La chiesa nella speranza e la speranza nella chiesa
Articolo di Brunetto Salvarani pubblicato nella rivista “Rocca”, n. 4, del 15 febbraio 2019.
Sono molteplici gli occhiali che si potrebbero indossare, per provare a leggere il recente viaggio apostolico di papa Francesco a Panama, svoltosi dal 23 al 28 gennaio. In primo luogo, come al solito, si tratta di un’occasione privilegiata per misurare la temperatura di un pontificato che dei viaggi internazionali si è sempre servito, da Paolo VI in poi, per mandare messaggi importanti al mondo (non solo a quello cattolico).
Poi, la scelta di presenziare alla trentaquattresima edizione delle Gmg (Giornate Mondiali della Gioventù), avente per motto «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38) nel contesto di un piccolo paese del Centro America come Panama, ribadisce, da una parte, il suo sguardo attento alle dinamiche della cosiddetta Chiesa globale; e, dall’altra, rilancia un’attenzione speciale per un continente che non soltanto è il suo di provenienza, ma rappresenta anche uno degli snodi più strategici del cattolicesimo del futuro (fra l’altro, a ottobre si terrà l’atteso Sinodo speciale sull’Amazzonia, per il quale saranno coinvolti nove paesi e sette conferenze episcopali). Ancora.
Il contatto con i giovani panamensi, e non solo, necessariamente ha ripreso – pochi mesi dopo il Sinodo dei vescovi che si è proposto di rilanciare il protagonismo giovanile nella Chiesa nel tempo del Dio a modo mio (stando all’indagine dell’Istituto Toniolo del 2016) – questo tema pure altamente strategico: in che modo arrestare l’emorragia di forze fresche che, soprattutto nella vecchia Europa, si annuncia potenzialmente devastante guardando ai prossimi anni e decenni?
Infine, come hanno notato diversi commentatori, l’anno 2019, inaugurato in termini di eventi con il pellegrinaggio panamense, sarà, con ogni probabilità, quello decisivo per il pontificato di Bergoglio: in particolare riguardo la lotta contro abusi e pedofilia, la riforma della Curia e il dialogo con il mondo islamico per sconfiggere fondamentalismi, guerre e terrorismo.
La paura ci fa pazzi
Tra i tanti stimoli che suggerisce un’esperienza del genere, qui adotteremo un’angolatura, per dir così, ecclesiologica. Raccoglieremo, cioè, i pezzi di un puzzle che ci permetta di capire come Bergoglio legga l’attuale condizione della barca della Chiesa, e soprattutto in che direzione sta cercando di pilotarla. A partire da quanto ha preceduto il viaggio, come il tradizionale dialogo con i giornalisti che l’accompagnano in aereo.
Stimolati dalla stessa posizione geografica e strategica di Panama, paese-istmo e ponte storico tra il Sud e il Nord America e tra il Pacifico e l’Atlantico, grazie al Canale (l’esatto contrario dei muri che si vogliono innalzare in molte parti del pianeta), essi lo hanno stimolato a dire la sua sulla tragedia globale delle migrazioni, traendo spunto dal ventilato (dal presidente Trump) muro tra Messico e Stati Uniti. Con il papa ad annuire: «Si legga l’editoriale di oggi sull’Osservatore romano, sono i muri della paura».
L’editoriale del neodirettore, Andrea Monda, citava infatti una frase di António Guterres, segretario generale dell’Onu: «La paura è il brand più venduto nel mondo di oggi. Fa ascolti, fa vincere voti, genera clic». E quando un giornalista gli ha rivelato di essersi recato a Tijuana e aver visto «un muro che entra nell’oceano, una follia», Francesco ha tirato un sospiro: «È la paura che ci fa pazzi ».
Poi, il discorso introduttivo alle autorità, in cui ha sostenuto che Panama, in quei giorni, non solo sarebbe stato ricordato come centro della regione o punto strategico per il commercio e il transito di persone; ma si sarebbe trasformato in un hub della speranza.
E in un punto d’incontro dove giovani provenienti da centocinquanta nazioni dei cinque continenti, pieni di sogni, hanno celebrato, si sono incontrati, pregato e ravvivato il desiderio di contribuire alla creazione di un mondo più umano.
Difficile sottrarsi alla suggestione che, dietro al riferimento, naturale, alla terra ospitante si celi la convinzione del papa che dovrebbe essere la Chiesa stessa a farsi hub della speranza, in uno scenario planetario in cui, al contrario, dominano «le miopi vedute a corto raggio che, sedotte dalla rassegnazione, dall’avidità, o prigioniere del paradigma tecnocratico, credono che l’unica strada possibile passi per il gioco della competitività, della speculazione, ‘e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole’ (Evangelii gaudium 53), chiudendo il futuro a una nuova prospettiva per l’umanità».
Ecco, è emersa qui la parola d’ordine di questa Gmg: il diritto al futuro, come diritto eminentemente umano; un futuro per tutti, su cui dobbiamo lavorare, insieme, anche perché non si tratta di un diritto scontato (come Bergoglio si è largamente soffermato nell’enciclica Laudato si’). E, ancora, un futuro che comincia oggi.
Chiesa in uscita
Ai vescovi della zona, invece, egli si è rivolto con parole paterne ma anche assai franche in chiave di Chiesa in uscita, con un diretto richiamo a un santo recente, san Óscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo salvadoregno brutalmente assassinato dagli squadroni della morte e canonizzato lo scorso ottobre.
Di cui si è servito per riflettere sul ruolo del vescovo e sul senso della presenza ecclesiale in un territorio ferito come quello dell’America Latina, lacerato da violenze delle bande, narcotraffico, rapimenti e omicidi, in particolare di donne. Li ha invitati a operare per una Chiesa svuotata da ogni arroganza o autorità, intesa come pretesa di potere; che non trovi la sua (presunta) forza nell’appoggio dei potenti o della politica, ma nella kenosis, lo svuotamento e l’umiltà; e ancora, per una Chiesa povera, impegnata a rubare i giovani dalla strada e dalla cultura della morte che vende loro solo fumo.
«Fatelo – ha detto – non con paternalismo, dall’alto in basso, perché non è questo che il Signore ci chiede, ma come padri, come fratelli verso fratelli. Essi sono volto di Cristo per noi e a Cristo non devono arrivare dall’alto in basso, ma dal basso in alto. Sono molti i giovani che purtroppo sono stati sedotti con risposte immediate che ipotecano la vita».
Fino a esortare i presuli a essere padri anche per i giovani migranti, tema che è un nervo scoperto (anche) per l’intera America Latina. Perché «molti dei migranti hanno volto giovane, cercano qualcosa di meglio per le loro famiglie, non temono di rischiare e lasciare tutto pur di offrire le condizioni minime che garantiscano un futuro migliore. Su questo non basta solo la denuncia, ma dobbiamo annunciare concretamente una buona notizia».
La Chiesa, grazie alla sua universalità, è potenzialmente in grado di offrire quell’ospitalità fraterna e accogliente in modo che le comunità di origine e quelle di arrivo dialoghino e contribuiscano a superare paure e diffidenze e rafforzino i legami che le migrazioni, nell’immaginario collettivo, minacciano di spezzare. La strada da seguire è quella dei famosi quattro verbi: «Accogliere, proteggere, promuovere e integrare ».
Chiesa ferita
Nella successiva messa con i preti e i religiosi, nella cattedrale di Santa Maria La Antigua, Bergoglio ha deciso di dedicare l’omelia a uno sguardo soprattutto interno, denunciando il fatto che nella Chiesa sembrerebbe essersi installata una specie di stanchezza della speranza, che potrebbe nascere dalla constatazione di una Chiesa ferita dal suo peccato e incapace di ascoltare le tante grida di aiuto che le giungono.
Commentando il vangelo giovanneo della Samaritana, ha sostenuto che appare relativamente facile per la nostra immaginazione, ossessionata dall’efficienza, contemplare ed entrare in comunione con l’attività del Signore, ma non sempre sappiamo o possiamo contemplare e accompagnare le fatiche del Signore, come se questa non fosse cosa di Dio. Di qui, la stanchezza paralizzante, di fronte all’intensità e all’incertezza dei cambiamenti che come società stiamo attraversando.
Rivolgimenti che sembrerebbero «non solo mettere in discussione le nostre modalità di espressione e di impegno, le nostre abitudini e i nostri atteggiamenti di fronte alla realtà, ma porre in dubbio, in molti casi, la praticabilità stessa della vita religiosa nel mondo di oggi».
E anche la rapidità di tali cambiamenti può portare a immobilizzare ogni scelta e opinione, anche perché ciò che poteva essere significativo e importante in altri tempi sembra non avere più spazio.
Come a rilanciare le considerazioni del discorso fiorentino del 10 novembre 2015, nel quadro del quinto convegno della Chiesa italiana, sul fatto che non saremmo oggi di fronte a «un’epoca di cambiamenti », ma a «un cambio di epoca»: per cui «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative» (discorso che purtroppo, va ammesso, non ha trovato particolare audience negli anni successivi).
Scenari, in ogni caso, di fronte ai quali sarebbe necessario ritornare sui nostri passi e, nella fedeltà creativa, «ascoltare come lo Spirito non ha creato un’opera particolare, un piano pastorale o una struttura da organizzare ma che, per mezzo di tanti santi della porta accanto – tra i quali troviamo padri e madri fondatori dei vostri istituti, vescovi e parroci che hanno saputo dare basi solide alle loro comunità –, ha dato vita e ossigeno a un determinato contesto storico che sembrava soffocare e schiacciare ogni speranza e dignità».
«Sentire con la Chiesa»
Come ogni Gmg che si rispetti, il piatto forte ha riguardato la grande Veglia con i giovani (600.000, secondo gli organizzatori), svoltasi fra tende e sacchi a pelo d’ordinanza al Campo San Juan Pablo II, durante la quale Francesco ha scelto di ricorrere a un linguaggio tipico dei social: cloud, app,tutorial e così via. Sul palco, la mitria di San Romero, con il suo motto, ancora un messaggio ecclesiale: «Sentire con la Chiesa».
L’incontro con Dio è una storia d’amore – ha sostenuto – che non ha nulla a che fare con i cloud, leapp, i tutorial; mentre la vita che Gesù ci dona è una storia di vita che desidera mescolarsi con la nostra e mettere radici nella terra di ognuno. Quella vita non è una salvezza appesa nella nuvola in attesa di venire scaricata, né una nuova applicazione da scoprire o un esercizio mentale frutto di tecniche di crescita personale. Mentre Maria, che non compariva nelle reti sociali dell’epoca, e non era una influencer, senza volerlo né cercarlo è diventata la donna che ha avuto la maggiore influenza nella storia.
Maria, «la influencer di Dio. Con poche parole ha saputo dire sì e confidare nell’amore e nelle promesse di Dio, unica forza capace di fare nuove tutte le cose». In riferimento alla difficile scelta di una coppia di accettare l’arrivo di una figlia disabile, ha proseguito, dire sì al Signore significa avere il coraggio di abbracciare la vita come viene, con tutta la sua fragilità e piccolezza e molte volte persino con tutte le sue contraddizioni e mancanze di senso.
Del resto, Gesù abbracciò il lebbroso, il cieco e il paralitico, il fariseo e il peccatore e il ladro sulla croce, e perdonò persino quelli che lo stavano mettendo al supplizio. «Perché? Perché solo quello che si ama può essere salvato». Ma il papa non ha trascurato di pronunciare parole in difesa dei ragazzi di oggi: «Com’è facile criticare i giovani e passare il tempo mormorando, se li priviamo di opportunità lavorative, educative e comunitarie a cui aggrapparsi e sognare il futuro!». Bergoglio ha parlato dei «quattro senza per cui la nostra vita resta senza radici e si secca: senza lavoro, senza istruzione, senza comunità, senza famiglia… Questi quattro senza uccidono».
È proprio la Chiesa di Bergoglio
In conclusione, che idea di Chiesa ci lascia la Gmg del 2019? Dando per scontato il rischio, di ogni Gmg e di ogni evento simile, quello di durare lo spazio di un mattino nel tempo della gratificazione istantanea e del tutto e subito, quella che si è vista a Panama è decisamente la Chiesa di Bergoglio: che parla – e parlerà sempre più – spagnolo e non fa sconti, a dispetto di tanti detrattori interni, né sulla piaga della pedofilia né su alcuna moda vagamente spiritualista. Che appare consapevole di stare attraversando con trasparente fatica un tornante della storia cruciale, anche della storia della Chiesa, per cui occorre pazientare e seminare vangelo, pur se saranno altri, auspicabilmente, a raccogliere. Che investe sulle parole d’ordine dell’impegno per la pace, il dialogo interreligioso, i migranti e i poveri in generale.
E che scommette, nonostante tutto, sul futuro, perché – come ha ripetuto a più riprese il papa argentino – «c’è bisogno di moltiplicare la speranza». Una speranza che vive in tenda e dorme in sacchi a pelo.