Tacque in atto di chi aspetta. Il cardinal Federigo o don Abbondio?
Riflessioni di Antonio De Caro di Parma
Alcuni anni fa, a Palermo, occorreva organizzare la Veglia di preghiera per le vittime dell’omo-transfobia. Una parrocchia cattolica, celebre per il suo impegno sociale in un quartiere malfamato, aveva offerto la sua disponibilità ad ospitare l’evento, grazie soprattutto al parroco, un padre comboniano. I vertici della (arci-)diocesi, avendo appreso dell’iniziativa, hanno allora pensato bene di proibire che la Veglia si svolgesse in una chiesa cattolica.
Mi fermo un attimo per ripetere lentamente e consentirvi di riflettere: la- (arci)diocesi- cattolica- proibisce- l’uso- di-una-chiesa- cattolica- per- pregare.
Ebbene, la Veglia era ormai organizzata: canti, interventi, riflessioni bibliche, preghiere, testi erano pronti. Quindi ci siamo riuniti comunque: non potendo entrare in chiesa, abbiamo pregato e vegliato in mezzo alla strada, davanti al cancello chiuso della chiesa, e in gran numero, provvedendo noi stessi persino all’amplificazione e ai microfoni.
Il parroco, che non poteva fare a meno di obbedire alla (arci-) diocesi, aveva tenuto chiuso il cancello esterno, ma aveva lasciato bene aperte le porte della chiesa, con tutte le luci accese, come per dire: anche se gli uomini (gli uomini che pretendono di esercitare un potere a nome di Dio!) chiudono i loro cancelli, Dio non chiude le sue braccia e vi dona ugualmente luce del suo amore. Inutile dire che -proprio grazie alla presenza della stampa- quella Veglia fu un grande successo, che si ritorse contro l’assurda decisione della (arci-)diocesi dimostrandola contraddittoria, ipocrita e vacua.
Naturalmente, quel parroco venne rimosso e allontanato: ma il suo sacrificio, e la nostra determinazione, ebbe come effetto che l’anno successivo la diocesi, per evitare proprio il “tritacarne mediatico” in cui da sé aveva cacciato se stessa (e non le persone LGBT), ha concesso senza tergiversare che la Veglia si svolgesse in una parrocchia cattolica e ha designato un sacerdote come responsabile diocesano per la pastorale LGBT.
Non è questo che deve fare la Chiesa? Non deve difendere con coraggio proprio i deboli, gli emarginati, gli esclusi? Non deve mettersi dalla parte di chi non ha altra protezione? Non posso fare a meno di pensare alle parole con cui, nei Promessi sposi, il cardinale Federigo Borromeo ammonisce don Abbondio, che per paura era diventato complice dei prepotenti. Siamo alla fine del cap. 25:
E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo…E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? … Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido…Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
Le esperienze e le proposte che arrivano dalla Conferenza Episcopale Tedesca rivelano che, sul tema dell’amore e delle relazioni fra persone LGBT, sono possibili approcci diversi; che la Chiesa è o dovrebbe essere in ricerca; e che la sua dottrina non è infallibile, come attestano anche diversi studi teologici cattolici.1 Pertanto, affermare il primato della coscienza e prendersi cura delle persone dovrebbero essere le caratteristiche di un nuovo stile ecclesiale, indicato da Francesco
Ma, a mio avviso, occorre puntare al vero cuore del problema. Che non è più solo la pastorale, cioè “se e come accogliere”. Ma la dottrina, cioè “che cosa offrire alle persone LGBT dopo che le abbiamo accolte”. È la dottrina che va cambiata. Finché la dottrina non verrà riformata, alla luce di una più autentica adesione alla logica profonda del Vangelo ed attraverso un ascolto delle persone e della loro vita, ci sarà sempre qualcuno che si sentirà pienamente autorizzato a ribadire con ossessivo livore che “sta scritto così”. I cattolici estremisti si appellano con crudele costanza al Magistero, come i farisei facevano con la legge dell’Antico Testamento e le tradizioni rabbiniche. Il Catechismo, in quanto espressione del magistero ordinario della Chiesa, non è infallibile: pertanto non dovrebbe essere impugnato da nessuno come arma per escludere le persone dalla vita della Chiesa.
Io non so come si cambia la dottrina (Gesù lo sapeva), ma posso almeno parlarne e chiedere se altri come me sentono l’urgenza di una riflessione diretta e seria non solo sulle forme ma anche sui contenuti.
La questione LGBT, da un punto di vista biblico, è soggetta ad una enorme, complessa e dolorosa contraddizione: da una parte, i passi della Scrittura che sembrano escludere dalla salvezza -in modo intransigente- le relazioni omosessuali; dall’altra la logica dell’amore di Dio, rivelata in Gesù Cristo, che intende abbattere i condizionamenti della legge e aprire la salvezza a chi si pone in sintonia con il comandamento dell’amore. Come si fa ad approvare moralmente l’omosessualità, di fronte a tanti espliciti pronunciamenti della Scrittura? È questo l’ostacolo apparentemente invalicabile, su cui si basa la spietata cecità del Magistero. Certo, quanto la Scrittura conosceva e denigrava come omosessualità non coincide assolutamente con le identità e le relazioni omosessuali come le conosciamo oggi: ma la contraddizione -almeno sul piano formale- rimane.
Vorrei quindi attirare l’attenzione su un’altra contraddizione, che ha invece ricevuto, nell’indifferenza generale, ben altra soluzione teologica, per quanto provvisoria. Gesù Cristo (non Paolo: Gesù Cristo stesso!) ha ordinato ai suoi discepoli di predicare il Vangelo e di battezzare, poiché solo chi crederà e sarà battezzato sarà salvo (Mt 16,16). E i non battezzati? La teologia medievale li relegava nel Limbo, una condizione di eterna tristezza e privazione della presenza beatifica di Dio, anche se nessun passo della Scrittura può suffragare tale dogma. Ma non è solo questo silenzio della Scrittura il problema: il problema è che il cuore di Dio come rivelato da suo Figlio è inconciliabile con questa idea di abbandonare per l’eternità anime, magari anche buone e degne, solo perché prive (oggettivamente prive, senza loro colpa) del battesimo. Come se l’amore infinito di Dio avesse bisogno di una nuova forma di circoncisione, della “tessera di partito”.
Di fronte a questa contraddizione, i teologi cattolici hanno preferito lasciar prevalere le ragioni dell’amore su quelle della legge, affermando che l’intenzione salvifica di Dio può giungere anche là dove gli uomini non se lo aspettano; ed aggiungono inoltre, come principio metodologico (cioè estensibile anche ad altre questioni) che, quando la Chiesa del passato ha ritenuto opportuno credere ed insegnare che i non battezzati non possono essere salvati, “forse non si conosceva esattamente la natura e tutta la portata dottrinale implicita in questa domanda. Soltanto nello sviluppo storico e teologico avvenuto nel corso dei secoli e fino al Concilio Vaticano II, ci si è resi conto che tale specifica domanda meritava di essere considerata in un orizzonte sempre più ampio delle dottrine di fede, e che il problema può essere ripensato” (cfr. http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_con_cfaith_doc_20070419_un-baptised-infants_it.html).
Quindi il problema può essere ripensato. E, nelle more di questo ripensamento, cioè nei tempi lunghi della ri-elaborazione dottrinale, come nel caso dei non battezzati, la scelta più saggia della Chiesa, obbediente a Chi ha creato il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato, dovrebbe essere quella di affidare le persone alla misericordia di Dio, di avvicinarle a lui, non di rimandarle a casa per paura di chi latra anatemi ed insulti farisaici. Sospendere il giudizio significherebbe evitare che chiunque, all’interno della Chiesa, possa ancora insultare e discriminare le persone LGBT come oggettivamente disordinate e le loro relazioni come intrinsecamente cattive. Sospendere il giudizio permetterebbe a tutti di crescere nell’amore, cercando di conoscere ed apprezzare meglio le potenzialità etiche e spirituali, quindi i germi di Grazia e salvezza, insiti anche nelle relazioni omosessuali e nelle persone LGBT.
Anche l’amore fra persone dello stesso sesso può essere chiamato ad essere agapico, generoso, oblativo e stabile; può tendere al dono e al perdono, e quindi può rispecchiare l’amore di Dio in modo non dissimile dall’amore eterosessuale. Credo da sempre che amare un altro uomo comporti per me responsabilità morali non minori che per ogni altro cristiano; e sono arrivato all’Unione Civile con il mio compagno dopo un percorso di preparazione per coppie gay credenti, che quindi ci ha richiamati alla natura vocazionale del nostro amore. E ci ha ricordato che siamo chiamati a fondare e costruire, giorno per giorno, una famiglia ispirata ai valori del Vangelo, cioè a vivere in modo onesto, gentile, utile agli altri, proprio perché capace di ospitare Dio nei modi misteriosi e misericordiosi con cui Egli ci visita.
Quando i cattolici integralisti si stracciano le vesti e gridano che in tal modo verrebbero legittimati l’amore gay, le unioni civili e la famiglia omosessuale, non si sbagliano di molto. A parte il fatto che l’amore non ha mai bisogno di essere legittimato, e che le unioni civili sono già legittime per la Repubblica Italiana, occorre finalmente comprendere ed affermare che anche nelle relazioni omosessuali, presenti o future, possono esserci i segni della Grazia di Dio: essa può portare ordine nelle nostre vite, strapparci dal caos anonimo dei rapporti effimeri (Kierkegaard li avrebbe definiti “estetici”, cioè orientati solo all’esperienza superficiale dei sensi) e rafforzare la scelta di relazioni stabili, che possono dare senso alle energie etiche delle persone, operare il miracolo dell’amore che ci stana dal nostro egoismo per renderci, in due, più umani e anche più simili all’intima, dinamica natura relazionale dell’essenza divina. Simili, poiché creati, anche i gay, ad immagine di Dio, e quindi chiamati alla santità. Anche le nostre relazioni hanno bisogno di essere redente, e questo è possibile solo incontrando il Redentore, nella preghiera e nei sacramenti.
In che modo può essere sbagliato, spregevole o vergognoso proporre questo valore alto anche all’amore omosessuale? Come possiamo noi impedire che siano battezzati con acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi? (At 10.47). Sì, perché anche nelle famiglie omosessuali possono comparire i frutti dello Spirito: se l’unione fra due persone, anche dello stesso sesso, produce “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, ciò non può che derivare dall’azione dello Spirito Santo, per cui, conclude Paolo, “contro queste cose non c’è legge” (Gal 5.22-23).
Una delle creature più splendide del teatro italiano afferma: rinata fui quando l’amore nacque: e se due persone LGBT si amano, e amandosi vengono liberate dall’egoismo e diventano persone gioiose, serene, capaci di dono e di perdono, non è questo forse uno dei segni messianici? Gesù stesso (Mt 11.4-5) non aveva altro modo per dimostrare a Giovanni che la propria azione era davvero l’azione di chi risana e libera l’uomo in nome di Dio e per il suo regno.
Le persone LGBT conoscono bene, purtroppo, la delusione che nasce dal sentirsi feriti, umiliati ed emarginati, quando la Chiesa dice che queste preziose risorse spirituali non sono disponibili per loro, a mano che non rinneghino il loro essere più profondo. Ecco perché mi aspetto che la Chiesa, a cominciare dalle diocesi e dai Vescovi, proclami con franchezza autentica: o voi tutti, assetati, venite all’acqua (Is 55.1); e che sappia offrire alle persone LGBT momenti di vera catechesi -il che implica l’incontro, la riflessione, la formazione e la preghiera. La fedeltà di Dio è una garanzia evolutiva che può accrescere la qualità delle relazioni fra le persone, e questo vale sempre e comunque: e in ciò consiste il valore aggiunto che una riflessione cristiana potrebbe apportare alla legge sulle unioni civili, che purtroppo ha negato (in modo arbitrario e dall’esterno) che la fedeltà potesse fare parte della promessa di due persone che si amano e scelgono di unirsi. I cristiani, proprio perché formati al modo con cui Gesù Cristo ha riletto e re-interpretato i comandamenti, dovrebbero sapere che “non commettere adulterio” significa trasferire all’interno delle relazioni d’amore umano il dono di sé che Dio fa agli uomini.
Alcuni pastori affermano che i gruppi di omosessuali credenti possono, sì, riunirsi, ma in modo nascosto e silenzioso, poiché le persone LGBT, considerate “fragili“, andrebbero protette da un’eccessiva esposizione. Bene, come uomo gay e a nome di molti altri amici, posso affermare che non mi sento affatto fragile, né bisognoso di protezione. Non trovo accettabile che i pastori invochino la difesa, NON RICHIESTA, della nostra privacy quando in realtà lo scopo è un altro, cioè quello di sfuggire alle loro responsabilità, proteggendo se stessi da un’eccessiva esposizione, a costo di mantenerci nascosti e silenziosi. Il tempo della paura, del nascondimento e del silenzio è finito. La fragilità non dipende dal fatto di essere omosessuali, ma dalla censura e dal rifiuto da parte della società e spesso anche della Chiesa. Metterci alla porta o relegarci in un sottoscala non fa che alimentare ancora di più la “fragilità” dalla quale si è ritenuto opportuno proteggerci evitando di accoglierci. Il gesto più forte per distruggere in noi la fragilità (e penso ai più giovani e ai più feriti) è esattamente quello di aprire le porte, abbracciarci, mettersi al nostro fianco a viso aperto, e fare in modo che i più spaventati incontrino altri gay, sereni e risolti, e capiscano che non c’è motivo di avere paura, e che un’esistenza dignitosa e feconda è possibile, senza flagellarsi e senza vergognarsi.
Per questo, però, abbiamo bisogno di laici, sacerdoti e vescovi che sappiano tenere la testa alta di fronte agli integralisti e di avviare una seria e coraggiosa revisione della dottrina. E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? chiedeva il cardinal Federigo a don Abbondio; e concludeva il suo discorso, alla fine del cap. 25, con una frase splendida, dalla musicalità mite e severa, con cui vorrei terminare queste riflessioni e lanciare un appello: E tacque in atto di chi aspetta. Aspettiamo. Sappiate che anche il vostro silenzio sarà una risposta. E speriamo che non sia quella di don Abbondio.
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1 Per esempio, T. A. Salzman – M- G. Lawler, The sexual person. Toward a renewed catholic anthropology, Washington 2008; B. Brogliato – D. Migliorini, L’amore omosessuale, Assisi 2014.