La condanna all’invisibilità dei consacrati LGBT+ nella chiesa cattolica
Testo tratto dal libro LGBTQ Catholics: A Guide to Inclusive Ministry di Yunuen Trujillo (Paulist Press, 2022), capitolo 2, pagine 11-12, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Per le persone LGBTQ che hanno fatto la promessa di celibato, e per i religiosi e le religiose a tutti i livelli della vita della Chiesa, è spesso molto più difficile parlare apertamente della propria identità e offrire riflessioni su questo tema, per via della paura di essere fraintesi e giudicati. Un paio di anni fa incontrai un sacerdote che era venuto dall’estero per parlare al Congresso sull’Educazione Religiosa di Los Angeles. Ci mettemmo a chiacchierare nello spazio riservato agli oratori, e mentre gli stavo spiegando il ministero che svolgo, commentò “È cosa molto buona che i laici parlino di questo argomento. Abbiamo bisogno di laici che lo facciano, perché per noi sacerdoti è più difficile parlarne”.
Ho incontrato sacerdoti omosessuali santi, irreprensibili, che rispettano il celibato. Ovviamente non diranno a tutti di essere omosessuali, e perché dovrebbero? Spesso è meglio non dirlo.
I sacerdoti, oltre a rispondere alla vocazione alla castità come qualsiasi altra persona, che sia eterosessuale o omosessuale, pronunciano anche una promessa di condurre una vita di celibato, quindi, anche se sono omosessuali, perché mai dovrebbero renderlo pubblico? Eppure questi sacerdoti santi, che prendono sul serio il loro sacerdozio, spesso hanno paura di raccontare la loro storia a causa dei pregiudizi della gente.