La crisi del nascondimento dei preti gay nell’era del matrimonio omosessuale
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte sesta
Se ascoltiamo attentamente ciò che Benedetto XVI (successore di Giovanni Paolo II e Papa 2005-2013) ha detto sui sacerdoti cattolici, noteremo una maggiore riflessività sul tema delle identità di genere e sessuali, riflessività espressa come paura che alligna nelle più alte sfere della Chiesa: la paura che la vocazione sacerdotale possa essere percepita, al di fuori dei circoli ecclesiastici, come un mestiere per gay.
Nel 2005 Benedetto XVI, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sotto Giovanni Paolo II, annunciò, per la prima volta nella storia della Chiesa Cattolica, la proibizione di ordinare al sacerdozio uomini gay e chiunque sostenga la “cultura gay” (Congregazione per l’Educazione Cattolica, 2005) [1].
Nel 2010, da Pontefice, in un libro-intervista riaffermò il suo timore che “il celibato dei sacerdoti finisca praticamente per essere identificato con la tendenza all’omosessualità” (Luce del mondo, intervista con Peter Seewald). In che modo tale “identificazione” sarebbe dannosa?
Non possiamo comprenderlo se non poniamo tale timore nel più ampio contesto della logica delle lotte simboliche tra diversi modelli di mascolinità, e più precisamente nel contesto dell’attuale e stringente necessità, sentita dal clero cattolico, di garantire la propria mascolinità per poter mantenere le proprie posizioni nella gerarchia intra-maschile del genere.
Accanto alla possibile identificazione del celibato sacerdotale con l’omosessualità, esiste anche il rischio che il corpo sacerdotale (in ambedue i sensi del termine) venga ridotto al suo potenziale perturbatore confrontato con la “mascolinità egemonica”, per usare il termine di R. W. Connell [2]: la forma di mascolinità che ha preso piede in Occidente nell’epoca moderna, infatti, si basa in gran parte sul rifiuto dell’omosessualità maschile, e può identificarsi anzi (non senza cadere in un certo essenzialismo [3]) con la glorificazione dell’eterosessualità attiva all’interno della coppia, aggiunta necessaria alla preminenza del capitale culturale, economico e politico monopolizzato dalla categoria degli uomini.
Per questo Louis-Georges Tin definisce l’era della modernità come la vittoria progressiva di ciò che chiama “cultura eterosessuale” su ogni altra forma di emozione comunitaria, vale a dire la promozione del matrimonio tra i due sessi fondato, in ultima analisi, sul sentimento amoroso e su ciò che viene considerata la naturale attrazione eterosessuale.
In opposizione a tale cultura, la performance di genere del sacerdote cattolico si basa storicamente su un certo numero di norme “extramondane”, inclusa la “verginità del cuore e del corpo”, la quale ha dato origine, nel XI secolo, all’imposizione del celibato [al clero].
Vi sono poi altre norme, come l’umiltà, la fedele sottomissione, la cura per gli altri (le parole cura e curato hanno la medesima radice), il rifiuto del bellicismo e dell’impegno politico, e la libera espressione di determinate emozioni attraverso l’estetica e il misticismo.
Tutto questo veniva descritto, nei libri di testo dei seminari ottocenteschi, come “virtù passive”, vale a dire femminili, e quindi degradanti per un lavoratore rispettabile. È questo il paradosso di quella forma atipica di mascolinità che è il sacerdozio cattolico occidentale: un modo di essere uomo inferiore a priori, ma che offre l’accesso alle posizioni di autorità all’interno della Chiesa, autorità che si esercita non solo sulle donne laiche, ma anche, e forse soprattutto, sugli uomini laici che si conformano alla mascolinità egemonica.
Questo ci conduce al secondo paradosso: da un lato, l’istituzione della Chiesa si oppone più che mai a ogni teoria che tenti di rendere meno naturale la norma eterosessuale, come possiamo constatare nella lotta contro la “teoria gender”; dall’altro lato, essa stessa crea un’immagine incerta del genere, stabilendo due distinte norme di mascolinità, poste in una gerarchia che è invertita rispetto ai ruoli di genere convenzionali.
C’è la mascolinità del laico sposato, che può apparire “naturale” o “normale” in quanto fino ad ora ha corrisposto alla mascolinità egemonica, e quindi (fino ad ora) non c’è stato nulla da dire in proposito. E poi c’è la mascolinità del monaco e del sacerdote, celibi e chiamati a esercitare le cosiddette “virtù passive”.
Tale forma di mascolinità potrebbe apparire “alternativa”, o perfino potenzialmente sovversiva, ma sembra più che altro “complice” [4], soprattutto alla luce della retorica differenzialista e promotrice della famiglia del Magistero romano [5], ripetuta e diffusa poi dal clero.
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[1] Vedi Éric Fassin, Celibate Priests, Continent Homosexuals: What the Exclusion of Gay (and Gay-Friendly) Men from Priesthood Reveals about the Political Nature of the Roman Catholic Church (Sacerdoti celibi, omosessuali continenti. Cosa rivela l’esclusione dal sacerdozio degli uomini gay e gay-friendly sulla natura politica della Chiesa Cattolica) per una lettura critica di questo testo, il quale, nonostante esplicitamente lo neghi, è intriso di implicita omofobia, che va molto oltre la classica distinzione (che troviamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica) tra gli “atti” [omosessuali], che vanno condannati, e le “tendenze”, che vanno accettate come dati di fatto.
[2] La concettualizzazione di R. W. Connell è costruita in opposizione alle concezioni androcentriche ed essenzialiste della mascolinità. Seguendo il ragionamento di questo autore, parto dal presupposto che in ogni tempo e in ogni luogo “una sola forma di mascolinità viene esaltata dalla norme culturali, a discapito di tutte le altre”, o, meglio ancora, viene definita dal rifiuto di tutte le altre.
[3] R. W. Connell precisa che la tipologia delle mascolinità da lei elaborata non contempla “caratteri fissi, ma configurazioni di prassi generatesi in situazioni particolari, in una struttura di relazioni sempre mutevole”. In tale contesto, la mascolinità egemonica può essere definita, più precisamente, in un tempo e in un luogo determinati, come “la configurazione della prassi di genere che incarna la risposta correntemente accettata al problema della legittimazione del patriarcato, il quale garantisce (o si presume garantisca) la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne”.
[4] La mascolinità “complice” viene definita da Connell come quella situazione in cui degli uomini legittimano la mascolinità egemonica inconsapevolmente, o senza ricavarne tutti i benefici annessi, come nel nostro caso fanno i sacerdoti.
[5] Il Magistero è l’autorità religiosa e morale posseduta dai vescovi, e in particolare dal Papa, a cui devono sottostare i membri della Chiesa Cattolica.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage