La chiesa Valdese, la «Sola Scriptura» e l’accoglienza delle persone omosessuali
Lettera di Lucio Malan con risposta del pastore Paolo Ricca pubblicata sul settimanale Riforma del 16 luglio 2010
Nell’ultimo «dialogo» ho risposto al primo dei tre interrogativi sollevati dal nostro lettore Lucio Malan in ordine al battesimo di due gemelli, che ho «amministrato» (come abitualmente si dice) nella chiesa valdese di via IV Novembre, a Roma, nel corso del culto di Pentecoste, il 23 maggio scorso. Il battesimo era richiesto da una coppia gay, di cui un partner è il padre biologico dei gemelli, mentre il suo compagno è «padre» adottivo.
Rispondendo al primo quesito su che cosa significa essere genitori, ho sostenuto che, a mio giudizio, può, anzi deve, essere chiamato «genitore» non solo chi mette al mondo un figlio, ma anche e altrettanto, se non di più, chi, senza averlo messo al mondo, lo adotta come suo, assumendosene in tutti i sensi la responsabilità.
Rispondo ora agli altri due interrogativi, contenuti nella parte conclusiva della lettera, che riproduco:
… Se ricordo bene, l’ordinamento valdese menziona due volte «i genitori»: una volta per dire che la procreazione, non la libera scelta – fatta salva l’adozione – determina la condizione di genitori, e l’altra per dire che il battesimo dei fanciulli avviene su richiesta dei genitori.
Se tutto questo si può fare per decisione di un pastore, e magari di una chiesa locale, a che serve il Sinodo, a che servono le norme in vigore da secoli? Il compagno del vero padre non poteva essere designato padrino, senza tante acrobazie? A una coppia di uomo e donna sarebbe stato concesso così facilmente di attribuire il titolo di genitore, quando genitore non è né di fatto né di diritto?
Condivido l’esigenza dell’accoglienza, rispetto gli omosessuali e i loro sentimenti. Ma con certe interpretazioni della Bibbia, non si fa proprio quello che siamo bravissimi a criticare nella Chiesa cattolica, quando mette «il magistero della chiesa» al di sopra della Scrittura, il cui contenuto è definito dalla nostra Confessione di fede «eterna e indubitabile verità»? Non eravamo quelli del «sola Scriptura»?
Lucio Malan – Roma
La risposta…
1. Il primo interrogativo può essere formulato così: il Concistoro della Chiesa di via IV Novembre, autorizzando questo battesimo e il pastore amministrandolo, sono andati oltre le loro competenze, sostituendosi all’autorità superiore del Sinodo che solo può legiferare su questa e altre materie, essendo «la massima autorità umana della Chiesa in materia dottrinaria, legislativa, giurisdizionale e di governo»? (art. 27 della Disciplina Generale).
In altre parole, il Concistoro e il pastore in questione hanno abusato delle loro facoltà e dei loro poteri? L’interrogativo, come si vede, è molto serio. Ora a me non pare che questo sia avvenuto. Il Concistoro infatti ha semplicemente autorizzato il battesimo, il che rientra non solo nelle sue competenze, ma nei suoi precisi doveri.
In nome di che cosa avrebbe potuto negare l’autorizzazione, dato che la nostra Chiesa celebra il battesimo dei bambini (oltre a quello degli adulti credenti), la richiesta di questo battesimo è maturata dopo vari colloqui della coppia con il pastore titolare, e uno dei due partner è il padre biologico dei gemelli?
Difficilmente, mi sembra, il Concistoro avrebbe potuto prendere una decisione diversa da quella che ha preso. E il pastore, è forse lui che ha abusato dei suoi poteri, chiamando «genitore» anche il padre adottivo, compagno del padre biologico? Il nostro lettore cita a buon diritto il documento sinodale sul matrimonio, del 1971, dove si afferma che «nella famiglia le qualità di genitori e di figli sono determinate dal fatto della procreazione» (art. 6), cioè la procreazione ti rende genitore, ti piaccia o no.
Questo articolo però non dice che la procreazione sia l’unico modo per diventare genitori. Tanto che l’articolo precedente sulla «natura della famiglia» dice quanto segue: «La famiglia, quale distinta istituzione fondamentale della condizione umana, sorge con la presenza dei figli di cui i genitori sono responsabili, anche nel caso di figli adottivi o nati fuori del matrimonio» (art. 5).
Il Sinodo qui dà il titolo di «genitore» a chi accoglie e si rende responsabile di «figli adottivi o nati fuori del matrimonio». Non mi sembra quindi che il pastore, chiamando «genitore» anche il padre adottivo, abbia abusato del pulpito, adoperando un linguaggio non autorizzato dal Sinodo.
Non c’è quindi stato secondo me nessun abuso né da parte del Concistoro né da parte del pastore, a meno che il sospetto di «abuso» non riguardi il battesimo, ma la coppia gay che l’ha richiesto. È chiaro che, accettando la richiesta della coppia, il Concistoro e il pastore hanno riconosciuto il suo diritto di chiedere il battesimo dei gemelli, e quindi, almeno de facto, hanno riconosciuto la coppia come tale. Quanto meno, l’hanno accolta.
Il Concistoro autorizzando il battesimo e il pastore celebrandolo sono stati «accoglienti» Il nostro lettore su questo punto è d’accordo: «condivido l’esigenza dell’accoglienza». Ma appunto: che cosa significa «accogliere»? Accogliere i bambini, ma non la coppia? Assurdo, perché senza la coppia, non ci sarebbero i bambini.
Accogliere il padre biologico e non quello adottivo? Assurdo, perché hanno deciso insieme di avere dei figli. Penso quindi che accogliendo i bambini, abbiamo accolto anche la coppia, e che questo fosse il modo giusto di accogliere. Non mi sarebbe sembrato giusto, invece, chiamare «padrino» – come suggerisce il nostro lettore – il padre adottivo, perché, come ho detto e lo ripeto, il padre adottivo è padre altrettanto, e forse più, del padre biologico.
E non si tratta di «acrobazie», ma di discernere la realtà e qualità dei rapporti umani. Resta però l’obiezione: su questa materia il Sinodo non ha legiferato. È vero: il Sinodo è in ritardo, rispetto alla realtà che incalza. Non ci sono norme, tanto meno «in vigore da secoli».
Questo vuoto legislativo non giova a nessuno. Né il Concistoro né il pastore possono aver trasgredito norme che non ci sono. Sarebbe però molto meglio se ci fossero. E il Sinodo, credo, non deve tardare oltre.
2. Il secondo interrogativo è più radicale ancora del precedente. Possiamo formularlo così: il Concistoro autorizzando il battesimo in questione e il pastore celebrandolo non hanno forse fatto qualcosa che la Scrittura vieta, sovrapponendo le loro idee a quelle della Bibbia e così trasgredendo, consapevolmente o no, uno dei principi cardini della fede evangelica, cioè il sola Scriptura?
Noi protestanti, che ci vantiamo di essere da sempre fautori e paladini di questo principio, cioè del primato della Bibbia nella Chiesa e sulla Chiesa, e che affermiamo che l’autorità della Sacra Scrittura è superiore a qualunque istanza umana, ecclesiastica o laica, non saremmo forse proprio noi i primi a non prendere sul serio la Bibbia su certe questioni, insegnando e facendo il contrario di quel che essa dice? La questione – inutile dirlo – è serissima.
Il nostro lettore ha ragione quando osserva che «con certe interpretazioni della Bibbia» le si può far dire il contrario di quello che dice. Questo può realmente accadere anche a noi. Nessuno è al riparo dal rischio mortale di manipolare la Bibbia per adattarla ai nostri gusti, alle nostre idee, a «questo secolo», al quale invece siamo chiamati a non conformarci (Romani 12, 2).
Sono proprio i pastori e i teologi che in questo campo corrono il rischio maggiore: la loro stessa familiarità con il testo biblico può generare in loro un atteggiamento di sufficienza e di padronanza, che può indurli a disporre del testo a loro piacimento, a farne quello che vogliono come se ne fossero i signori, anziché restare davanti a esso in umile ascolto, come veri discepoli, cioè persone che vogliono imparare prima di insegnare, sapendo che la Scrittura è, come dice Calvino, «la scuola dello Spirito Santo», e non è «un naso di cera» che ciascuno può volgere in un senso o nell’altro secondo il proprio arbitrio, ma è una parola autorevole che esige l’ubbidienza della fede.
Detto questo però la domanda rimane: quali sono le interpretazioni della Bibbia che, pretendendo di spiegarla, in realtà la tradiscono? Sappiamo bene che alla Bibbia si può far dire quello che si vuole.
C’è chi ha creduto di poter fondare biblicamente il razzismo, e oggi ancora c’è chi cita la Bibbia per sostenere la pena di morte. Così come c’è chi nega la parola alle donne nel culto cristiano a motivo del «tacciansi le donne nelle assemblee» dell’apostolo Paolo (I Corinzi 14, 34), e altri che impongono loro di velarsi il capo quando pregano in pubblico (I Corinzi 11, 13).
E non dimentichiamo che all’interno della cupola di S. Pietro, a Roma, c’è scritto tutt’intorno, a caratteri cubitali dorati, un versetto biblico: Matteo 16, 18.
Ora il tema implicato nel battesimo dei due gemelli è quello dell’omosessualità della coppia che li ha presentati. Questo tema – si sa – divide oggi le chiese e le coscienze.
Sono già accaduti degli scismi, a riprova della serietà della questione. Non si tratta di schierarsi pregiudizialmente da una parte o dall’altra, o di tacciare gli uni di fondamentalismo e gli altri di liberalismo, ma si tratta di discernere insieme, anche in questo campo, «quale sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà» (Romani 13, 3).
Il nostro Sinodo, quando affronterà la questione, se vuole essere fedele, come deve, al sola Scriptura, dovrà rispondere, mi sembra, almeno a queste tre domande: [a] Che cosa dice la Scrittura sull’omosessualità? [b]
Quello che la Scrittura dice su questo tema risente di condizionamenti storici e culturali che possono relativizzarne il valore, circoscrivendolo a un’epoca particolare, o invece dobbiamo considerarlo parte integrante di quella «eterna e indubitabile verità» che la Scrittura contiene e trasmette? [c] Come impostare questo discorso nel quadro dell’etica cristiana che ruota tutta intorno all’unico comandamento dell’amore, come scrive l’apostolo Paolo: «Non abbiate altro debito con alcuno, se non di amarvi gli uni gli altri; poiché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge» (Romani 13, 8)?
Paolo Ricca