La cena degli dei alle olimpiadi. Cosa ne pensiamo noi cristiani LGBT+?
Riflessioni di Massimo Battaglio
Non accenna a placarsi la polemica incrociata sul quadro vivente della cena degli dei en drag proposto durante la cerimonia di apertura delle olimpiadi di Parigi. Effetto estate o distrazione di massa?
Non importa: l’argomento, a diversi giorni dai fatti, continua a far discutere, anzi, a far litigare prendendosi reciprocamente in giro.
Cosa ne pensano le persone LGBT+ cattoliche? Cornute e mazziate da una parte e dall’altra? Ricominciano col ritornello della “doppia discriminazione”? Ho provato a curiosare nei social e mi pare di non poter registrare niente di tutto ciò.
All’inizio, anch’io mi sono sentito a disagio, ma non per una questione di irriverenza nei confronti della religione o addirittura di blasfemia (chi la spara più grossa?). Ciò che mi ha infastidito è questa trita rappresentazione dell’omosessualità come fenomeno macchiettistico: le drag, le pose forzatamente sexy… tutto l’armamentario della provocazione in stile queer – sacrosanta in altri momenti – portato a icona, istituzionalizzato, monumentalizzato.
Per carità: quando, al nostro interno, facciamo o sentiamo battute scurrili, è autoironia. Ma se le fanno gli altri, è omofobia. Quando sbattiamo in faccia al pubblico ciò che il pubblico giudica “eccesso”, lo facciamo per mostrare che la nostra fierezza è più forte delle pruderie sociali. E se in una festa ci scappa la battuta “c’è troppa frociaggine”, il nostro intento è di sdrammatizzare. Ma se lo fa il Papa in un consesso di vescovi, è un dramma. Punto.
La provocazione ha senso quando parte dal basso e diventa strumento di lotta politica. Se invece viene assunta dall’alto, imposta dalle TV di Stato, perde tutto il suo portato trasgressivo e diventa pura accademia, satira di regime.
E noi, in Italia, di questo tipo di satira, ce ne intendiamo: la varie Platinette, i vari Malgioglio, le infinite variazioni sul tema del “Vizietto” di tognazziana memoria, avevano senso cinquant’anni fa. Oggi non sono altro che una gentile concessione di Stato che ci relega nel recinto inoffensivo dell’umorismo da varietà.
Perché, per raffigurare la libertà e l’uguaglianza, la fraternità e l’inclusione su cui si fonda la République, non si è scelto di evocare la grande tela della Marianne di Delacroix facendone impersonare la protagonista da un uomo en traversti? Questa sì, sarebbe stata provocazione, dissacrazione vera, non solo bourlesque nazional-popolare.
Le dimostrazioni che il bourlesque di stampo arcobaleno non produce nulla di rivoluzionario sono molte. Basta ricordare che l’uomo più votato d’Italia è il generale Vannacci. Basta notare che il fenomeno dell‘omofobia sta assumento toni sempre più vicini allo squadrismo “politico”.
Quando però ho cominciato a leggere le reazioni scomposte dei bempensanti cattolici all’apertura delle Olimpiadi, la mia sensazione di fastidio ha ceduto il passo a un senso di vergogna. E non parlo di vergogna di essere gay. Al contrario! Ho provato vergogna di fronte all’atteggiamento sgangherato di tanti che, in teoria, hanno qualcosa di importante in comune con me: niente meno che la fede.
Vergogna per la loro suscettibilità, per il bisogno irrefrenabile di marcare il territorio; vergogna per l’ignoranza e per la superficialità con cui si emettono sentenze. Ma soprattutto, mi sono vergognato perché tutto questo agitarsi mostrava il persistere di una religiosità fetiscista che nulla ha da spartire con la fede cristiana.
Dice giustamente l’amico Gianni Geraci in un suo post:
“Gesù nel Vangelo ci invita a dare da mangiare agli affamati, non ci chiede di indignarci per le parodie dell’Ultima cena”. E aggiunge: “Fate un esame di coscienza. Di parodie del Cenacolo vinciano ce ne sono a centinaia. Tra l’altro quella di ieri non era nemmeno una parodia del Cenacolo ma la parodia di un banchetto degli dei dell’Olimpo (senz’altro più a tema visto che si parla di Olimpiadi). E allora perché tutto questo “can can”? Perché le protagoniste di questa parodia sono persone transgender. La transfobia è una brutta malattia e la maggior parte di quelli che ne soffrono non si rendono nemmeno conto di averla”.
Davvero: sembra che i cattolici siano più affezionati alla difesa del marchio, che alla pratica delle virtù che dovrebbero testimoniare. San Paolo le elenca chiaramente: “fede, speranza, carità” (1Cor 13,13). Non parla di icone identitarie.
Giacomo rincara la dose: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? (…) La fede, se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gm 2, 14-17). Da nessuna parte delle Scritture si invita a eleggere qualche categoria di persone (in questo caso quelle transgender) per sfogare i propri pruriti. Di capri espiatori, nella nostra religione, ne abbiamo già uno. Caricare le nostre frustrazioni sulle spalle di un fratello è da stupidi: “chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra” (Gv 8,7).
Ma poi, per peggiorare il peggio, perché difendere a spada tratta l’Ultima Cena di Leonardo, che ha così poco a che fare col racconto evangelico? I signori cattolici col pedigree l’hanno mai guardata con un po’ attenzione? Esaminiamola: manca il calice; il vino è ridotto a mezzo bicchiere a testa. Manca il pane comune, sostituito da una dozzina di panini distribuiti sul tavolo. Manca l’agnello; compaiono invece due vassoi, uno con del pesce e l’altro con un pastello non ben decifrabile.
I presenti, oltre a Gesù, sono dodici ma, dietro alla figura di Giuda, spunta una mano con coltello, che sembra appartenere a un tredicesimo invitato nascosto. Pietro la afferra, fermandola. Potremmo continuare: tutti i presenti hanno i piedi calzati nonostante Gesù abbia appena finito di lavarglieli.
L’Ultima Cena leonardiana non è una ricostruzione filologica dei fatti storici né tantomeno un’illustrazione dei Vangeli. E’ un’attualizzazione: un pranzo quaresimale quattrocentesco in cui sta per capitare qualcosa di drammatico. E a questo pranzo sono invitati tutti, compresi gli spettatori. Essi infatti, ammirando il dipinto dai loro scranni nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, finicono per prenderne parte. E’ per questo che il maestro allinea i protagonisti su un solo lato: per sottolineare che la tavola prosegue nella sala, dove tutti i presenti sono invitati a vivere come discepoli.
Come tutte le attualizzazioni, il Cenacolo vale nel suo tempo. Poi diventa testimonianza storica. In ogni caso, non è verità ma rappresentazione di una verità alla luce della cultura di chi l’ha realizzata. E’ arte sacra ma non è il Sacro di per sé. Il suo significato non è immutabile. E chi fa confusione tra queste cose ha poco da sfoggiare l’ortodossia della propria fede. In realtà sta cadendo nell’idolatria.
E’ mai possibile che coloro che si ergono a custodi del cattolicesimo, vescovi francesi in testa, non abbiano mai riflettuto su tutto ciò?
Scrive un altro nostro amico, Paolo Spina:
“Da cattolico mi sorprende sia la reazione scomposta di molti, sia l’affrettato comunicato dei vescovi francesi, ai quali accosto una metafora che mi è cara: si tratta sempre di scegliere se essere api o mosche. Un’ape, pure in un letamaio, cercherà sempre di trovare un fiore su cui posarsi, per arricchire e generare vita. Parimenti, una mosca, in un grande prato fiorito, saprà sempre trovare un escremento, seppur minuscolo, sul quale posarsi e del quale impiastricciarsi. Non mi addolora la parodia (inesistente: quindi niente di cui preoccuparsi inutilmente). Mi addolora, e pure grandemente, che chi crede nel Dio amante e vitale rivelato da Gesù sappia spesso soltanto vedere il marcio, ovunque, gridando e imprecando: O tempora, o mores!”
A me addolorano anche altre due cose. La prima è che tanti cattolici continuino a preferire i quadri, le processioni, le madonne delle quattordici spade e dei ventotto dolori, piuttosto che la verità del Vangelo. Che è verità salvifica, liberante e inclusiva. E la seconda è l’ignoranza. Ne parla, proprio in questi giorni, Andrea Ricciardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, sulle colonne de L’Avvenire:
“Oggi penso ci sia un fenomeno mondiale: la deculturazione della religione e dei fenomeni religiosi. La vedo diffusa in quei movimenti che sono diventati parte importante del cristianesimo contemporaneo e della sua comunicazione. E che sono assolutamente disinteressati a confrontarsi con i temi della cultura, intesa in termini di storia, futuro, realtà, dibattito, libri. Sono arroccati in una comunicazione tutta di tipo sentimentale”. Più avanti: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.
E infine: “Nella grande storia del cristianesimo abbiamo assistito proprio a questa fede vissuta del popolo di Dio che si è fatta cultura alta e cultura di popolo: rimeditazione della storia, produzione di arte, dibattito con altre forme di pensiero e via dicendo. La fragilità dell’espressione odierna della cultura cattolica nasce dalla fragilità della fede vissuta, anzi dalla fragilità delle nostre comunità e dalla rinuncia a dire una parola di rilievo”.
Ricciardi non pensava certamente alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Ma il tempismo è impressionante.
Devo ammettere che l’episodio è stato, per molti di noi, occasione di riflessione, come mostrano le tante opinioni, meditate, che leggo sulla mia home di facebook. Ne riporto ancora qualcuna.
Rosario, per esempio, con linguaggio un po’ più colorito di quello di Ricciardi e di Geraci, ne ripete i contenuti carcando la dose:
“Penso che il collegamento più diretto dell’immagine sia ai banchetti degli dèi greci. Sapete com’è: Olimpiadi, Grecia… con tanto di Dioniso/Bacco imporchettato sul tavolo. Cosa c’entrerebbe l’ultima cena di Leonardo? Anche se fosse un’allusione all’ultima cena , perché non hanno alzato la voce per tutte le altre volte in cui una tale configurazione è stata utilizzata nell’arte, nel cinema, nel marketing? Forse il problema era che al posto del Cristo c’era una donna, e per giunta gr@ssa? O perché al posto degli apostoli c’erano ballerini/e e drag?
Al di là delle simbologie (che non appartengono alla specifica religione ma all’umano in sé), sapete cosa importa agli altri della religione cristiana, nello specifico cattolica? Un c@tzo, a meno che non si sia credenti. Sarà questa perdita di influenza a determinare le manie persecutorie di certi vescovi cattolici? Forse, pur di continuare a sentirsi importanti, cercano in qualunque evento l’occasione denigratoria”.
Tiziano Izzo, esperto di religiosità popolare e di antropologia religiosa, propone: “Noi pensiamo alla Drag Queen come personaggio pacchiano ma, se facciamo qualche ricerca, esso nasce come una narrazione di persone ferite, marginalizzate, bullizzate e con un senso di disagio con il proprio corpo, nella propria famiglia e nella comunità di origine. Le drag hanno perciò fatto quello che anche gli antichi facevano: scegliere una narrazione non conforme, una caricatura delle loro sofferenze. Decidono di chiamare arte quello che le masse e il canone tradizionale di arte non considera arte o moda”.
E prosegue: “Se gli autori (della kermesse) avessero voluto dire qualcosa sull’Eucarestia, allora la polemica avrebbe avuto senso ma poiché volevano dire qualcosa sul senso di festa e su un banchetto a cui partecipano tutti con le loro differenze, non trovo difficoltà a capire le loro scelte. Il Vangelo e la scrittura narrano parabole di banchetti aperti agli emarginati, cene con lavande dei piedi e in casa di peccatori che più che altro significano un messaggio di accoglienza. Le Olimpiadi erano una narrazione religiosa e civile di incontro tra i popoli per celebrare la Pace”.
Tiziano Fani Braga insiste sul tema dell’inculturazione del cristianesimo: “Che baccano per un Baccanale! Tornando per un attimo sul tema cerimonia di apertura delle Olimpiadi (poi la finisco per sempre), tutta una frangia di cattolici che si sono fermati, continuando a farlo, nella loro posizione da ignoranti, cioè ignorano che prima del cristianesimo è esistito altro, la cultura romana e greca, cultura che oltretutto ha fatto da culla alle stesse Olimpiadi”. “Dio non ha mai cancellato la storia. Forse certi cristiani hanno tentato di farlo ma con scarsi risultati, meno male, basti pensare alle devastanti conseguenze dell’Editto di Tessalonica”.
“Molta cultura cristiana riprende parte di quella pagana, egizia o di altri continenti, opere, statue venerate, racconti, tutta la nostra liturgia è un rimando in chiave cristologica di tutta la storia della salvezza. Il cristianesimo, attraverso anche l’incorporazione di tradizioni e liturgie pagane, riuscì a radicarsi profondamente nelle culture preesistenti.
Questo processo di sincretismo non solo facilitò la transizione delle popolazioni pagane alla nuova fede, ma arricchì anche il cristianesimo, rendendolo una religione versatile e capace di adattarsi a diverse realtà culturali. Studiando queste influenze pagane, possiamo comprendere meglio l’evoluzione storica del cristianesimo e apprezzare la complessità del suo sviluppo. Non rinneghiamo le nostre origini, anche la nostra teologia si basa su un’elaboratissima costruzione di oltre 5000 anni”.
Sulla stessa linea Marco: “Ma dico io… quando sarà che noi cristiani impareremo ad essere meno odiosamente noiosi? E quando sarà che smetteremo di essere contenti quando si schierano dalla nostra parte quelli che poi, quando si tratta di accoglienza al prossimo, sono i più lontani da quelle che dovrebbero essere le prerogative dei cristiani veri?”.
Sembra quasi che ci si sia messi d’accordo. Invece, i nostri posto sono quasi contemporanei. Dunque, esprimono un pensiero comune e, mi permetto di dire, un pensiero profondo. Sicuramente più profondo di quello di molti monsignori con contorno di bigotte, i quali, tanto preoccupati di puntellare il tetto della baracca, sembrano aver dimenticato dove sono le sue fondamenta.