La chiesa cattolica e la paura di un mondo che cambia
Lettera della Comunità di Bose del 27 maggio 2007
Vi segnaliamo questa bella "lettera agli amici" della comunità di Bose di Enzo Bianchi scritta in occasione della Pentecoste 2007. Crediamo che questo sia lo stile con cui sarebbe bello riuscire tutti a comunicare. Sono stati così bravi da trovare delle parole ufficiali della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) da citare; ma quando non è possibile trovarne per dare forza al nostro cammino di credenti, basta rileggersi le parole di Gesù nel Vangelo.
[…] Non possiamo negare che nei mesi trascorsi dalla nostra ultima lettera si sia accresciuta una sensazione di disagio e di sofferenza all'interno della chiesa di Dio che è in Italia e nei rapporti tra i cristiani e la società civile: la contrapposizione sembra aver preso il sopravvento sul dialogo, lo schierarsi in antagonismi sulla riflessione condivisa, l'affermazione di sé sull'ascolto dell'altro.
Le opzioni di fondo dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in umanità vengono dipinte sempre più spesso a tinte fosche, con accenti cupi, come se non si sapesse scorgere altro che "prevaricazione e rovina" e se "la nostra età, in confronto con quelle passate, fosse andata peggiorando", per riprendere una lettura del mondo stigmatizzata da papa Giovanni all'apertura del Vaticano II.
Gli interrogativi di fondo, le problematiche etiche basilari, le esigenze identitarie dell'altro sono sovente lette con pregiudizi ideologici tali da rendere ardua se non impossibile qualsiasi convergenza di principi e, di conseguenza, rendere impraticabile la convivenza civile: non ci si dà infatti troppa pena di cogliere la sofferenza da cui nascono, ma si cerca di smascherarne pretesi secondi fini, letti come se fossero sempre avversi alla presenza e alla testimonianza della chiesa…
Abbiamo ascoltato, qui a Bose o nelle diverse realtà ecclesiali locali in cui ci siamo recati, preoccupazioni e sofferenze per una sorta di incomunicabilità, di sordità reciproca che sembra essersi creata tra credenti e non credenti: una rottura del dialogo che è fonte di dolore per molti e che, cosa ancor più grave, tradisce le attese degli ultimi, dei più poveri e dei più bisognosi di cura, di comprensione, di compassione, di solidarietà umana e cristiana.
Quante durezze in nome di "valori non negoziabili" che fanno trasparire nello stesso linguaggio usato un approccio "mercantile" ai fondamenti etici del bene comune!
Vi sono prese di posizione che sembrano affrontare problemi complessi negandoli o riducendoli a "capricci" di persone viziate, quando addirittura non si finisce per imporre sugli altri fardelli che noi stessi non tocchiamo nemmeno con un dito.
Perché questa sproporzione nel giudicare l'altro dalle sue cadute e nell'assolvere noi stessi in base agli ideali enunciati e non attuati? Perché ci si accanisce a coltivare l'inimicizia, quando le medesime energie potrebbero essere impiegate a comprendere l'altro e a confrontarsi per una convivenza rappacificata?
Eppure, all'aprirsi del terzo millennio, quando l'episcopato italiano aveva offerto i suoi "Orientamenti pastorali per il primo decennio del Duemila", intitolandoli "Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia", non pochi dentro e fuori la chiesa si erano rallegrati di udire parole di tono sensibilmente diverso.
Si tratta di un documento lungamente preparato, attentamente esaminato e discusso prima di essere approvato dall'intera assemblea della Conferenza episcopale italiana: un testo autorevole quindi, non un'esternazione occasionale soggetta a fraintendimenti e sbrigative sintesi giornalistiche, un testo chiamato a servire da guida e orientamento ai testi e, soprattutto, ai gesti successivi.
Così scrivevano i vescovi italiani: "Raggiunti dall'amore di Dio 'mentre eravamo ancora peccatori' (Rm 5,8), siamo condotti ad aprirci alla solidarietà con tutti gli uomini, al desiderio di condividere con loro l'amore misericordioso di Gesù che ci fa vivere.
La Chiesa è totalmente orientata alla comunione. Essa è e deve essere sempre, come ricorda Giovanni Paolo II, 'casa e scuola di comunione'. La chiesa è casa, edificio, dimora ospitale che va costruita mediante l'educazione a una spiritualità di comunione.
Questo significa far spazio costantemente al fratello, portando 'i pesi gli uni degli altri' (Gal 6,2) … L'altro non sarà più un nemico, né un peccatore da cui separarmi, bensì 'uno che mi appartiene'.
Con lui potrò rallegrarmi della comune misericordia, potrò condividere gioie e dolori, contraddizioni e speranze. Insieme, saremo a poco a poco spinti ad allargare il cerchio di questa condivisione, a farci annunciatori della gioia e della speranza che insieme abbiamo scoperto nelle nostre vite grazie al Verbo della vita.
Soltanto se sarà davvero 'casa di comunione', resa salda dal Signore e dalla Parola della sua grazia che ha il potere di edificare, la Chiesa potrà diventare anche 'scuola di comunione' …
Le differenze saranno accolte e riconciliate, le sofferenze troveranno senso e definitiva consolazione e la morte stessa perderà ogni suo potere di fronte alla comunione nell'amore, alla partecipazione estesa a ogni uomo della vita trinitaria" (CVMC 65).
Francamente fatichiamo a ritrovare questo linguaggio e più ancora questo atteggiamento di fondo in recenti prese di posizione da parte di nostri fratelli nella fede: linguaggio e comportamenti ci paiono andare più nella direzione della contrapposizione che non della comunione riconciliata e riconciliante. E' proprio necessario che noi cristiani per manifestare le nostre ragioni – che vengono dal Vangelo e che sono sempre a servizio dell'umanizzazione – assumiamo stili urlati, gridati, tipici di lotte sindacali o di battaglie politiche? Dobbiamo davvero, in nome del Vangelo, imparare anche noi a contarci, a confidare nel numero?
Nella chiesa ci avevano insegnato la necessità di ben altri stili per la nostra testimonianza nella storia e nella solidarietà con tutti gli uomini.
Sì, nel complesso ci paiono sovente disattese le parole forti dei vescovi italiani: "Nei prossimi anni compiremo un cammino guidato da un costante riferimento al concilio Vaticano II e dal suo messaggio" (CVMC 67).
Ma nonostante questa che è ben più che una sensazione passeggera, vorremmo chiudere la nostra lettera non con un generico augurio ma con un messaggio di speranza, che riprendiamo ancora dalle parole autorevoli della Conferenza episcopale italiana: "Certo, alcuni di noi, osservando alcuni fenomeni negativi, potrebbero lasciarsi andare a un certo pessimismo.
Ma la Chiesa conosce un solo criterio per rinnovare ogni giorno la speranza: essa sa che 'fedele è Dio', dal quale siamo stati 'chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!' (1Cor 1,9)" (CVMC 66).
Coraggio, nella luce della Pentecoste vi diciamo: non temete! Cristo ha vinto la mondanità!
Bose, 27 maggio 2007