV° Convegno della REFO su “Teologia e sessualità”, Casa Cares, 9-11 Novembre 2001
Non ci avrete forse mai fatto caso, ma le due parole sessualità e omosessualità sono parole moderne, che esistono soltanto a partire dal diciannovesimo secolo.
Basta prendere, non dico la monumentale Storia della sessualità di Foucault, ma anche solo le voci sessualità e omosessualità nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani: tutte e due cominciano con la messa in luce della modernità di questi concetti e dimostrano come l’analisi, la ricerca e anche l’affabulazione (cioè il parlare, il fare della sessualità un oggetto di discorso) siano appunto un fatto che risale agli inizi del diciannovesimo secolo – forse con l’antecedente della pratica del confessionale; ma questi termini, sessualità e omosessualità, esistono soltanto dalla metà del secolo scorso.
Questa premessa è necessaria per ricordare che tutti i cristiani di oggi, di qualunque orientamento siano riguardo ai comportamenti sessuali e all’etica, sono culturalmente “a valle” della scoperta della profondità e della portata della dimensione sessuale dell’esistenza umana. Già questo semplice dato fa sì che non sia possibile “applicare” direttamente la Bibbia ai nostri discorsi sulla sessualità e, viceversa, che non sia possibile ritrovare nella Bibbia le nostre categorie.
Prima di affrontare i due testi che mi è stato proposto di esaminare – Genesi 3,16 e Ct 7,11 – vorrei ricordare alcune caratteristiche generali del modo biblico di parlare della sessualità in senso lato.
La prima è la seguente: il Dio della Bibbia è totalmente asessuato. Nel contesto dell’antico Vicino Oriente, questo è un fatto unico: normalmente la divinità dell’antico Vicino Oriente è sessuata: ci sono divinità maschili e divinità femminili, ci sono dèi che nascono da altri dèi, ci possono essere connubi tra divinità e umani.
In particolare, nell’Asia Anteriore antica, quell’area in cui si sviluppa il pensiero biblico, la sessualità umana era vista come un canale avente un rapporto con la sessualità divina.
Pensiamo a quella che normalmente si chiama prostituzione sacra o ai culti della fertilità, che oggi noi conosciamo grazie alle scoperte archeologiche, e in parte anche a testimonianze dirette di testi redatti nella prospettiva di chi condivideva quelle visioni (mentre prima li conoscevamo soltanto attraverso le stigmatizzazioni bibliche): è chiaro che la sessualità era investita di una dimensione sacrale, e la natura stessa partecipava di questo ciclo della sessualità, per cui la rinascita della terra, il germogliare delle piante, la ripresa della vita a primavera erano legate alle nozze sacre tra le divinità; la pioggia era il seme che doveva fecondare la terra così come la divinità maschile aveva fecondato la divinità femminile.
E i culti “orgiastici” (come venivano chiamati dagli studiosi dell’Ottocento) erano una sorta di “sacramento”, di partecipazione a questo evento legato alla sessualità della divinità.
Nulla di tutto questo c’è nei testi canonici: l’Antico Testamento ci offre una visione completamente diversa di Dio. Dio è asessuato, è un single, non ha famiglia, non ha figli se non quelli che adotta, per cui Israele diventa i suoi figli, ma appunto si tratta di un’adozione di tipo giuridico.
Si parla di questo Dio con metafore prevalentemente maschili ma anche femminili, tuttavia egli non ha alcuna connotazione sessuale. Controprova: la maggior parte delle immagini erotiche applicate a Dio (penso al profeta Ezechiele, al profeta Osea…) sono sempre immagini del matrimonio violato, dell’adulterio e dell’eventuale riconciliazione, cioè investono la dimensione per così dire “pattizia”, giuridica del rapporto. In ogni caso Dio normalmente non ha tratti sessuali simili a quelli delle divinità dell’antico Vicino Oriente.
Il che vuol dire, allora, che la sessualità umana è totalmente profanizzata, cioè non ha un carattere di particolare vicinanza e comunicazione con la divinità: è una delle realtà assolutamente e totalmente umane. Ed è di per sé una realtà di tipo positivo.
Tutta la sessuofobia che ha caratterizzato gran parte dell’Occidente cristiano (penso in particolare al Medioevo) non ha nessuna radice biblica: il fatto che l’umanità sia sessuata, che ci sia il desiderio, l’incontro, fa parte della buona creazione di Dio secondo l’Antico Testamento.
Pensate a Genesi 2 ma pensate anche al Cantico dei Cantici che, al di là delle riletture allegoriche successive, è semplicemente un canto di innamorati che non stona affatto nella Bibbia ebraica, in cui troviamo questa concezione della sessualità come una realtà soltanto umana.
Ma dire “soltanto umana” non vuol dire che sia negativa, terrena, da sfuggire con qualche ascesi spirituale; è una delle tante buone realtà umane donate da Dio, come avere una vigna o un fico, avere una casa, godere dei beni che Dio ha disposto per le sue creature. Quindi questa distanza, in un certo senso, tra Dio e la sessualità, dove l’ambiente li vedeva invece in una comunicazione molto più stretta, è un dato fondamentale.
Un altro elemento fondamentale da non dimenticare è che la società che sta dietro ai testi biblici, Nuovo Testamento compreso, è una società di tipo patriarcale: il che vuol dire che il padre è l’autorità e il centro della famiglia e che l’interesse è patrilineare: per cui il grande problema del contesto patriarcale è quello della legittimità dei figli. La discendenza passa per la linea paterna e (pensiamo alla legge sull’adulterio o ad altre norme simili) questo va certamente tenuto in considerazione: la famiglia è organizzata intorno al padre.
Non dobbiamo dimenticarlo, perché alla famiglia patriarcale erano connesse anche delle concezioni che ormai tutti noi, qualunque sia il nostro orientamento politico, etico ecc., abbiamo superato: per esempio una divisione dei ruoli per cui il maschio era visto come colui che penetra, la donna come colei che viene penetrata. Qualunque cosa venisse a sconvolgere questo rapporto, che non era solo dinamico ma anche gerarchico, era considerata negativa.
Il primo racconto della creazione (Gen 1,1 – 2,4a) contiene una formulazione stridente dal punto di vista grammaticale: ci viene detto (Gen 1, 27) che Dio creò l’umanità (questo il senso esatto del termine ebraico ‘adam in questo contesto) “a sua immagine, a immagine di Dio, maschio e femmina li creò”. Il pronome “li”, plurale, riprende un antecedente singolare (‘adam, umanità).
Non credo però si tratti di una corruzione testuale, quanto di un fatto intenzionale: è come se il contenuto forzasse la grammatica. E il contenuto è che l’umanità creata da Dio esiste al plurale, è maschile e femminile. Se maschi e femmine sono i due componenti l’unica umanità, il loro rapporto è paritario…
Il racconto dei cap. 2 – 3 ha tutt’altro stile. La creazione della donna appare al termine del cap. 2, dopo che Dio aveva dovuto constatare (2,18) che “non è bene che l’uomo sia solo”. Nel fatto che la donna è creata per seconda, si è talora voluto ravvisare la prova biblica della subordinazione della donna. Lo stesso è valso per il fatto che essa viene creata come “aiuto” dell’uomo (2,18b).
Se prestiamo attenzione alla retorica del racconto, però, le cose stanno diversamente. Qui in Gen 2 la creazione della donna è “ritardata” per creare un effetto climatico[3]: finché non c’è la donna, c’è qualcosa che non va. Una umanità solo maschile non è umana.
Il lettore che proviene da Gen 1, dove Dio constatava per ogni opera della sua creazione che era riuscita bene, non può non essere colpito dal “non è bene” di 2,18. Semplificando un po’, si può dire che Gen 2 presenti in forma narrativa la stessa visione dei rapporti tra uomo e donna di Gen 1. Il termine “aiuto”, poi, non indica mai nella Bibbia ebraica lavori servili o subordinazione, ed è anzi spesso usato per indicare ciò che Dio fa a favore dell’uomo.
Il termine ebraico che la Nuova Riveduta traduce con “adatto a lui” implica l’idea di una corrispondenza sullo stesso piano, di un vis à vis. Un’altra interpretazione assai diffusa, quella che vede nella trasgressione del divieto di mangiare una colpa di tipo sessuale, non regge alla luce di un attento esame dei testi.
La “sessualità” è presente come realtà positiva fin da Gen 2,24: l’uomo si unirà (il verbo ha senso sessuale) alla sua donna e i due saranno una sola carne. Si è spesso voluto vedere in questo testo l’istituzione divina del matrimonio monogamico. Se così fosse, il matrimonio farebbe parte dell’ordine “naturale”, come sostiene la morale cattolica. In realtà non è né sicuro né probabile che qui sia Dio a parlare.
Più probabilmente è il redattore, che non usa linguaggio prescrittivo, ma fa una acuta osservazione antropologica e psicologica (nonostante l’anacronismo dei termini): se uomo e donna sono legati come appare nel racconto della creazione, allora si spiega perché ad un certo punto dello sviluppo un uomo (=maschio) senta una attrazione così forte per la donna da far passare in secondo piano il legame affettivo e sociale fondamentale fino a quel punto: quello coi genitori!
Va notato che questo movimento del maschio dalla casa paterna alla donna è l’opposto di quello consueto nel matrimonio patriarcale, in cui era la donna a lasciare la sua famiglia di origine per entrare a far parte di quella del marito. Ciò dipende dal fatto che Gen 2,24 non descrive un istituto sociale, ma dà conto di una dimensione dell’umano, colta dal punto di vista di un autore maschio.
Quanto detto finora ci permette di cogliere meglio il significato di Gen 3,16[4]. Si tratta di una parola rivolta alla donna come “maledizione” per la violazione del “limite fondante” rappresentato dal divieto di mangiare del frutto dell’albero.
Chiamiamo “fondante” quel limite perché è un limite remoto, “al limite”, se posso fare questo bisticcio verbale: non una recinzione che stringe l’umanità in una spazio angusto, ma il confine ai margini del vasto mondo in cui l’umanità può essere se stessa, “poco meno di Dio”, come dice il Sal 8. Il limite che preserva dal delirio di onnipotenza e che come tale permette la realizzazione dell’umano.
Il limite viene violato e tutto si sfigura. Spesso sfugge la “simmetria” che c’è tra il cap. 2 e il cap. 3 della Genesi. Gli stessi rapporti (uomo-donna; umanità-terra; Umanità-Dio; umanità – animali) che in Gen 2 appaiono armoniosi e benefici, sono in Gen 3 stravolti.
Ad esempio: la terra non è più il giardino in cui l’uomo si muove come un signore che lo fa produrre, lo valorizza, lo definisce a partire da sé (il dare i nomi agli animali), ma diventa terra avara di prodotti e fonte di fatica. Gen 3,16 ribalta l’accoglienza che l’uomo aveva riservato alla donna in 2,23[5]: le prime parole umane della Bibbia, parole di tenerezza, di gioia, di stupore ammirato.
Ora la donna andrà verso l’uomo con il suo desiderio, ma egli la tratterà da padrone. In questa opposizione di desiderio (desiderio manifestato, cioè esponendosi, mostrandosi senza difese) e dominio si coglie il tragico del maschilismo.
Ora il punto è questo: la tradizione che ha visto in Gen 3,16 la legittimazione divina del patriarcalismo e del dominio maschile, non coglie il luogo in cui questa frase viene pronunciata: Gen 3 – il mondo come Dio non lo vuole – e non Gen 2 – la buona creazione di Dio.
Il termine ebraico tradotto con “desiderio” è una parola rara: si trova solo tre volte: in Gen 3,16; 4,7 e Ct 7,10. Gen 4,7 può essere lasciato da parte perché non riguarda i rapporti tra i sessi. Ct 7,10, invece, è un testo fondamentale. E’ la donna che parla e che dice del suo amato: “Io sono del mio amico, verso me va il suo desiderio.” Il Cantico conosce un desiderio maschile, simmetrico di quello femminile.
E’ stata in particolare parte dell’esegesi femminista ad accostare Gen 3,16 e Ct 7,10 e a farci notare come il Cantico conosca una realtà maschile altrettanto tenera, vulnerabile, dolce di quella femminile. Questo accostamento ci lascia intendere che Gen 3,16 non è l’ultima parola, non è la condizione normativa e definitiva: dove si vive la tenerezza, la passione, il desiderio reciproco, dove la sessualità è vissuta come nel Cantico dei Cantici c’è forse un Eden ritrovato…
_______________
[1] Francesco Gnerre, L’eroe negato, Baldini & Castaldi 2000, Milano p.389
[2] Queste pagine sono la revisione degli appunti preparati, e in parte utilizzati, per il convegno … Come il lettore non mancherà di notare, sono e rimangono appunti.
[3] Cioè un effetto per cui la creazione della donna rappresenta l’apice del racconto, il punto di maggiore tensione narrativa e insieme di risoluzione della vicenda – NdR
[4] Alla donna disse: “Io moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e le tue gravidanze; con doglie partorirai figli: i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo marito, ed egli dominerà su di te”.
[5] E l’ uomo disse: “Questa finalmente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne…”