La Chiesa cattolica e i gay. Percorsi di fede nella diversità. Come Pensarli
Intervista di Luciano Moia a Damiano Migliorini pubblicata su Noi famiglia & vita, supplemento mensile allegato ad Avvenire del 28 aprile 2019, pp.34-37
L’amore omosessuale, la liceità morale degli atti, il problema della differenza sessuale, l’esigenza di “inventare” un nuovo approccio pastorale. Tanti gli aspetti toccati da Damiano Migliorini, giovane studioso cattolico che sul tema ha però già scritto e pubblicato molto. Le sue riflessioni, su cui si può certamente anche dissentire, non sono né conclusioni definitive né verità di fede, ma spunti per discutere su questioni troppo lasciate sullo sfondo che attendono di essere sviluppate con serenità e senza pregiudizi, avendo a cuore soprattutto il bene delle persone.
L’approccio tradizionale afferma che i gesti affettivi delle persone omosessuali sarebbero eticamente negativi in quanto svuotati del valore della differenza. Posizione da mantenere o da rivedere?
È una questione che richiederà sempre più studio e una chiarificazione concettuale. Quale “differenza”? In che senso essa viene “negata”? Quando è un “valore”? Provo ad abbozzare alcuni spunti per la discussione. La differenza sessuale (dimorfismo) è indispensabile per la procreazione e fa parte del disegno di Dio perché rende possibile una delle forme di comunione umana. Quest’ultima è il valore che ogni tipo di coppia, conformemente alla propria natura, dovrebbe esprimere. Quella sessuale non è infatti l’unica “differenza” che lo rende possibile: ogni persona è diversa da ogni altra, e ogni amore – anche omosessuale – è incontro faticoso, gioioso e misterioso, con un\una totalmente altro\a.
In questo incontro – che implica tutte le dimensioni della persona, corporeità compresa – può accadere il misterioso momento della trasformazione in una caro. Le persone rinascono nella coppia, per grazia di Dio (non sono più due semplici “io”, ma un “noi”): l’amore di coppia determina l’apertura a una nuova dimensione di vita per i soggetti (ed è dunque “generativo”, li ricrea). Anche l’amore omosessuale non esclude una relazione positiva con l’altro sesso e non nega l’importanza della differenza. La coppia omosessuale opera forse una negazione “simbolica”, ma non “materiale”, né “valoriale” (cioè non implica la cancellazione del dimorfismo). Una negazione “simbolica” perché si nega la prete- sa che solo la coppia eterosessuale sia portatrice di bellezza relazionale e affettiva.
Anche il celibato, però, è una negazione “innocua” di questo tipo, giacché attesta i molteplici modi di realizzarsi affettiva- mente e cristianamente.
Ugualmente, riconoscere la complessità della natura, l’esistenza de facto di numerose positive identità sessuali e le loro costellazioni affettive, non equivale a negare il dimorfismo biologico o la positività dell’eterosessualità. Significa apprezzare la varietà della creazione, riconoscere i valori propri di più esperienze umane, facendole splendere tutte maggiormente.
Sullo sfondo rimane quella definizione del Catechismo a proposito di una condizione “moralmente disordinata”. Si tratta di una posizione insuperabile?
Per rispondere è necessario scomporre il problema nelle sue articolazioni. Una riguarda l’autorità dottrinale del Catechismo (o dei documenti di cui è sintesi): esprime una verità immutabile, anche nella formulazione linguistica? È una questione dibattuta, visto che i catechismi non sono rimasti immutati. Inoltre, è consapevolezza comune che, su certi temi, la Tradizione richiede una sapiente ermeneutica. Si tratta anche di comprendere perché il magistero abbia assunto una certa posizione, in base a quali presupposti filosofici, scientifici, esegetici. Ed eventualmente correggere alcuni termini (o interpretarli in modo nuovo), in base alle nuove evidenze.
Detto questo, entriamo nel concetto contenuto nei documenti. L’omosessualità è una condizione “moralmente disordinata”, si sostiene, per gli atti non riproduttivi – quindi “incompleti” – a cui conduce (sulla mancanza della “differenza” abbiamo già detto). Nel ragionamento manca però una considerazione adeguata sull’omosessualità come condizione esistenziale strutturale. Essa è una variante sana e stabile della psiche umana che porta ad amare integralmente un’altra persona: a questa condizione, per alcuni individui naturale, corrispondono alcuni atti corporei oggettivamente adatti e congruenti alla necessità d’esprimere quell’amore, cioè il valore della comunione.
Se si approfondisce il significato dell’omosessualità, allora, potrebbe emergere che essa (e i relativi atti) corrisponde a un ordine diverso – proprio di una natura individuale– prima sconosciuto e non per forza negativo. Una foresta appare disordinata finché non scopriamo il suo ordine e quindi la sua bellezza. Ci sono pertanto gli estremi per un aggiornamento, pur mantenendo vivo lo spirito profondo della Tradizione.
Il problema rimane sempre quello della liceità degli atti omosessuali?
Prima o poi si arriva sempre alla questione degli atti, che riguarda la dottrina dell’”inscindibilità” dei fini “procreativo” e “unitivo” per ogni atto sessuale (dottrina infallibile, secondo alcuni). Cosa dire, allora, circa gli atti omosessuali, biologicamente non procreativi? La teologia sta esplorando alcuni percorsi, da alcuni decenni. Una via è quella d’intendere “procreativo” in senso ampio, come “generatività” (che dunque renderebbe completi anche gli atti biologicamente non fecondi).
L’altra è riconoscere i casi in cui i due fini non sono volutamente (per scelta consapevole dei partner) bensì naturalmente separati: nell’atto d’amore omosessuale uno dei fini non c’è “per natura”, data la natura individuale dei partner. Si potrebbe però obiettare che le coppie omosessuali dovrebbero vivere l’astinenza, perché lo specifico degli atti sessuali (la loro forma), in quanto atti corporei, è la potenzialità procreativa: a un atto corporeo, cioè, dovrebbe corrispondere – almeno in potenza – un “frutto” corporeo.
Dato che l’amore tra due persone dello stesso sesso produce solo un frutto spirituale (il fine unitivo, la mutua cura) – prosegue l’obiezione – l’atto sessuale non è consentito perché manchevole di un aspetto essenziale. È tuttavia un ragionamento che nasconde un dualismo problematico. In realtà, infatti, alcuni frutti spirituali (come l’amore di coppia) richiedono atti corporei conseguenti.
Se dunque verifichiamo l’esistenza di un amore omosessuale, potremmo concludere che la natura lo consente e gli atti sessuali conseguenti sono necessari e hanno un loro ordine\perfezione naturale (sono atti in cui natural- mente non c’è il fine procreativo). Un’ulteriore ipotesi, di alcuni autori, è che vi sia integrazione (corpo-psiche) proprio dove l’atto corrisponde alla complementarietà olistica (psico-affettiva e corporea, non solo genitale). Gli atti sessuali sono veramente umani (personali, buoni) quando sono integrati con il Sé completo. Penso siano tutte ipotesi che meritino di essere discusse.
È d’accordo con l’approccio teologico che sollecita al superamento della legge morale naturale? E come ci si dovrebbe muovere?
No, non sono d’accordo. La legge naturale è utile per fondare un’etica universale. Alcuni oggi vorrebbero abbandonarla, forse a causa di un suo fraintendimento. Dopo la Veritatis Splendor, in teologia morale fondamentale, sono state però sviscerate le sue potenzialità. Tale “legge” è legata alla conoscenza di ciò che è naturale o razionale, implica un continuo aggiornamento, in base all’accesso progressivo al dato naturale. Vale per essa il principio secondo cui la realtà è superiore all’idea: la realtà va indagata per come è, non per come vorremmo che fosse. Una fenomenologia (del corpo, dei gesti) e antropologia adeguate partono da qui.
Sull’omosessualità, solo oggi iniziamo ad apprezzare aspetti determinanti: le persone Lgbt sono “sane” sotto tutti i punti di vista e il loro orientamento le porta a innamorarsi integralmente di un’altra persona (nell’interezza corporeo-spirituale). La natura quindi contempla orientamenti sessuali diversi che consentono alla persona di fiorire.
Le evidenze scientifiche mostrano altre inclinazioni “naturali” – legate all’orientamento sessuale – che ci permettono di aggiornare le implicazioni etiche della legge naturale, senza archiviarla. L’uomo è un “corpo spirituale”: il corpo è inserito in una rete di relazioni che strutturano un suo aspetto, la psiche, generando vari orientamenti affettivi che determinano un modo naturale individuale d’espressione corporea negli atti. L’orientamento sessuale è cioè una struttura psichica profonda determinata dall’avventura esistenziale corporeo-relaziona- le. Questa complessa avventura determina la natura individuale della persona (“Socrate”) conforme a quella universale (“umanità”) e dunque la diversificazione del desiderio di un amore sano e personale.
Gli atti sono conformi all’amore che le persone naturalmente vivono: la natura umana inclina ad atti diversi, conformi alle perfezioni naturali personali. Non è, evidentemente, un approccio basato solo sulla “qualità delle relazioni”, bensì è sostenuto da una comprensione dei dinamismi profondi dei nostri corpi (intesi come totalità degli aspetti della persona).
La Chiesa ha avviato un difficile e complesso percorso per dare concretezza all’invito di papa Francesco a proposito della necessità di accompagnare le persone omosessuali “a realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita”, nel rispetto della dignità di ciascuno ed evitando ogni marchio di ingiusta discriminazione. Quali criteri si dovrebbero seguire in questo percorso di sviluppo pastorale?
“Difficile e complesso”, sì: spesso non ci si rende conto dello sforzo che il popolo di Dio sta facendo per trovare un nuovo modo di accompagnare queste persone. E forse ci si scorda di ringraziare lo Spirito Santo per averlo innescato in tutti noi. Comunque, non parlerei di “criteri” ma di “buone pratiche”, in attesa dell’elaborazione teologica. Le indicazioni di J. Martin (nel libro Un ponte da costruire) sono sagge. In generale vale quanto scritto nell’Evangelii Gaudium (EG, 127-129): un accompagnamento da persona a persona che passa per l’”incontro” e l’”ascolto”. Vorrei ricordare un pensiero del Papa, adattandolo: il dialogo è un bene che consiste nelle persone stesse che si donano in esso (EG, 142).
Il dialogo è un fine, non solo un mezzo. Poi, certo, ci vuole “cautela”.
Ai sacerdoti a volte si rivolgono persone fragili, incapaci di accogliere in pienezza la dottrina ufficiale. Qui è necessario dare tempo (EG, 171), facendo percepire loro d’essere amate, non giudicate. Se vivono una relazione che ritengono positiva, nella logica della legge di gradualità è incauto suggerire subito d’interromperla, magari facendole cadere nella promiscuità. Insomma, pur a “dottrina invariata”, ci sono molti modi per proporla. La verità può essere proposta con un abbraccio o con una pugnalata: sta ai pastori decidere quale modalità usare, consapevoli delle conseguenze sull’anima che è loro affidata.
Un appunto però è necessario: le nostre comunità cristiane non possono fermarsi agli auspici di accoglienza. Devono intraprendere percorsi di formazione per la rimozione dei pregiudizi. Questo è concreto, ed è il minimo, oltre che un obbligo morale indicato dal magistero, di recente in Amoris Laetitia e nel documento finale del Sinodo dei Giovani (n. 150).
È d’accordo con chi sostiene che questa pastorale dev’essere “in cammino”, non sulla testa delle persone omosessuali, ma insieme a loro, apprendendo con loro, offrendo un dialogo mai scontato, mai concluso, in cui tutti ci si mette radicalmente in gioco?
Sì. Ad oggi non esistono “soluzioni” facili, né pastorali né teologiche. È una situazione inedita, dal punto di vista ecclesiale, scientifico e teologico. Siamo tutti in fase d’apprendimento, e quindi è indispensabile il dialogo. Ma quali sono i confini di quel “radicalmente”? Ci sono alcuni aspetti irrinunciabili della proposta cristiana sulla sessualità? Forse non esiste una risposta definitiva: quando ci s’incontra davvero non si può stabilire a priori la linea di confine.
Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, ci ricorda Francesco (EG, 244). Tuttavia, la verità deve restare come orizzonte del cammino. Si tratta di cercare l’essenziale (ciò che “profuma di Vangelo”: EG, 39). Cristianamente, ciò consiste nell’affidarsi all’azione dello Spirito imprevedibile (EG, 22): è Lui a guidarci nel processo di apprendimento, di creatività teologica e pastorale (EG, 33). Sarà Lui a indicarci i passi da compiere, le certezze da abbandonare o da mantenere (EG, 131).
Noi mettiamoci in gioco, ponendo al servizio dell’incontro la riflessione teologica, esperienziale, affettiva. Superiamo le paure di essere invasi, e riscopriamo la “mistica di vivere insieme” (EG, 87-88). Nella franchezza e libertà chiesta da Francesco. La sintesi arriverà, nei luoghi, modalità e tempi opportuni (“il tempo è superiore allo spazio”: EG, 222-225). Il teologo dev’essere libero nella ricerca, ma umile nell’accettare che il complesso momento decisionale spetta alla Chiesa.
Esiste una specificità della persona omosessuale di cui pastorale e teologia dovrebbero tenere conto? E ritiene che questa unicità possa tradursi in un aspetto da valorizzare anche in ambito ecclesiale?
Vedo con diffidenza gli essenzialismi che rischiano di rinchiudere le persone all’interno di stereotipi. Esistono molti modi (tanti quante sono le persone!) di es- sere uomo, donna, etero, omo, trans. Forse omo e transessuali possono essere segno visibile (tra molti altri), nella comunità, della prodigiosa grazia di Dio nell’ambito del corpo e della sessualità. Dio permette all’ essere umano di amarne un altro in diversi modi (nel celibato, nell’unione etero o omosessuale), di fiorire, a partire dalla condizione esistenziale data (l’ orientamento, l’identità di genere etc.). Come per tutte le diversità – di colore della pelle, di culture, d’abilità motorie o psichiche – le minoranze sessuali rendono presente il mistero della volontà di Dio sulla creazione: sembra che il suo piano generale per l’uni- verso sia quello di educarci continuamente all’incontro fraterno.
Le diversità non sono un inconveniente da “tollerare”, ma disvelano il senso profondo del cosmo. Tutto è volto alla comunione, ed essa è piena nella massima diversità possibile.
Ogni diversità ci ricorda sia il piano di Dio, sia la nostra intima essenza di cristiani (l’ obbligo morale alla comunione con il fratello), la nostra identità teologale, imago Trinitatis. Per questo la diversità va valorizzata all’interno delle comunità come benedizione: è Dio che viene ancora in mezzo a noi per ricordarci chi siamo.
* Damiano Migliorini sta concludendo il dottorato in Scienze Umane (Filosofia) allʼUniversità di Verona. È laureato in Scienze Filosofiche e in Scienze Religiose a Padova, con alcune esperienze di visiting student allʼestero. Si occupa di ontologie relazionali, metafisica trinitaria, open theism, studi di genere. È docente di filosofia al liceo ed è stato Casco Bianco in Bolivia. Ha pubblicato alcuni contributi teologici e filosofici in riviste scientifiche italiane e internazionali. Sulla questione “omosessualità” ha pubblicato una “trilogia”: Gender, Filosofie, Teologie. La complessità contro ogni ideologia (Mimesis, 2017); È possibile una teologia del genere? (in Sguardi sul genere, Mimesis, 2018); Lʼamore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale (con Beatrice Brogliato, Cittadella, 2014). Altre opere: Lineamenti di cristeologia (2017); Relations. Ontology and Philosophy of Religion (ed. con D. Bertini, Mimesis 2018); Il Dio che “rischia” e che “cambia”. Introduzione allʼOpen Theism (2018), Ten Strategies for the Trinity (2019).