La carta del giornalista, per non discriminare le persone glbt
Articolo di Delia Vaccarello pubblicato su L’Unità del 18 dicembre 2013
Ma davvero ancora oggi per parlare di gay e lesbiche i giornalisti usano con disinvoltura la parola «diversità» e non «pluralismo»? E che dire della confusione tra coming out e outing o dell’uso smodato dell’aggettivo «lesbo» per indicare un bacio tra donne e fare proprio il lessico del porno? E le immagini? Il capitolo è dolente: per illustrare articoli relativi ad adozioni di coppie gay o lesbiche è possibile che si usino a corredo istantanee di drag queen.
Per fare chiarezza di fronte al caos degli usi scorretti e delle insalate di pregiudizi sono state appena diffuse le linee guida per l’informazione (rispettosa delle persone LGBT) realizzate nell’ambito del progetto «Lgbt Media and Communication» finanziato dal Consiglio di Europa, in attuazione del Programma «Combattere la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere».
Cornice delle raccomandazioni è la condanna dei discorsi di odio fatta dalle istituzioni europee e la Carta dei doveri del giornalista che attribuisce a tutti noi «il dovere fondamentale di rispettare la persona, la sua dignità e il suo diritto alla riservatezza e non discriminare mai nessuno per la sua razza, religione, sesso, condizione fisiche o mentali, opinioni politiche».
Si parte dall’abc: ad esempio dalla constatazione che se più in generale le donne tendono a sparire dal linguaggio le lesbiche non fanno eccezione, e diventano doppiamente invisibili, occultate dietro i termini «gay» e «omosessuale».
Quando si parla di lesbiche, spesso si usano gli aggettivi «lesbo» o «saffico» dal sapore morboso, o si dice donne gay, dicitura diffusa nel mondo anglofono, ma superata in Italia dove il movimento legato alle istanze del femminismo promuove invece l’uso della parola «lesbica». Completamente ignorato è poi l’uso corretto del maschile e del femminile a proposito delle persone transgender.
Anche se più volte segnalato in questa rubrica ai nostri lettori (Liberi tutti nasce proprio per contrastare i pregiudizi sulla base di orientamento sessuale e identità di genere), lo ribadiamo nuovamente: alle persone transessuali va riconosciuto nel linguaggio, e non solo, il genere di approdo.
Se dunque vogliamo utilizzare il termine trans come sostantivo, diciamo «la trans» se si tratta di una persona nata maschio che sente di appartenere al genere femminile e «il trans» per una persona nata femmina che sente di appartenere al genere maschile.
Stessa scelta va adottata se il termine è usato come aggettivo. In breve, le persone trans di aspetto femminile sui giornali vengono citate come «i trans»: quest’uso è scorretto. Occorre scrivere o dire «le trans».
Va poi sottolineata la pressochè totale ignoranza sui concetti di orientamento sessuale e identità di genere che vengono anche confusi, laddove il primo è un termine relazionale e riguarda in coinvolgimento erotico-sentimentale-esistenziale che ci lega a un’altra persona mentre il secondo riguarda il soggetto e il senso di appartenenza al genere.
I due concetti sono chiavi di lettura che riguardano qualsiasi persona e dunque, se ben compresi, ci fanno capire meglio noi stessi e il mondo in cui viviamo. Ci sono tanti tipi di orientamenti sessuali, tutti di pari valore, riassumibili a grandi spanne in: orientamento etero, omo, bisessuale. Il senso di appartenenza al genere ha poi moltissime varianti, non a caso si va diffondendo anche l’uso della dicitura «gender variant».
Non comprendendo il concetto di «identità di genere» si assimila molto spesso una trans a un travestito e in più nei media la si considera quasi sempre una persona che si prostituisce, sposando un pregiudizio purtroppo largamente diffuso.
Spessissimo in notizie di agenzia e nei titoli di cronaca la parola «trans» è appunto usata come equivalente di «prostituta». Altra trappola: l’uso della dicitura «famiglie gay» per indicare i nuclei in cui i genitori sono gay o lesbiche, senza riflettere sul fatto che non tutta la famiglia è «gay», che l’orientamento sessuale dei figli non ha nulla a che vedere con quello dei genitori. Corretto è invece l’uso di «famiglie omogenitoriali» o famiglie «arcobaleno».
Di «esercizi per l’informazione sulle persone lgbt» si è discusso venerdì scorso a Bologna nell’ambito del convegno «Gli ambienti particolari» organizzato in Regione. Tra le tante indicazioni la «regola aurea»: il giornalista o la giornalista che devono trattare un argomento «Lgbt» non devono fare altro che domandarsi come tratterebbero la stessa notizia se non stessero parlando di persone lgbt.
E il corollario: tenere sempre conto che gay, lesbiche e trans fanno parte del pubblico a cui ci si rivolge, che non sono «quelle persone là» ma anche voi che leggete.