La chiesa e la contaminazione omosessuale
Riflessioni di don Paolo Cugini* pubblicate su Adista Documenti n° 3 del 27 gennaio 2018, pp.8-13
Le persone cristiane omosessuali stanno divenendo sempre di più, giorno dopo giorno, motivo di riflessione della Chiesa. Non si tratta, infatti, semplicemente di pressioni esterne – come sosteneva il documento del 1986 sulla cura pastorale delle persone omosessuali –, ma di una vera e propria koinonia, una comunità che accoglie le persone omosessuali e non considera la loro inclinazione oggettivamente disordinata. La presenza di cristiani omosessuali sta contaminando la Chiesa al suo interno, perché la obbliga a ripensare la propria posizione sia sull’inclinazione omosessuale considerata oggettivamente disordinata sia sugli atti omosessuali considerati contrari alla legge naturale. Osservando con attenzione il dibattito che oggi avviene sul tema dell’omosessualità, si può affermare che è su questo tema che avviene la riflessione più profonda sul tema della differenza e del dialogo-scontro con l’altro, il diverso.
L’omosessuale è in un certo senso il diverso per antonomasia, e l’omosessualità l’alterità incarnata, quel tipo di alterità che la cultura fa fatica ad assimilare. Paradossalmente la diversità omosessuale è oggi maggiormente riconosciuta dalla società civile, che spesso e volentieri si fa paladina per difenderne i diritti, che dalla Chiesa, che dovrebbe essere la casa sempre aperta e accogliente, in modo particolare per i suoi figli e figlie più deboli e marginalizzati. La difficoltà che ancora oggi ampi settori della Chiesa manifestano nel parlare serenamente di persone omosessuali e di omosessualità, dice di una resistenza, di quella chiusura culturale che si arrocca e si nasconde dietro a preconcetti, che non permettono al pensiero teologico di aprire nuove strade.
Il teologo Carmelo Dotolo ha ricordato, in un suo recente saggio (Carmelo Dotolo, Teologia e postcristianesimo. Un percorso interdisciplinare, Editore: Queriniana, 2017), che la teologia non può che determinarsi in dialogo con la situazione storica e culturale. Per fare questo, la teologia si deve aprire alla molteplicità dei saperi per non correre il rischio di una lettura unidirezionale e, quindi, parziale della realtà. È forse questo l’errore cronico dell’approccio alla realtà che ha accompagnato la riflessione teologica per molto tempo. Per uscire dal pericolo di un isolamento razionalistico, incapace di cogliere la molteplicità della realtà e dell’esistenza, la teologia non può che aprirsi al contributo delle scienze naturali e di quelle storico-critiche. Si percepisce la difficoltà che essa incontra tutte le volte che, nel dibattito culturale odierno, fa emergere un’autoreferenzialità legata più al legame ad uno schema di riferimento concettuale ereditato e non rinnovato, che ad un vero e proprio desiderio di conoscere il reale per come si manifesta.
Come nel passato «emergeva sempre di più l’insostenibilità di un impianto teologico idealistico, mutuato dal paradigma neoscolastico, la cui fragilità stava nell’idea di produrre una teoria che descrivesse la struttura stabile del mondo reale», così nell’attuale panorama culturale c’è poco spazio per un sapere che non si mette in relazione con la molteplicità dei saperi.
Del resto, lo stesso Lonergan, alcuni decenni orsono, nel suo famoso saggio sul metodo in teologia, percepiva la necessità di una teologia in ascolto autentico delle culture e della diversità di approcci epistemologici. Se il problema è lo sviluppo di una conoscenza più adeguata e più attenta al reale della condizione umana, allora non resta che prendere sul serio le indicazioni metodologiche del pensatore canadese. «La comprensione teologica della dottrina è storica e dialettica. È storica in quanto coglie i molti contesti differenti nei quali la medesima dottrina è stata espressa in maniera diversa. È dialettica in quanto avverte la differenza tra posizioni e contrapposizioni, e cerca di sviluppare le posizioni e di rovesciare le contrapposizioni».
L’attenzione alla dimensione storica della riflessione teologica provoca la necessità di abbandonare quella desueta impostazione epistemologica che fa precedere l’idea alla realtà, rischiando di leggerla costantemente in modo distorto. Solo in questo modo la teologia può abbandonare il rischio di una razionalizzazione unidimensionale e astratta che, oltre ad essere incapace di dialogare con la molteplicità dei saperi, non riesce poi a consegnare
È in questo contesto di rinnovamento metodologico che la stessa teologia ha percepito negli ultimi decenni, che occorre approcciare in modo nuovo il tema delle persone omosessuali, abbandonando schemi di riferimento preconcettuosi, per porre attenzione alla realtà della situazione concreta, così come si manifesta nella storia. Prendo, allora, in esame alcuni recenti contributi in questa direzione, che ci possono aiutare ad affrontare le problematiche legate alle persone omosessuali, tentando percorsi nuovi, in dialogo con le molteplicità dei saperi.
Damiano Migliorini e il dialogo per una nuova sintesi
In un recente e corposo saggio interdisciplinare, la psicologa e psicoterapeuta Beatrice Brogliato e il giovane studioso e ricercatore Damiano Migliorini hanno provato ad indicare cammini nuovi nella riflessione teologica sull’omosessualità. Prenderò come riferimento la seconda parte del saggio, quella teologica, più consona alla ricerca del seguente lavoro. Il tema della legge naturale è il punto cruciale o perlomeno uno degli snodi teorici del dibattito teologico sull’omosessualità. Capire che cosa s’intende quando si parla di natura significa aprire o chiudere dei varchi nell’argomentazione.
Se il bene supremo è la persona umana allora occorre stare attenti a non assolutizzare la natura. Come ricorda il documento della Commissione Teologia Internazionale sul tema in questione: «La scienza morale e la Legge morale naturale non possono fornire al soggetto agente una norma che si applichi adeguatamente e autonomamente alla realtà concreta, eppure, essa non abbandona mai del tutto la coscienza alla sola soggettività ».
Occorre allora, vedere la Legge morale naturale come fonte d’ispirazione, mentre, per quanto riguarda i mezzi per raggiungere i fini, tocca allo sforzo di ogni singola persona. Le regole particolari per raggiungere i fini sono sempre ad appannaggio delle persone che vivono nella concretezza del reale. Occorre, dunque, stare attenti a non assolutizzare la natura, a non correre il rischio di farne un idolo e di tirarla nel dibattito dove essa stessa non può andare. La legge naturale non è un corpo statico né una lista di precetti definiti e immutabili, ma una fonte d’ispirazione. Ciò significa che questa legge, come ricorda Migliorini, «nel passaggio dal generale al particolare, richiede l’esercizio di un’ermeneutica infinita» .
Siccome l’omoerotismo si riscontra in tutte le epoche storiche, in tutte le culture ed è un orientamento che rientra nella media di un funzionamento psicologico sano, può entrare a pieno titolo tra ciò che è definito naturale. Per giustificare una simile affermazione Migliorini fa riferimento ad una serie di studi scientifici di recente pubblicazione. Non si tratta, dunque, di una perversione, perché il comportamento omosessuale produce un desiderio e un amore che riguarda l’intera personalità dell’altro. Dopo aver analizzato alcuni studi nell’ambito dell’etologia e della genetica, il nostro autore conclude che l’omoerotismo è un fenomeno culturale permanente e universale, sebbene si presenti in forme diverse lungo la storia. Verificata la naturalità dell’omosessualità, occorre appurare la liceità dei comportamenti omogenitali. Come per ogni organo del corpo umano, anche per i genitali non è possibile stabilire una sola funzione.
Per questo Migliorini ne individua almeno tre: una fisiologica, una erotica e una riproduttiva. Finalizzare la sessualità esclusivamente al fine procreativo significa cadere nel biologismo. Seguendo gli studi di Peinado, Migliorini afferma che: «La sessualità umana può prestarsi alla possibilità di essere procreativa, in determinati momenti. La procreazione non rappresenta certo il destino della sessualità umana. Si tratta unicamente di una possibilità offerta in determinati momenti alla maggior parte delle persone».
Il problema etico si pone, dunque, dove manca il significato unitivo, dove l’atto sessuale è avvolto da un clima di violenza, svuotato da un cammino relazionale. La teologia di San Tommaso, che ha esteso il fine procreativo a tutti gli atti sessuali genitali, ha posto in campo un finalismo di tipo organico, identificando natura e biologia. Certamente, la posizione di san Tommaso è frutto del suo tempo, vale a dire l’Alto Medio evo, epoca in cui il disprezzo per il piacere era sinonimo di virtù. Tutto ciò va visto nel quadro della prospettiva ecclesiologica del tempo di San Tommaso, periodo in cui il papato prende sempre più il sopravvento e la dicotomia tra laici e chierici si radicalizza. L’ideale ascetico proposto come modello unico di santità e il celibato come esigenza evangelica più alta che definisce il vero cristiano hanno gettato un’ombra profonda sul significato del piacere sessuale, considerato come una devianza dal fine naturale.
In questa prospettiva, il fine unitivo e relazionale ha sempre faticato ad essere compreso nella sua valenza etica e valoriale, perché contraddiceva ciò che era considerato in modo assoluto come il vero valore della sessualità, vale a dire quello procreativo. Recuperare la positività del piacere sessuale come elemento significativo della valenza relazionale dell’amore è, senza dubbio, uno dei grandi compiti del cammino attuale della Chiesa. Come sostiene Erik Borgman, solamente ricollocando al centro del dibattito etico il senso autentico della felicità, considerandolo come fine generale dell’uomo, sarà possibile distanziarsi da ogni tentazione di fissare e irrigidire la natura, per mantenerla aperta al sentire concreto dell’uomo e della donna, per evitare di farsi troppo male.
Per Migliorini, sia rimanendo nell’orizzonte delle categorie proposte dalla Chiesa sulla sessualità, sia all’interno del paradigma della Legge morale naturale, non è possibile escludere l’omosessualità dalle espressioni moralmente valide della sessualità. Per dare pieno valore a questa affermazione è necessario definire meglio il carattere oggettivo della sessualità e comprendere meglio il concetto di normalità sessuale. Alcuni casi tragici della storia, come ad esempio l’antisemitismo, c’insegnano che spesso i giudizi di normalità dipendono dai modelli sociali predominanti e anche il senso comune di tutto un popolo può, in alcune circostanze, sbagliare. Non solo il termine “normale” è soggetto ai condizionamenti culturali, ma assume anche significati diversi nelle diverse discipline. Da un punto di vista generale, si può ritenere normale ciò che rispetta il bene della persona umana. C’è allora, un’idea di normalità che è complessa, come d’altronde è complessa la persona umana.
Secondo Thévenot l’idea di normatività sessuale «si sposta un po’ alla volta verso un’idea di normatività relazionale». In questa prospettiva, occorre integrare il discorso della sessualità all’interno della complessità della personalità. La normalità considerata dal punto di vista personalista, più che essere una definizione astratta, è un compito da realizzare.
Il problema dell’identità delle persone omosessuali, evidenziato dal tema della natura degli atti omosessuali, va di pari passo con l’altro importante problema del riconoscimento. Misconoscere la persona omosessuale, parlando di devianza o di atti intrinsecamente cattivi, significa negarla sia sul piano dell’identità personale, che su quello di un riconoscimento sociale. Il cammino del riconoscimento delle differenze è sullo stesso sentiero del principio dell’uguaglianza. Riconoscere il valore dell’unione di persone omosessuali significa prendere sul serio il valore unitivo del matrimonio, il valore della responsabilità di prendersi cura dell’altro, in una relazione di fedeltà.
Secondo Migliorini, riconoscere le unioni di persone omosessuali sarebbe anche un segnale positivo per i giovani adolescenti omosessuali, che percepirebbero la possibilità di vivere seriamente una futura relazione con un partner, uscendo dai torbidi e negativi cammini delle forme discriminatorie. L’autore si chiede se sarebbe possibile arrivare non solo a celebrazioni civili di persone omosessuali, ma anche a matrimoni religiosi, benedicendo davanti a Dio questo tipo di relazioni. «Riconoscere alcuni diritti civili alla coppia omosessuale (assistenza reciproca, assegnazione di case, reversibilità della pensione, eredità, ecc.) negando il vero e proprio matrimonio, dove condurrebbe?». Le coppie omosessuali chiedono di potersi prendere pubblicamente e reciprocamente un impegno consensuale. In questo modo, viene espresso il significato unitivo del matrimonio cristiano, poiché dice dell’impegno reciproco tra due persone legate da un sentimento d’amore, impegno dunque di fedeltà. L’unione omosessuale, che riconosce il valore del fine unitivo e della responsabilità nella fedeltà del partner, la rendono testimonianza dell’amore cristiano. Un suo riconoscimento, sostiene Migliorini, conferma e rafforza l’antropologia cattolica, la quale non può essere ridotta a un’antropologia fondata sulla perpetuazione della specie. La coniugalità nei suoi aspetti di fedeltà e indissolubilità può essere attribuita alla coppia omosessuale che sceglie d’impegnarsi in un progetto di fedeltà.
Migliorini, nella sua argomentazione, insiste nell’evidenziare la positività dell’aspetto relazionale dell’amore omosessuale che, per certi aspetti, diventa feconda, perché arricchisce i soggetti coinvolti, dando loro nuova vita, una prospettiva futura, in altre parole una progettualità. In questa prospettiva, le persone omosessuali escono dall’ambito in cui la società le ha collocate, vale a dire nella sfera dei richiedenti diritti, ma potranno esercitare i loro carismi, esprimendo la loro possibilità di amare con responsabilità e in piena libertà. Anche se non verrà usato il termine matrimonio a livello sacramentale, ma benedizione di due persone omosessuali che si promettono amore fedele reciproco, avrà il valore di riconoscimento del significato umanizzante di una relazione omosessuale stabile.
Persone omosessuali e amore trinitario nella riflessione di Teresa Forcades
L’opera della teologa catalana Teresa Forcades, che insegna teologia queer a Berlino, fornisce diversi spunti significativi nel cammino della ricerca sul rapporto tra omosessualità e Chiesa. In primo luogo, Forcades inserisce il discorso sull’omosessualità all’interno della teologia queer, della quale è una delle più importanti promotrici. Queer è un concetto antropologico utilizzato dalla Forcades per affermare il carattere unico e originale di ogni individuo e «l’affermazione dell’impossibilità di utilizzare, nell’ambito della persona, qualsivoglia categoria, che sia di genere, di classe o di razza. Le categorie che classificano l’essere umano sono, per così dire, opacità, che non consentono di vederlo nel suo tratto di originalità».
Questo cammino teologico intende fare i conti con la diversità sessuale senza esprimere nessuna condanna a priori, per aprirsi ad ogni possibile comprensione. Punto di partenza di questa riflessione teologica è la percezione dell’identità della persona intesa non in modo statico, ma dinamico. Il riferimento di questa intuizione è l’idea di creazione continua. Essere creati ad immagine e somiglianza di Dio significa assumere la responsabilità di collaborare all’opera della creazione, che è in continuo divenire. In questa prospettiva, l’identità personale non è un dato acquisito una volta per tutte, ma una possibilità che ci viene offerta. Adulti si diventa grazie ad una costante assunzione delle proprie responsabilità e alla capacità di porsi in modo libero e creativo dinanzi alle strutture culturali, che assimiliamo e che ci fanno credere di essere in un modo invece che in un altro.
«Uomini e donne – sostiene Forcades – sono chiamati ad avventurarsi in un processo personale che li porta in uno spazio che io chiamo queer, uno spazio aperto in cui l’identità è da cercare, non è qualcosa di già dato». Il fatto che la differenza sessuale sia un dato transculturale non significa che una persona deve rimanere all’interno di questa identificazione iniziale. Secondo Forcades, l’errore della società patriarcale e di un certo tipo di femminismo è pensare che quell’origine debba rimanere costante nel corso della vita. Ciò significa che il punto di partenza ha un genere, mentre il punto di arrivo no. «La mia identità infantile ha un genere (femminismo della differenza); la mia identità matura (o cristica) è transgender o queer» . C’è quindi un cammino, un esodo, che ogni persona è chiamata a compiere se vuole divenire pienamente umana, un cammino che si compie durante tutta la vita. Essere adulto significa cammino in divenire vincendo la tentazione di fissarsi su un modello culturale identitario, per mantenersi aperti alla novità possibile. In questa prospettiva la diversità, lungi dall’essere un problema o una difficoltà, diviene una possibilità. Dobbiamo conquistare la nostra identità tutti i giorni.
Nel capitolo dedicato al tema del rapporto tra fede e gender, Forcades fa appello al senso della realtà nella linea indicata da papa Francesco nell’Evangelii gaudium. Se parlare di gender significa prendere in considerazione la comprensione culturale e soggettiva della sessualità, allora, quando sul piano della realtà s’incontrano delle differenze, sono proprio queste che vanno ascoltate. Non può più accadere, come in vece purtroppo accade soprattutto in questo ambito così delicato, che sia la teoria a interpretare e a leggere la realtà. Quando in gioco ci sono le persone, il primato dev’essere sulla realtà e non il contrario.
La teoria dev’essere il momento successivo all’ascolto della realtà. Se, allora, è vero che esistono tre dimensioni del sesso biologico, vale a dire il sesso cromosomico, il sesso gonadico e quello genitale, già al primo livello la realtà manifesta che non vi sono solo due possibilità xx (femmina) e xy (maschio), ma diverse opzioni. Secondo Forcades anche se esistesse una sola persona al mondo dotata di una differenza cromosomica, sarebbe sufficiente per mettere in discussione la teoria. Dinanzi all’unicità della persona umana non c’è teoria che tenga, ma è questa che provoca le domande di senso. Non è, infatti, la persona per così dire diversa che deve adattarsi alla teoria, ma è la teoria che dev’essere modificata a partire della diversità osservata. Le sindromi di Klinefelter (xxy) e di Turner (x0) dimostrano che in natura non tutto rimane collocato nella dicotomia maschile e femminile, provocando la domanda: sono femmine o maschi? Questa diversità, che va al di là della dualità, non esiste solamente a livello cromosomico, ma anche a livello gonadico. Succede, infatti, che a volte uno abbia, senza saperlo, una gonade che al tempo stesso è tessuto ovarico e tessuto testicolare. «Non vogliamo vedere la complessità della realtà che ci circonda, ma è importante prenderne visione affinché la nostra teoria ne tenga conto». Anche a livello genitale esiste la diversità che non è possibile catalogare entro la dualità maschio e femmina. Forse, comunque, il livello più complesso è quello psicologico. Ci sono persone che, pur avendo un sesso biologico maschile a livello cromosomico, gonadico e genitale ed essendo considerati quindi dalla società maschi, hanno una coscienza femminile e viceversa: questo è il transessualismo.
Spesso questa realtà, sostiene Forcades, la si ignora perché è difficile affrontarla. I cristiani, però, non possono chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e non possono fasciarsi la testa dalle teorie culturali della società in cui vivono, perché sono ristrette e non tengono conto dell’interesse del singolo individuo. Sempre a livello psicologico, è importante tener conto di quello che avviene a livello del desiderio. Può succedere che emerga un desiderio verso una persona dello stesso sesso. Una teologia che si mantenga aperta alla realtà come manifestazione del divino, non può immediatamente ricorrere alla teoria del peccato quando appare una differenza, ma deve porsi in ascolto della complessità e non chiudersi nelle facili semplificazioni teoriche. Troppe volte il desiderio verso una persona dello stesso sesso è stata considerata come patologia. «Certo sono diverse dalla maggior parte delle persone – nel modo in cui le intendiamo normalmente – ma questo non significa che dobbiamo leggere questa differenza in modo negativo […] Alcune di queste persone non hanno complicazioni mediche e conducono una vita pienamente compiuta, stanno bene e non presentano problemi se non quelli di carattere sociale, dal momento che spesso non vengono accettate» .
La grande sofferenza delle persone omosessuali non è dunque causata da problemi di tipo medico o psichiatrico, ma sociale, vale a dire dal fatto che la struttura patriarcale e maschilista della nostra società non accetta la differenza sessuale, la complessità della realtà, rifiutandosi così di ascoltarla, accompagnarla, integrarla. A detta della Forcades, il cui impegno in campo politico si è profuso su diversi temi, la comprensione della complessità della realtà dovrebbe allo stesso tempo condurre ad un cambiamento non delle persone cosìddette diverse, ma della società nel suo insieme, per fare in modo che nessuno si senta escluso.
Prendere sul serio la problematica delle persone omossessuali in un contesto sociale com’è quello occidentale, fortemente omofobo, comporta di non rimanere solamente sul piano della tolleranza, o dell’accoglienza, ma esige passi sempre più chiari verso l’integrazione delle persone omosessuali sia sul piano giuridico che religioso. Interessanti sono, a questo proposito, le riflessioni che la Forcades propone per motivare il suo essere a favore del matrimonio omosessuale. L’idea di complementarietà, che solitamente viene utilizzata per spiegare il senso del matrimonio non solo cristiano, secondo la nostra autrice non funziona, perché esprime in malo modo il senso autentico dell’amore. Il concetto di complementarietà è infatti, secondo Forcades, la riduzione del concetto di amore che deriva dalla prospettiva binaria. Amare una persona non può voler dire cercare una persona che ci completi. Per cogliere in profondità il significato autentico dell’amore, occorre uscire dagli stereotipi che provengono dalle semplificazioni della visione binaria della sessualità e, in un certo senso, abitare la complessità. Teresa Forcades, a questo proposito, utilizza la riflessione elaborata durante il lavoro di dottorato svolto sul tema della Trinità. Dove possiamo trovare il significato autentico dell’amore di Dio se non osservando da vicino il mistero della Trinità? È allora a questo mistero che dobbiamo rivolgere la domanda sul significato dell’amore umano e non alla dottrina della Chiesa. L’amore trinitario non ha nulla a che vedere con la complementarietà. «Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono tre persone distinte: questo è il centro del pensiero trinitario nella storia. Sono differenti, ma non nel senso di uno che completa l’altro».
Amare, in questa prospettiva trinitaria, non significa andare alla ricerca di qualcosa che ci manca e quindi ci completa. Dio non ci ama perché ne ha bisogno, per completarsi: la gratuità è centrale nell’amore trinitario e nel cristianesimo in generale. Per comprendere meglio il senso dell’amore trinitario Forcades fa appello ad un termine teologico: pericoresi, che significa fare spazio intorno. L’amore trinitario, come amore pericoretico, produce spazio intorno alle persone. In questa prospettiva, è comprensibile come l’amore autentico non solo esiga, ma produca libertà per la persona amata. «Percepisco che qualcuno mi ama quando sento che nella relazione, accanto a quella persona, lo spazio attorno a me si amplia. In questo tipo di relazione posso anche essere me stessa in qualcosa che ancora non so di me, si schiude uno spazio nuovo attorno a me in cui oso entrare.
Questo spazio è la migliore definizione dell’amore ». Amare significa fare spazio all’altro in moda tale da permettergli di essere ciò che deve essere. Tutte le volte che la relazione si chiude nella complementarietà duale, rischia di collassare. La dinamica della pericoresi garantisce all’amore un dinamismo creativo. È per questo motivo, per il modo d’intendere l’amore, che Forcades afferma di essere a favore del matrimonio omosessuale. Non basta smettere di discriminare o diventare tolleranti nei confronti delle persone omosessuali. Occorre avere il coraggio di compiere un passo ulteriore. «Sono a favore del sacramento dell’amore fra due persone sia etero sia omosessuali, a patto che fra di loro vi sia un amore autentico fatto del riconoscimento di quello spazio che circonda ogni persona e la comprensione che il matrimonio riguarda anche la comunità nella quale vivono» .
Uscire dallo schema della sessualità duale, imposto dalla cultura incapace di elaborare un pensiero a partire della realtà che si manifesta nella sua complessità, permette di elaborare proposte sino ad ora impensabili. Elaborazione concettuale che diviene significativa perché non sgorga dal nulla, ma dalla riflessione sull’amore pericoretico, così come si manifesta nel mistero della Trinità. In ogni modo Forcades non si ferma alla possibilità del sacramento del matrimonio per le persone omosessuali, ma arriva persino a criticare il matrimonio eterosessuale. Se, infatti, la santità appartiene a Dio, allora l’amore santo, prima di provenire da una relazione di complementarietà, si manifesta in quelle relazioni in cui l’amore non è un bisogno, ma una possibilità che offre spazio per un cammino di autenticità. C’è dunque santità anche nell’omosessualità. «L’omosessualità in sé non è più santa dell’eterosessualità, né vale il contrario, ma per il solo fatto che esiste (a prescindere dalla qualità morale della singola persona omosessuale) è una benedizione e apre alla diversità in un modo che arricchisce la nostra ricerca teologica».
Omosessualità e prospettiva relazionale nella teologia di Giannino Piana
In alcuni scritti il teologo italiano Giannino Piana ha preso posizione non solo sul rapporto tra Chiesa e persone omosessuali, ma anche sulle dichiarazioni contenute in alcuni documenti ecclesiali. Secondo Giannino Piana, l’autorità ecclesiastica ha paura che l’attuale contesto socio-culturale, favorevole alle persone omosessuali, possa provocare delle rivendicazioni insostenibili da parte dei gruppi di cristiani omosessuali e, per questo, ha irrigidito la dottrina. Eppure, sono ormai diverse le discipline che orientano verso una comprensione più complessa della realtà, capace d’integrare quelle diversità che sino ad ora sono rimaste fuori dai rigidi schemi antropologici. L’autore fa riferimento sia alle scienze biologiche che a quelle psicologiche e sociali, giungendo ad affermare che «Ci hanno aiutato a prendere coscienza che la diversità dei modelli comportamentali tra i sessi non è dovuta prevalentemente a ragioni naturali, ma culturali, riproducibili, in ultima analisi, al diverso instaurarsi di rapporti di potere».
In questa prospettiva, anche la riflessione filosofica ci ha aiutato a comprendere che anche il “maschile” e il “femminile”, prima di essere due elementi separati e contrapposti, sono invece dimensioni costitutive dell’umano, in quanto presenti tanto nell’essere-uomo, quanto nell’essere-donna, con modalità quantitative differenti, che danno origine a vere e proprie differenze quantitative. I contributi della scienza e della filosofia hanno permesso, secondo la riflessione di Giannino Piana, di superare le teorie naturalistiche, dalle quali scaturiva la condanna dell’omosessualità da parte della Chiesa, ma anche le teorie culturali incapaci di andare al di là del semplice riduzionismo della differenza sessuale come prodotto della cultura. «È venuta sempre più sviluppandosi una teoria interpretativa della differenza uomo-donna di carattere “relazionale”, tesa cioè a privilegiare come dato fondante la relazione».
Dire relazione significa collocare la realtà della differenza sessuale nel quadro più ampio del contesto socio-culturale, tenendo anche conto della connotazione biologica. La prospettiva relazionale permette di cogliere poi che il rapporto uomo-donna, pur fondante, non esaurisce in sé tutte le possibili modalità espressive della relazionalità, «anzi, diventa la radice da cui si dipartono tutte le altre relazioni e il paradigma cui esse devono ispirarsi se intendono conservare il loro carattere pienamente umano».
A questo punto l’autore prende come punto di riferimento la riflessione biblica, la rivelazione ebraico-cristiana, per dimostrare come il primato della relazione s’incontri sia nelle pagine dell’Antico che del Nuovo Testamento. Senza dubbio, troviamo il discorso del primato della relazione nelle pagine della Genesi, dove l’uomo è definito come immagine di Dio. Il tema dell’immagine non è riferito alla singola persona, ma alla realtà della relazione che, anche se trova nel rapporto uomodonna il principale referente, si estende tuttavia ad ogni altra forma di rapporto interumano. «Da tali racconti – sostiene Piana – si evince che la differenza viene dopo (non solo cronologicamente) l’unità e che è a quest’ultima del tutto subordinata, al punto che l’umano si presenta fin da principio – si pensi alla figura dell’Adam collettivo – come un’unità che si esprime e si realizza in una differenza».
Secondo Giannino Piana il discorso sulla relazione e il riconoscimento dell’unità originaria dell’umano, pur non sminuendo l’importanza del significato della differenza sessuale, mette in luce il carattere secondario e dipendente che essa riveste di fronte all’attuazione dell’esperienza relazionale.
Il Nuovo Testamento accentua tale impostazione in due direzioni. In primo luogo, interpretando in chiave trinitaria la categoria dell’immagine, che rende sempre più trasparente la priorità della relazione rispetto alle modalità secondo le quali si realizza. In secondo luogo, proponendo di fatto una modalità asessuata, al punto da ridimensionare l’importanza della differenza, attraverso la demitizzazione degli istituti tradizionali quali il matrimonio e la famiglia. L’autore, prendendo come riferimento alcuni testi del Vangelo di Luca, sostiene che Gesù ha relativizzato le istituzioni tradizionali dinanzi all’evento del Regno di Dio e alla radicalità delle esigenze evangeliche, che spingono l’uomo e la donna verso un cammino di conversione, di cambiamento radicale.
Ancora più significativo, a detta di Piana, è il brano di Paolo della lettera ai Galati, in cui sottolinea la radicale caduta di ogni differenza dinanzi all’unità di tutti gli uomini in Cristo: «Non c’è più n’è giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» .
La prospettiva che Paolo propone è senza dubbio sconvolgente, nel senso che, dinanzi al mistero di Cristo, ogni differenza non trova più alcuna giustificazione. «L’avvento della salvezza spinge l’uomo a vincere la tentazione di chiudersi entro modelli tradizionali per aprirsi a forme nuove, dove ciò che conta è la percezione di ogni soggetto umano come persona redenta dal Signore». Immediate sono le conseguenze sul terreno etico che questa riflessione comporta, soprattutto a riguardo dell’omosessualità.
Secondo Piana, adottare il modello relazionale, più in linea con il pensiero ebraico- cristiano del modello naturalistico di matrice filosofico-aristotelica, significa apprendere a valutare i comportamenti interpersonali osservando prima di tutto il livello di relazionalità conseguito. Ciò significa che la bontà morale di un rapporto è data dalla capacità che ha di esprimere il mondo interiore di due persone in modo autentico e profondo, prima di qualsiasi altra considerazione anche di ordine sessuale. Solo in questo modo si creano le condizioni per una autentica interpersonalità, «che si realizza nella misura in cui si abbandona la tentazione di trattare l’altro (l’altra) come oggetto e si riconosce invece la sua unicità irripetibile e la sua inestimabile dignità».
Giannino Piana è consapevole del rischio di idealizzare la relazione. Sappiamo, infatti, che la comunione e la comunicazione tra persone non sono mai totali e si sviluppano gradualmente. L’incontro tra persone va pensato come esperienza di vicinanza che lascia intatta la distanza o, dicendolo con la Forcades, che fa spazio all’altro. Senza dubbio, la relazione eterosessuale rimane il momento più alto di attuazione delle possibilità di comunione, come è senz’altro chiaro che la relazione omosessuale è segnata da limiti intrinseci, come l’assenza della fecondità procreativa.
«Questo non significa tuttavia – sostiene Piana – che si debba a priori negare a quest’ultima la possibilità dello sviluppo di una vera reciprocità, talvolta soggettivamente maggiore di quella che ha luogo in alcune forme di rapporto uomo-donna connotate da dinamiche strumentalizzanti e alienanti».
Occorre allora più che mai sottolineare il valore di ogni relazione autentica, che per potersi sviluppare deve prendere coscienza della propria identità, il riconoscimento della propria condizione, in un clima di superamento dei sentimenti di colpa paralizzanti. È a queste condizioni che è possibile giungere ad una piena maturità sessuale, che conduce a vivere nel segno del rispetto e della donazione di sé uscendo, in questo modo, dai percorsi oscuri della strumentalizzazione dell’altro.
Riflessioni conclusive
Ho riportato gli studi di Migliorini, Forcades e Piana sul dibattito Chiesa e omosessualità per mostrare gli sforzi che la teologia sta compiendo nella direzione dell’ascolto della realtà delle persone omosessuali. Si potrebbero sintetizzare questi tre contributi richiamando uno dei principi cardini del magistero di papa Francesco, espressi nell’Evangelii gaudium: la realtà è più importante dell’idea. Prima di lasciarsi fasciare la mente dalle teorie teologiche o dalle ideologie culturali è importante porre attenzione alla realtà. Del resto, è stata proprio questa la grande lezione che la fenomenologia del secolo scorso ha impartito non solo alla filosofia, ma anche a ogni scienza che prenda a cuore il cammino della verità. Lo stesso Feyerabend richiamava severamente gli scienziati, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, a smettere di forzare l’esperienza per dimostrare le loro teorie elaborate a tavolino con l’unico obiettivo di pubblicare le loro ricerche ai fini della carriera accademica. La stessa cultura postmoderna, nella quale siamo immersi, nasce dal fallimento delle ideologie moderne sorte come interpreti della realtà, senza però un ascolto previo della stessa. Forse sta succedendo la stessa cosa nella Chiesa nei confronti delle persone omosessuali.
Ogni volta che esprime un giudizio negativo nei loro confronti è come se si lasciasse prendere dalla fretta di sistemare le cose, di rimettere tutto a posto, primo di ascoltare il dono che Dio vuole manifestare con le persone omosessuali. I lavori proposti, che rappresentano solamente un piccolo contributo di quel mare di studi che da varie parti del pianeta si sta producendo sul tema, ci offrono alcuni spunti significativi per comprendere in che modo la questione omosessuale stia contaminando in modo positivo la Chiesa anche se quest’ultima sta ancora resistendo.
Il tema dell’omosessualità è uno di quei temi che diventano il tornasole del cammino di una cultura. Attorno ad esso, infatti, ruotano molti aspetti significativi che costringono la società a prendere posizione in un modo o nell’altro. Uno di questi è senza dubbio il valore dell’uguaglianza legato al tema della diversità. In che modo una società è capace di elaborare e modificare i contenuti culturali da essa stessa plasmati, per fare in modo che qualsiasi suo membro si trovi accolto? La società occidentale sta camminando nel riconoscimento delle persone omosessuali, come nel riconoscimento delle diversità. Mi sembra questo uno degli aspetti più significativi che caratterizzano la cultura nella quale viviamo, che da secoli si alimenta di valori cristiani: fraternità, solidarietà, uguaglianza, democrazie. Per quanto riguarda il cammino delle Chiese cristiane, alcune di loro si sono già espresse positivamente nei confronti delle persone omosessuali. La Chiesa valdese, ad esempio, ha da anni elaborato un testo per la benedizione delle coppie omosessuali.
La Chiesa cattolica è quella che sta facendo più fatica in questo cammino, anche se diversi settori di quella che potremmo definire l’ala progressista manifestano maggiori aperture nei confronti delle persone omosessuali. Le contaminazioni più significative che provengono dal dibattito sulle persone omosessuali sono il valore della sessualità, il tema della natura, la problematica legata al tema dell’uguaglianza. Sono temi sui quali, per ora, nessuno può dire di aver trovato la strada definitiva e, per questo motivo, esigono capacità di dialogo e serietà della ricerca. In questo caso, più che in altri, prima di giungere a delle definizioni o a delle dichiarazioni definitive, è fondamentale aprire lo spazio all’ascolto. Si tratta, in fin dei conti, di persone che vivono sulla loro pelle il dramma di una società e, spesso, di una Chiesa che non accetta la loro condizione, che vivono il peso della discriminazione.
Ancora una volta papa Francesco, in questo cammino, ci è di grande aiuto e stimolo quando c’insegna a porre al centro la dignità della persona umana concreta, che va accolta come dono di Dio, qualsiasi sia la sua condizione sociale, politica o religiosa.
* La presenza di omosessuali credenti obbliga la Chiesa a ripensare la propria posizione sull’omosessualità, ma la «difficoltà che ancora oggi ampi settori della Chiesa manifestano nel parlare serenamente di persone omosessuali e di omosessualità, dice di una resistenza, di quella chiusura culturale che si arrocca e si nasconde dietro a preconcetti, che non permettono al pensiero teologico di aprire nuove strade». Da qui parte l’ampia riflessione che il prete di Reggio Emilia don Paolo Cugini, parroco a Regina Pacis, presenta in queste pagine, basata su una premessa metodologica, e cioè che «la teologia non può che determinarsi in dialogo con la situazione storica e culturale», uscendo così dall’errore cronico di un approccio alla realtà unidirezionale e quindi parziale. Il dibattito sulle persone omosessuali, poi, offre un aiuto nella comprensione del valore della sessualità, del tema della natura, della problematica legata al tema dell’uguaglianza.