La difficile esperienza delle persone LGBT+ nella chiesa cattolica, una ferita che sanguina ancora
Articolo di João Victor da Fonseca Oliveira pubblicato su IHU, rivista on line dell’Istituto Humanitas Unisinos (Brasile) il 30 giugno 2020, liberamente tradotto da Paolo Cugini
“Nell’ambito della gioventù cattolica impegnata nella pastorale, le persone LGBTQIA+ sono percepite e costruite in modo ricorrente come ‘soggetti devianti’. Questa esclusione, operata dal gioco delle istituzioni e dei loro rappresentanti istituzionali, è il risultato non solo dell’attacco diretto a queste persone, ma anche delle politiche/tecnologie/dispositivi di silenziamento che operano all’interno degli spazi sociali, pastorali e religiosi”, scrive João Victor da Fonseca Oliveira, storico e insegnante di storia. Studente magistrale in Storia presso l’Università Federale di Minas Gerais (Brasile). Membro del gruppo di ricerca “Diversità affettiva-sessuale e teologia”, presso Faculdade Jesuita – Belo Horizonte (Brasile), che svolge attività pastorale da oltre 10 anni, con i giovani. Attualmente sviluppa ricerche su Genere, Spiritualità ed Esperienza Religiosa dei Giovani LGBTQIA+ nelle comunità cattoliche della periferia. Ecco il suo articolo:
“Essere ciò che si è, dire ciò che si crede, credere ciò che si predica, vivere ciò che si annuncia fino alle ultime conseguenze” (Mons. Pedro Casaldáliga)
A giugno celebriamo il mese internazionale della visibilità LGBTQIA+. In questo momento, come in tutti gli altri, ci viene chiesto di batterci per la dignità e la piena partecipazione di coloro che sono stati storicamente emarginati/e, soprattutto negli spazi religiosi. Pertanto, dobbiamo chiederci: cosa c’entra la Chiesa cattolica con questo? Molti importanti autori e autrici si sono dedicati a rispondere a questa domanda. In modi diversi, cercano di dimostrare le molteplici relazioni tra la violenza diretta alle persone LGBTQIA+ e il discorso istituzionalizzato della Chiesa. Tuttavia, la sfida che c’interpella è dimostrare come e in quali direzioni si manifesta questa violenza. Questo non è un tema allegorico all’interno delle realtà pastorali.
Al contrario, nell’esperienza religiosa coltivata dai giovani, abbiamo visto un’audacia profetica che amplia le possibilità per un’esperienza autentica della Gioia del Vangelo. L’esperienza religiosa che emana dalle vite e dalle pratiche dei giovani LGBTQIA+ supera e fa avanzare la tradizione che inquadra e normalizza tante vite come “esseri intrinsecamente disordinati”. L’affermazione teologica di un essere disordinato richiede quello stesso smontaggio che ha superato la nozione patologizzante, anche nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, negli anni ’90, quando ha tolto “l’omosessualità” dall’elenco delle malattie, e “disturbi dell’identità di genere” nel 2019. Dal “sodomita” al “paziente spirituale”, la Chiesa partecipa a questo discorso violento e insostenibile. Il risultato di ciò è uno sforzo collettivo verso una radicale depatologizzazione di questi corpi, che sono anche profondamente teologici.
Nell’ambito della gioventù cattolica impegnata nella pastorale, le persone LGBTQIA+ sono percepite e costruite in modo ricorrente come “soggetti devianti”. Questa esclusione, operata dal gioco delle istituzioni e dei loro portavoce, è il risultato non solo dell’attacco diretto a queste persone, ma anche delle politiche/tecnologie/dispositivi di silenziamento che operano all’interno degli spazi sociali, pastorali e religiosi. Questo è stato il principale risultato riscontrato nella ricerca su “Genere, Sessualità ed Esperienza Religiosa”, che è stata sviluppata all’interno di un gruppo di ricerca, sulla diversità affettivo-sessuale e la teologia, dall’autore di questo testo.
I dispositivi silenziatori [1] agiscono come forze specifiche per la produzione di subalternità, divieti, colpe, inquadrature e forme precarie di riconoscimento, condivise e, in modi diversi, riaffermate all’interno delle istituzioni religiose, incidendo sulle sue pratiche. Tali dispositivi formano, conformano e agiscono nelle soggettività dei giovani, attraverso il desiderio che essi nutrono nelle loro esperienze religiose, in una tensione permanente, mediante la quale deformano e ricreano tali strategie[2]. Forse è per questo che questi giovani restano, nonostante tutto. Questi dispositivi lavorano insieme alle strutture che mobilitiamo nella nostra pratica pastorale. Quadri pastorali che, quotidianamente, plasmano forme più o meno legittime di esistere all’interno degli spazi religiosi.
Gli inquadramenti possono essere compresi come discorsi che modellano, classificano, gerarchizzano e inquadrano effettivamente la vita delle donne, gay, transessuali, lesbiche ecc. all’interno dello spazio religioso [3]. All’interno di questi schemi, sia coloro che fanno parte di questi gruppi pastorali, sia coloro ai quali queste attività sono rivolte, agiscono all’interno di un inquadramento. Aumentando o diminuendo le possibilità di ognuno/a di essere percepito/a come una vita che conta [4].
La prospettiva conservatrice si basa sull’inibizione della diversità, cercando di mantenere un controllo ostinato sui corpi, sulle espressioni e relazioni. Il rischio è che il discorso conservatore annulli la possibilità dell’esistenza di coloro che, per qualsiasi ragione, non si associano alla regola egemonica – sempre un’operazione di potere. Proprio per questo, tutto questo deve essere dibattuto all’interno delle comunità pastorali ed ecclesiali. Se non per colpa, almeno per responsabilità. Mentre affrontiamo queste ferite, dovremmo iniziare denunciando i loro sintomi.
L’episodio forse più sintomatico, in questo senso, è il passaggio dal Documento preparatorio per il Sinodo dei giovani, pubblicato nel 2017, al documento finale del Sinodo, il cui testo è stato approvato nel pomeriggio del 27 ottobre 2018. Una relazione poco esplorata (studiata). Il documento preparatorio ha sorpreso riportando la parola “LGBT” che è stata, più tardi, rimossa. Questa prospettiva annunciava una richiesta proveniente dalla realtà e dalla vita dei giovani, come mostra il numero 53: “parlate in termini pratici di questioni controverse come l’omosessualità e le questioni di genere, di cui i giovani già discutono liberamente senza tabù” (n. 53).
Più avanti, il documento preparatorio affermava che “alcuni giovani LGBT, attraverso i vari contributi inviati alla Segreteria sinodale, desiderano ‘fruire di una maggiore vicinanza’ e sperimentare una maggiore attenzione da parte della Chiesa” (n. 197). La discussione prevedeva ancora, in modo più o meno evidente, l’iscrizione di questi corpi dentro la cornice del “riconoscimento istituzionale”. Nel documento finale, composto di tre parti, 12 capitoli, 167 paragrafi, 60 pagine, come risultato della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, i risultati riscontrati erano sorprendenti – anche se promettenti. In esso compare solo la parola “omosessualità”, citata una volta al punto n. 39, e la parola “omosessuali” menzionata due volte, al punto n. 150.
È essenziale sottolineare che il documento finale, all’interno di un quadro analitico, indica le controversie storiche sui significati del corpo, della sessualità e delle concezioni di “natura”, “cultura” e “differenza sessuale”. Nello stesso tempo in cui ritiene “riduttivo” definire l’identità delle persone unicamente in base al loro orientamento sessuale, il documento stabilisce continuamente basi normative, totalmente fondate sulla presunta “differenza sessuale”, legata alla sessualità, dove sarebbe l’ “orientamento sessuale” (che, a sua volta, materializzerebbe l’ideale dell’armonia, come propone il testo). Non si tratta di una contraddizione, in termini, ma di un’intenzionalità discorsiva (un atto performativo che mira a stabilire una realtà). La performatività di genere ha lì la sua massima espressione [5].
In questa battaglia simbolica, dobbiamo notare che:
a) In relazione al punto n. 39, vi sono state: 195 approvazioni (PLACET) e 43 disapprovazioni (NO PLACET).
b) In relazione al punto n. 150, c’erano: 178 approvazioni (PLACET) e 65 disapprovazioni (NO PLACET).
I dati, se confrontati con i risultati finali della votazione sugli altri punti, acquistano particolare rilevanza nella misura in cui sono chiaramente più voluttuosi. Sono stati gli articoli meno approvati e, allo stesso tempo, i più disapprovati, in concomitanza. Con una precisazione, che ci sembra anche fondamentale sottolineare. Il n. 150 è stato di gran lunga il punto meno approvato, seguito dal n.121, e poi dal n. 39. Il n. 150 è stato alla lunga il più disapprovato, seguito dal n. 121 (51 disapprovazioni), e poi n. 39 (43 disapprovazioni). La precisazione si riferisce al numero 121, che curiosamente propone la sinodalità come cammino della Chiesa. Piattaforma di Francesco nel suo pontificato. Qui abbiamo una metrica della resistenza che Francesco sta affrontando.
Ancora una volta, il Sinodo dei giovani è soprattutto un sintomo. Questi spostamenti sono definitori delle ferite che mantengono il rapporto della gerarchia della Chiesa con le persone LGBTQIA+. Ferite troppo profonde per non sanguinare. Fortunatamente, i giovani LGBTQIA+ sono sempre più incoraggiati a presentare le loro richieste. Questa volta, non in cambio dell’accettazione o della legittimazione della propria vita, rifiutandosi, tra l’altro, di essere percepiti nella logica della “mancanza e deviazione”, o all’interno del mero “quadro istituzionale” nella lotta per il riconoscimento, quando questo significa riconoscimento precario. Il sapiente e coraggioso rinnovamento richiesto da papa Francesco, nella proposta di una Chiesa in uscita, non potrà concretizzarsi se non si effettuerà anche un’uscita verso quelle strutture normative (e, quindi, escludenti) che operano insieme ai dispositivi di silenziamento all’interno delle comunità religiose. Sono queste pratiche che alimentano atteggiamenti preconcettuosi (prevenuti) e violenti all’interno della Chiesa.
Il panico morale introno alla categoria del Genere non contribuisce a nulla. Al contrario, finisce per cercare di nascondere le gerarchie sociali incarnate dagli indicatori sociali della differenza. Le persone LGBTQIA+ non sono né malate spiritualmente né vittime di una grande tragedia personale. Come ci racconta Teresa Forcades: “Tutte le classificazioni scompaiono in questa fase in cui la persona può osare un orizzonte vitale di singolarità e intimità, in un rapporto di gratuità. L’amore di Dio è un amore trinitario di comunione, un amore che alla sua radice è segno di reciprocità, libertà, alleanza e gratuità e non va confuso con le classificazioni. Questo è l’ordine dell’amore”. Un appello profondo affinché le omelie non diventino discorsi di odio che normalizzino la violenza.
Questa stessa violenza travestita da “accoglienza”, che presumibilmente prende di mira coloro che sono considerati “colpa grave/fallimento/deviazione”, che si basa su una forma autoreferenziale di inclusione, stabilendo coloro che sono “normali” e i loro opposti. Lo stesso Cristo che scandalosamente ci chiama alla vita piena e abbondante per tutti, cammina con noi. Questo manifesto suona come una sfida e un invito a un dialogo senza riserve con le realtà emanate dalla vita e dalle pratiche dei giovani che, insieme ad altri, plasmano le proprie esperienze [6]. Questo gesto implica un nuovo modo di proporre e vivere una pastorale feconda e attenta alla propria condizione, fondata sull’etica di Gesù:
“L’etica di Gesù si basava sulla difesa di una vita dignitosa e della libertà di tutti gli esseri umani. Gesù ha dedicato particolare attenzione e tempo ai piccoli, a coloro che erano caduti ai margini della strada, a coloro che non avevano voce nella società del suo tempo” (Vida Pastorale, anno 59, n. 320. p. 3)
Solo liberati dai pregiudizi in cui siamo stati socialmente educati, liberati da forme di esclusione e discriminazione, liberati dal tempo che ci ributta dentro alla nostra indifferenza, e liberi per la libertà del Vangelo, possiamo elevare autenticamente la nostra vita a Dio, come la più bella forma di preghiera. Dopotutto, «pregare è abbracciare la vita così com’è» [7]. Questo Manifesto Pastorale (disponibile a questo link: https://www.academia.edu/42802860/MANIFESTO_PASTORAL_Jovens_cat%C3%B3licos_LGBTQUIA_ ) è dedicato a tutte le persone LGBTQIA+ che vivono le proprie esperienze religiose con autenticità e libertà profetica.
Belo Horizonte, 2020. 51 anni della Rivoluzione di Stonewall.
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[1] Possiamo intendere un dispositivo come “un insieme decisamente eterogeneo che comprende discorsi, istituzioni, organizzazioni architettoniche, decisioni normative, leggi, misure amministrative, dichiarazioni scientifiche, proposizioni filosofiche, morali, filantropiche. Insomma, il detto e il non detto sono gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è la rete che può essere tessuta tra questi elementi (FOUCAULT, Michel. Microfisica del potere. Rio de Janeiro: Graal, 2000. p. 244).
[2] Opere simili come quelle di Murilo Araújo e Cris Serra hanno raggiunto simili conclusioni.
[3] Sottolineiamo la definizione originaria di “Framing/to be frame”, che significa allo stesso tempo essere inquadrati e incriminati, come affermato da Judith Butler, autrice del concetto originario.
[4] Le strutture attraverso le quali apprendiamo, o addirittura non riusciamo a comprendere la vita degli altri, sono esse stesse operazioni di potere. Quanti di noi hanno mai sentito in qualche intenzione di celebrazione [religiosa] il nome di un travestito assassinato?
[5] Concetto sviluppato da Judith Butler, su base di John Austin, per il quale il linguaggio dovrebbe essere trattato essenzialmente come una forma di azione e non come una rappresentazione della realtà, portando a considerare che sono le condizioni d’uso della frase a determinarne il senso.
[6] Cfr Veritatis Gaudium.
[7] Una celebre frase del cardinale José Tolentino Mendonça.
Testo originale: Manifesto Pastoral. LGBTQIA+ e Experiência Religiosa: uma ferida que ainda sangra na violência de cada dia