Chiesa Popolo di Dio, dall’esperienza brasiliana alla proposta di papa Francesco
Recensione di Paola Cavallari*
Ogni volta che mi ritrovo di fronte all’ espressione Opzione preferenziale per i poveri, sempre mi si evoca una l’immagine di pietà popolare più potente che io conosca: il brano di Simone Weil in cui lei dà conto di quel kairos che stravolge la sua vita: l’attimo in cui si imbatte in una processione di un popolo povero.
Da agnostica quel era, diviene cristiana. Il racconto fa venire i brividi: una scena evangelicamente epica. Evoca lo scenario in cui Gesù chiama Simone e Andrea, dicendo loro “Seguitemi”. Una chiamata analoga seduce Simone Weil, in rapimento estatico davanti a quel popolo di donne e uomini pescatori che si raduna in cerimonia devozionale, semplice e insieme sovrabbondante. Lì scatta una scintilla. Perché nella Parola si squaderna la koinonia tra Poveri e Regno di Dio e la bellezza escatologica si fa carne.
Ma un altro pensiero, evangelico anch’esso, sbalza dalla superficie su altri: le donne, tra i poveri, sono le ultime tra gli ultimi, ancor più “minime”, “scarti”, perché della loro sventura estrema non c’è parola, poiché la lingua le cancella; non nel Vangelo, però, dove anche le donne prostituite – dai maschi- sono innalzate.
Ho esordito parlando di poveri/povere nell’ambito della chiesa perché è la sollecitudine nei loro confronti a dominare l’orizzonte discorsivo del libro di Paolo Cugini, Chiesa Popolo di Dio, dall’esperienza brasiliana alla proposta di papa Francesco (EDB 2020): un panorama approfondito e documentato sulla figura popolo di Dio che, partendo delle esperienze delle Comunità ecclesiali di base (CEB) brasiliane, approda ai lineamenti maturati nel corso del pontificato di Francesco.
È una sinfonia, questa indagine appassionata, che cresce man mano nel suo sviluppo: dall’esordio, dai toni misurati, al finale di ricapitolazione totale, dove una molteplicità di elementi teologici, pastorali ecclesiologici e politici (ovviamente nel significato alto di politica) è stata attraversata analizzando snodi e intrecci imparentati con la materia esaminata; nelle pagine finali, i molteplici aspetti e diramazioni del grande albero si saldano in un continuum, componendosi in un coro sinodale.
Lo sviluppo è per lo più di tipo sincronico – della realtà latino americana degli anni 70 al pontificato di Francesco- ma intarsiato da segmenti di un percorso storico/teologico con un andamento a spirale.
Se il libro dunque si apre con un capitolo dedicato alla “Chiesa come popolo di Dio nelle esperienza delle comunità ecclesiali di base in Brasile”, nella parte seconda dell’opera compaiono capitoli su “Recupero biblico del concetto di popolo di Dio” , o “Chiesa popolo di Dio nel Concilio Vaticano II” , per approdare alla parte terza “La Chiesa come popolo di Dio nella proposta ecclesiale di giunge al magistero di Francesco”.
Quel Francesco che, alla folla inneggiante del dopo conclave nel 2013, si presentò come uomo che da “terre lontane” (latinoamericane appunto) era venuto. Il luogo geografico di partenza si salda quindi, simbolicamente, con il punto d’arrivo, in circolarità. Nel testo, di due uomini e non di uno si tratteggia una parabola di vita: Papa Francesco e l’autore stesso; entrambi, infatti, nelle terre dell’America latina hanno – in modi differenziato, s’intende – attinto quella linfa evangelica che poi hanno riversato con passione in Occidente.
L’autore infatti, lì, nelle terre brasiliane ha trascorso una stagione significativa della sua opera missionaria e vita; e ne ha saputo trarre un tesoro prezioso alla luce del vangelo. È la singolare esperienza cui il libro, pur nella sua veste scientifica e non certo biografica, vuole sia serbare memoria sia rendere testimonianza. È garbato questo volto autoriale, che velatamente compare dietro le quinte: per esempio, quando Paolo Cugini ci informa che molte delle fonti documentarie di cui il testo si avvale per la ricostruzione storica sono fonti inedite per un lettore/lettrice italian*, da lui raccolte e tradotte. Del fermento e del lievito sviluppatosi nell’orizzonte ecclesiologico ad ampio spettro nel mondo latino americano fin dagli anni ‘70 e ’80, egli quindi dà conto e testimonianza, molto utile per chi, come me, ne conosceva solo frammenti.
Lo slancio pastorale scatta dalla Prima Conferenza latinoamericana e caraibica (CELAM) svoltasi a Medellin nl 1968. Dall’indice del documento riporto i titoli di alcuni paragrafi essenziali: “Movimenti laicali”, “Formazione del clero”, “Povertà nella chiesa”; punti indubbiamente rivelatori di quanto Medellin abbia espresso intuizioni teologiche e pastorali di una chiesa profetica.
Come dice l’autore, citando le parole della Conferenza: “Fin dalle prime pagine, il documento di Medellin analizza la situazione di impoverimento e miseria di grandi settori del popolo latinoamericano: «l’episcopato latinoamericano non può restare indifferente di fronte alle tremende ingiustizie sociali esistenti in America Latina che mantengono la maggioranza delle nostre popolazioni in una dolorosa povertà, prossima in moltissimo casi alla miseria disumana» [p.167 DM 493].
Una povertà la cui cause sono antiche e insieme nuove, di cui l’autore dà conto in molti passaggi, fra cui quelli del paragrafo Il popolo di Dio: un popolo di poveri, dove scrive: “Fra le principali sfide individuate a Tabatinga (incontro del giugno 2016 in Brasile) al primo posto sta la difesa del territorio di fronte alle leggi che minacciano i diritti dei popoli indigeni, i problemi rappresentati dai «megaprogetti infrastrutturali e di sfruttamento economico, siano essi idroelettrici, stradali, minerari, di estrazione di gas e petrolio, della deforestazione per l’impianto di monoculture agricole» (p. 196).
Allo stesso tempo è stato messo in luce il pericolo rappresentato da attività illecite, come il traffico di esseri umani o il narcotraffico […] la perdita dell’uso della lingua materna e di altre espressioni culturali, il mutamento delle abitudini quotidiane, un uso sbagliato delle tecnologie, la diffusione dell’alcolismo, la presenza negativa rappresentata da alcuni tipi di chiese e di sette” p.196
Ad Aparecida (V Conferenza Episcopale Latinoamericana e Caraibi = CELAM, 2007) si ripropongono i pronunciamenti anteriori, per cui i tre contributi rilevanti si possono sintetizzare in: 1. consapevolezza della importanza della Parola di Dio come fonte di spiritualità dei fedeli; 2. stimolo evangelizzatore e missionario tra le persone più povere nella società realizzato nelle CEB, quale espressione visibile della opzione preferenziale per i poveri; 3. sviluppo della ministerialità: «Le CEB sono la fonte e il seme di vari servizi e ministeri per la vita della società e della Chiesa» [p. 29].
Molto efficace è la nota a p. 168, dove si osserva: “In un articolo del 2003, in cui si riflette sulla eredità di Medellin, C. Boff afferma: «L’opzione per i poveri implicava l’allontanamento della Chiesa dal potere, con cui era stato legata per secoli, per non dire millenni, per avvicinarsi ai poveri».
In quest’ottica, pur nella continuità, con e da Aparecida in poi, si avverte una sorta di aggiustamento dall’alto, un’ortopedia improntata alla tradizione. Come dice l’autore, infatti, “il D100 [documento della CNBB = Conferenza nazionale episcopale brasiliana- del maggio 2014] raccomanda la comunione con la diocesi di riferimento”, e “si assiste a volte a una tensione negativa tra i movimenti – che rispondono prima di tutto ai loro coordinatori specifici – e il piano pastorale della diocesi […]
Facendo riferimento alla esortazione apostolica Christifideles laici, il D100 ricorda che i movimenti e le associazioni laicali non possono collocarsi sullo stesso piano delle comunità parrocchiali, «al contrario hanno il dovere del servizio nelle parrocchia e nella Chiesa particolare» p. 36. Già! Ma la domanda che viene spontanea – e qui sono io a parlare- è: “Colui (il maschile è d’obbligo) che guida dà veramente testimonianza del vangelo o segue la logica dell’autopreservazione della istituzione?”
Un’altra osservazione riguarda la questione dell’accentramento/ decentramento, trattata a p.38. La mia impressione è che, con tale richiamo, si sia strategicamente operato in concorrenza con l’azione delle CEB e quindi per limitarla. Evoca la mossa messa in campo dal papato medievale quando creò gli Ordini mendicanti per frenare l’ascesa dei movimenti pauperistici.
È vero che nelle CEB c’erano stati fenomeni devianti, è vero quindi che un ripensamento/autocritica dentro le CEB e con le CEB andava fatto. Ma è vero anche che il loro cammino “viene portato avanti in quelle situazioni in cui il clero locale tenta di centralizzare il cammino della parrocchia, smettendo di visitare le CEB e visitandovi raramente. La chiesa latino americana sta pagando il frutto di scelte precise messe in atto da Roma a partire degli anni 80 (capitolo 3); tali scelte stanno producendo un clero conservatore, poco disposto ad accompagnare la comunità povere. Questo abbandono sta continuando a lasciare un segno.
Laici e laiche sono soli in questo cammino […] In ogni modo il giudizio sulle CEB rimane positivo- continua l’autore- soprattutto perché esso riesce ad esprimere ancora oggi uno spazio originale e costante per la ministerialità laicale. Nelle CEB i laici e le laiche sono i veri protagonisti del cammino delle comunità. […] La fede del popolo, soprattutto dei più poveri delle campagne o dei quartieri periferici delle città, è alimentata grazie al costante servizio di tantissimi laici e soprattutto laiche” p. 332-3.
Per quanto riguarda le ragioni dell’abbandono, di cui si è detto poc’anzi, vengono identificate nelle scelte del Vaticano che, nel sinodo straordinario dei vescovi del 1985, ha compiuto la sostituzione della “ecclesiologia del popolo con la ecclesiologia della comunione […] mettendo nel dimenticatoio quella idea di chiesa popolo di Dio che era una delle novità più significative del concilio Vaticano II”. p. 335.
Ma non posso non ringraziare Paolo Cugini per informarci anche di altro commento, che è riportato a p. 169: “In un articolo che celebrava i trent’anni dal DM [ Medellin], il teologo brasiliano Oscar Beozzo lamentava in quattro grandi limiti del documento, vale a dire: l’assenza di una prospettiva storica, lo scarso riferimento alla Parola di Dio, la scarsa attenzione alla dimensione culturale e l’assenza totale di attenzione al problema di genere”.
Qualche parola sul “problema di genere”, dunque. Nel documento D100, come nella pressoché totalità dei documenti, le donne sono o assenti (anche nel linguaggio) o a loro è riservato un posto ancillare; nella parte finale del D100, per esempio «I ministeri laicali riflettono la dignità di tutti i battezzati e la corresponsabilità di tutti i cristiani nella comunità» p 41: il tutto senza mai nominare le battezzate.
La questione non è solo (ma anche) relativa all’uso del linguaggio inclusivo, cosa di cui Cugini è ben consapevole, e lo dice e lo agisce; ma di cogliere che si tratta di un intero impianto strutturale che discrimina. La radice delle diseguaglianze, le radici delle violenze, della mentalità per cui il mondo è a “mia” disposizione e quindi la radice del desiderio appropriativo/ predatorio che genera “povere e poveri” sta in questa “comoda” rimozione dell’altra.
Di tale impianto sistemico, trovo accenno nel testo a p. 246, quando si citano parole del teologo Ferrè: “Del resto, il concetto di popolo, secondo Methol Ferrè, presuppone proprio questa dialettica – quella della relazione uomo-donna – modello per ogni superamento del rapporto signoria-servitù”.
Possiamo nutrire speranza riguardo ad un processo trasformativo redentivo dell’impianto teologico? Possiamo sperare l’attenzione del magistero ecclesiale e papale a proposito delle ultime tra gli ultimi del popolo di Dio? Possiamo sperare che la teologia e pastorale cattolica applichino a se stesse quello spirito di misericordia che si raccomanda al mondo? Gesù di Nazaret ammonì i suoi discepoli di non rimuovere la scheggia dall’occhio del fratello senza prima rimuovere la trave dal proprio occhio (Matteo 7: 3-5).
Paolo Cugini, Chiesa popolo di Dio. Dall’esperienza brasiliana alla proposta di papa Francesco, EDB, Bologna 2020
* Paola Cavallari ha insegnato filosofia e storia nei licei. Ha conseguito il magistero in scienze religiose. Da più di vent’anni è redattrice della rivista ESODO (quadrimestrale di dialogo tra uomini e donne in ricerca nel campo spirituale, filosofico e politico), dove è confluita la maggior parte dei suoi saggi, i primi dei quali sono apparsi invece su riviste femministe.
Ha inaugurato nel 2016 le Tavole rotonde interreligiose su religioni e violenza contro le donne, organizzate dal SAE Bologna e dal FSCIRE. In questa cornice P.C. ha promosso l’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (O.I.V.D.), di cui ora è presidente. Collabora alla rivista Adista e alla rivista Alta Marea. È Socia del Coordinamento Teologhe Italiane, ed è impegnata nei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base e nel laboratorio Ecofemmiste-sostenibiltà del progetto Dalla Stessa parte.
Per i tipi di Servitium ha pubblicato nel 2016 Tardi ti ho amato, prefazione di A. Casati. Nel novembre 2018 è uscito, da lei curato, Non solo reato, an¬che peccato. Religioni e violenza sulle donne, per la casa editrice Effatà. Nel gennaio 2020 è uscito, sempre da lei curato, Non sono la costola di nessuno letture sul peccato di Eva, prefazione di Lilia Sebastiani, Il segno dei Gabrielli editori.