La Chiesa e il femminile: indicazioni per una possibile riforma
Articolo di Giuseppina D’Urso pubblicato sulla rivista cattolica Adista Segni Nuovi n°13 del 6 aprile 2019, pagg.10-11
Giovedì 7 marzo a Firenze presso la Casa per la Pace di Pax Christi Italia (movimento cattolico internazionale per la pace impegnato sui temi della risoluzione non violenta dei conflitti, per il disarmo e la convivialità delle differenze) si è svolto un incontro sul tema “La Chiesa e il femminile: indicazioni per una possibile riforma”, basato sul dossier della rivista Mosaico di Pace di febbraio, “Semi, segni, sogni. Per una Chiesa di donne e uomini uguali, differenti, conviviali”. Relatrici Cristina Simonelli, teologa cattolica, presidente del Coordinamento delle Teologhe italiane, e Letizia Tomassone, teologa evangelica appartenente anch’essa al Coordinamento, nonché pastore della Chiesa valdese in Firenze. A mediare il dibattito don Andrea Bigalli, responsabile di Libera Toscana e collaboratore della citata rivista Mosaico di Pace.
Nel presentare il dialogo, don Bigalli ha sottolineato l’attualità e l’urgenza di ridiscutere il ruolo della donna all’interno della Chiesa, struttura dalle fondamenta maschiliste e patriarcali, dove nonostante il gran parlare di genio femminile, non sono stati fatti passi sostanziali verso una maggiore emancipazione della stessa donna. Disattendendo, o regredendo, rispetto a indicazioni del Concilio Vaticano II.
Il tema del ruolo femminile si inserisce entro una più ampia valutazione della permanente sessuofobia interna alla Chiesa, che nemmeno lo scandalo sugli abusi sessuali è riuscita a ridiscutere, creando un “corto circuito” fra le posizioni della Chiesa in materia di sessualità e l’emergere storico, entro la medesima struttura, di pratiche sessuali fortemente deviate. Inoltre la discussione intorno alla donna si riferisce alla costruzione di una mitologia ideologica del gender, che fossilizza i ruoli maschile e femminile entro stereotipi superati.
Cristina Simonelli battezza il suo intervento con l’affermazione, a prima vista provocatoria, di non sentirsi “cattolica cattolica”, non perché non si riconosca appartenente alla Chiesa cattolica, ma perché lo sguardo deve aprirsi per andare oltre tale struttura. Il Vaticano II ha sicuramente offerto più spazi per la presenza di laici e donne, ma il cambiamento è stato solo parziale ed è rimasta famosa una frase della teologa di origine cattolica Mary Daly che così si esprimeva: «Una donna che chiedesse la parità nella Chiesa cattolica sarebbe come un negro che la chiedesse nel Ku-klux-clan».
Ma l’orizzonte deve ampliarsi e attualizzarsi proprio in riferimento allo scandalo degli abusi sessuali, che pone in primo piano uno dei più grandi limiti della Chiesa cattolica, il clericalismo, deviazione di sistema che anche papa Francesco ha condannato come radice di tanti mali nella “Lettera al popolo di Dio” (20 agosto 2018), definendolo «modo anomalo di intendere l’autorità della Chiesa». Un modo che si estende a tutti gli abusi, sia sessuali, che di coscienza e di potere, e che distorce la comprensione di cosa siano autorità o processi comunitari e di inclusività.
In un articolo della rivista Il Regno Hervé Legrand fa un preciso riferimento all’anomalia di struttura di potere del clericalismo, rafforzata dal carattere sacro delle difformità di genere, per risolvere la quale non sono stati compiuti, dopo il Concilio, passi significativi nella formazione dei seminaristi e nella destrutturazione dell’aura di sacralità che avvolge la figura del sacerdote. Problemi che sorgono quando si pone il discorso del diaconato femminile.
Ma sulla questione della riforma verso una maggiore inclusività della donna sono significative altre affermazioni contraddittorie di papa Bergoglio – riportate dal teologo Antonio Autiero – fatte durante il recente convegno tenutosi in Vaticano sugli abusi ai minori. Con preciso riferimento a un’intervento di Linda Ghisoni, il papa da una parte ha detto «questo dovremmo fare, lei non ha parlato della Chiesa, ma la sua è la parola della Chiesa», quindi Magistero.
Ma dall’altra parte ha tenuto a precisare che ciò che lei ha spiegato non è «femminismo ecclesiastico, perché questo non sarebbe altro che un machismo in gonnella». In questa contraddizione è insita il nocciolo del problema del ruolo della donna entro la Chiesa: una porta a molla che appena si apre si richiude automaticamente facendo riemergere tutto un immaginario stereotipato.
L’intervento di Letizia Tomassone parte dal momento in cui, nel 1962, il Sinodo valdese decide di formare come pastori anche le donne. La prima donna nomi nata pastore nella Chiesa valdese è del 1967, la prima nella Chiesa battista del 1977; nel frattempo, nel 1975, viene approvato in Italia il diritto di famiglia. Ciò significa che prima di tale data la moglie doveva seguire il marito nelle sue scelte risultando a lui subordinata, e che quindi il Sinodo valdese del ‘62 precorreva i tempi ridisegnando un nuovo ruolo per la donna fuori da pregiudizi culturali, e offrendo una spinta profetica utile per l’intera società. L’elemento profetico di una donna che sale su un pulpito e amministra l’eucarestia mantiene la sua attualità, ma soprattutto rompe con tutta una tradizione millenaria che vede in quei ministeri solo la figura maschile.
Un segno di rottura ancora attuale non solo nelle Chiese dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia, ma anche in Occidente dove esistono sacche di resistenza al nuovo ruolo ricoperto dalle donne, per nulla ovvio.
Sul piano teologico, delle teologie femministe, lo scandalo degli abusi sessuali, i movimenti MeToo e ChurchToo hanno rafforzato in ambiente riformato un percorso storico di emancipazione partito a metà del ‘900 quando il Consiglio ecumenico delle Chiese ha iniziato a interrogarsi sulla presenza di violenza domestica sulle donne. Un argomento che tuttora vede complici nel silenzio-assenso le stesse donne, come dimostrano norme comportamentali presenti nelle Chiese pentecostali.
Tutta la denuncia degli abusi, del dominio di una parte dell’umanità su un’altra parte porta in primo piano la necessità di una nuova teologia dell’incarnazione, della sessualità. Perché legare la sessualità al peccato, al senso di colpa, alla vergogna, all’onore, quindi a categorie sociali, ha tolto alla stessa sessualità lo scopo di raggiungimento della pienezza di sé.
Andando a colpire le donne e quei soggetti considerati devianti rispetto all’eteronormatività della società, soggetti che cercano forme altre di incontro con l’altro. Inoltre il tema dell’espiazione, del sacrificio della sottomissione della morte in Croce di Gesù fa parte di una catena di significati e di simbologie che vanno ripensati, che si riallacciano all’argomento del sacrificio come salvezza, teso a mantenere nella sottomissione i soggetti ritenuti subordinati, intorno al quale le teologie femministe hanno molto lavorato per una decostruzione.
Altra questione è quella dell’imago Dei che, a partire da sant’Agostino, ha visto elaborare la teoria per cui la donna non sarebbe perfetta immagine di Dio, se non quando si pone in relazione con l’immagine perfetta dell’uomo-maschio. Sempre le teologie femministe hanno sviluppato quella che è stata definita la teologia del sospetto mirante a far riemergere le numerose figure protagoniste femminili presenti nella Bibbia e nella tradizione delle Chiese, figure oscurate dallo sguardo maschile con cui si è letta la Storia. Necessario è quindi rivedere il ruolo della donna non in senso pragmatico, bensì teologico in quanto esso deve essere aderente all’immagine della donna come immagine di Dio al pari dell’uomo.
Infine per Letizia Tomassone va superata quell’ottica femminile di cui parla la Simonelli, che va oltre i confini della Chiesa, proprio perché per questioni di identità di genere la donna non può che tenersi al confine di una struttura che nelle sue norme patriarcali tende a marginalizzarla.
Bisogna ripensare le istituzioni perché non siano più fondate sul concetto di colpa, ma su quello della pienezza dell’essere. In cui non si creino degli uffici appositi che si occupino del ruolo delle donne, degli omosessuali o dei transessuali. Dove non ci siano norme morali basate sull’eteronormatività, ma dove chi sta ai margini possa finalmente essere riconosciuto nella sua pienezza dell’essere e occupare quegli spazi al centro finora preclusi. Creando situazioni di rottura nei ruoli di genere, e non aderendo a una presunta armonia complementare fra uomo e donna.
* Laureata in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze, Giuseppina D’Urso è volontaria dell’Associazione “La Tenda di Gionata”, nonché di Pax Christi Italia.