La famiglia e le famiglie. Lettera aperta alla chiesa da una postazione minore
Lettera aperta di un gruppo di credenti, diversamente credenti e non credenti, del 1 luglio 2012
Contesto. Un gruppo di persone, provenienti da varie esperienze, si sono sentite sollecitate a convenire insieme nell’iniziativa del LA. SI. LA. (Laboratorio di Sinodalità Laicale), promossa a Milano in seguito agli incontri nazionali di base tenutisi nel 2009 e nel 2010 a Firenze e Napoli sul tema “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”.
Il proposito è quello di avviare un laboratorio aperto, uno spazio sperimentale, un cantiere o meglio ancora una “piazza pubblica” in cui potersi incontrare, ascoltare e confrontare in merito a singole e specifiche questioni della vita civile ed ecclesiale, attraverso la ricerca di un metodo di lavoro che consenta l’integrazione tra la libera coscienza (laicità) e il rispetto delle diversità in una decisionalità condivisa (sinodalità).
Credenti e non credenti hanno intrapreso la ricerca di una mediazione sulla base del riconoscimento fondamentale del loro essere uomini e donne a cui sta a cuore la dimensione umana e sociale prima di qualsiasi altro tipo di appartenenza. Su questa base è stato possibile incontrarsi su un piano paritario: i credenti sostenuti dall’essere discepoli dell’evangelo e i non credenti dal riconoscere l’evangelo come un riferimento significativo nell’indicazione di percorsi di umanizzazione e liberazione.
Si è deciso, in ragione del forum mondiale (Milano 27 maggio-3 giugno 2012) e di come andava profilandosi, di scegliere il tema della famiglia come oggetto del lavoro di approfondimento tra singoli e gruppi creando uno spazio aperto di confronto e di dibattito.
Il documento si compone del testo vero e proprio della Lettera aperta e di un allegato (Storie e gridi) che presenta cinque racconti di vita di famiglie “non omologabili”. La lettera è rivolta a tutta la Chiesa italiana (laici, presbiteri, religiosi e vescovi). (g.m.)
La famiglia e le famiglie Lettera aperta da una postazione minore (1 luglio 2012)
Nelle intenzioni, e forse ancor più nei sogni, di coloro che l’hanno stesa, questa lettera vorrebbe essere a cielo aperto, nel desiderio di dare voce e chiedere voce al di là di ogni rigida appartenenza. La lettera proviene da un Laboratorio di credenti, di non credenti e diversamente credenti, fondamentalmente da uomini e donne che si interrogano. Ci siamo incontrati, in questi mesi che hanno preceduto l’Incontro mondiale delle Famiglie, con l’intenzione di essere da un lato fedeli al vangelo che abbiamo ricevuto e dall’altro di essere fedeli alle donne e agli uomini del nostro tempo, uomini e donne non impalliditi nell’astrattezza di una categoria ma colti e amati nella concretezza delle loro storie.
Abbiamo preferito scrivere ad evento concluso. Non ci appassionava infatti desiderio di contrapposizione o di polemiche, non è questo che ci sta a cuore. Ci conduce invece, come accennavamo, desiderio di fedeltà al vangelo e alla storia concreta delle famiglie che oggi incrociamo, con cui ci accompagniamo.
Una voce debole, ma eco del Vangelo
Sappiamo di essere voce debole, ma crediamo, ingenuamente forse, ma testardamente, nell’efficacia disarmata del passa parola di coloro che non contano o contano poco, e null’altro desideriamo se non che nelle nostre parole e nei nostri atteggiamenti si possa in qualche misura rinvenire una eco, piccola certo, ma ci augureremmo autentica, del vangelo. L’esperienza infatti ci insegna quotidianamente che il vangelo di Gesù di Nazaret ancora oggi ha un fascino che travalica i confini strettamente istituzionali e dà respiro e bellezza alla vita di tanti.
L’impressione che ci sembrò di cogliere prevalente, nei lunghi mesi di preparazione dell’evento, fu quella di una declinazione alta, a volte, oseremmo dire, altisonante, della realtà della famiglia, con una trasmissione per lo più a senso unico dall’alto in basso, si trattava per lo più di recepire ciò che nelle stanze alte si era pensato e programmato. Un messaggio, si arrivò a dirlo, per famiglie “normocomposte”.
Ascoltare prima di parlare
Ci parve opportuno nei mesi che precedettero scegliere un altro stile e di privilegiare una postazione diversa da cui osservare, sospinti da una indicazione evangelica suggerita da un Vescovo che negli anni in cui fu in mezzo a noi era solito dirci che sognava una chiesa che non parlasse prima di aver ascoltato, che parlasse solo dopo aver ascoltato. Fedeli all’indicazione del card. Carlo Maria Martini, ci parve prioritario ascoltare. Ascoltare famiglie del nostro tempo, diremmo raccoglierne le storie, a volte i gridi. Sfuggendo all’inganno di imprigionarle tutte in unico schema.
Tante famiglie non omologabili
Più ascoltavamo e più raccoglievamo storie, più esse ci sembravano sfuggire all’ingenuità imperdonabile di chi ha la pretesa di omologarle. C’è qualcosa di indefinibile in ciascuna, davanti a cui sostare come davanti al mistero, il mistero della vita. Per questo ci sembravano povere e impoverenti le visioni che, assolutizzando un solo modello di famiglia, riducevano corposamente, in modo sconcertante, la realtà che sta davanti ai nostri occhi.
Per quel tanto che ci è rimasto nel cuore del vangelo, ci è venuto spontaneo chiederci dove andrebbero oggi gli occhi di Gesù. Lui che raccoglieva frammenti di pane, lui che fasciava canne incrinate, lui che dava un goccio d’olio, a speranza, a lucignoli in vigilia di estinzione.
Se da un lato infatti ci sembra evangelico e fecondo sostenere– e non semplicemente proclamare –orizzonti alti, quelli di un amore che tenga in sé la promessa del “tutta la vita”, dall’altra ci sembra altrettanto urgente ed evangelico chinarci sulle storie che portano segni di sofferenza e ferite, ascoltarne le voci, indicare e promuoverne i segni positivi, e non pochi, che al di là di quello che si pensa, vi sono custoditi.
Ebbene nei giorni dell’incontro mondiale delle famiglie, più volte avvertimmo con vera sofferenza come queste voci, in mancanza di un posto per loro, in assenza di un vero appassionato ascolto delle loro storie, patissero il senso di un’esclusione, quasi che coloro che le incarnavano fossero stranieri clandestini, quasi non fosse data loro dignità di valori e di appartenenza. L’incontro che si declinava come mondiale giocoforza finiva per mettere la sua attenzione su una porzione esigua del mondo delle famiglie se è vero, come le statistiche vengono a dirci che le unioni di fatto, per esempio, nel nostro paese raggiungono il 25% e il tasso dei divorzi si avvia ad attestarsi sulla metà delle unioni. Accennava a questa realtà problematica anni fa il Card. Martini in un suo discorso, alla vigilia di S. Ambrogio dell’anno 2000 e aggiungeva: “Bastino questi cenni per dare la misura delle sfide portate alla famiglia e per suggerire a me e a noi, uomini di Chiesa, sobrietà e comprensione. La sobrietà verso chi è alle prese con la prosa, talvolta con la durezza della vita familiare ordinaria che corre lungo binari lontani dai toni un po’ artificiali di certa nostra enfatica predicazione. La comprensione, per non incappare nella censura evangelica di chi disinvoltamente prescrive ad altri pesi soverchianti (cfr. Mt 23,4)”.
Confessiamo di aver colto con gioia la dichiarazione di una vicinanza in un passaggio di Papa Benedetto XVI nel suo intervento all’incontro mondiale di Milano: “Sappiate” disse “che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. Vi incoraggio a rimanere uniti alle vostre comunità, mentre auspico che le diocesi realizzino adeguate iniziative di accoglienze e vicinanza”.
La verità della relazione
Ci sembra di poter dire che accoglienza e vicinanza sono parole che, se da un lato ci donano respiro, dall’altro rischiano il pericolo di scolorirsi se non c’è riconoscimento, se persiste una sorta di sospetto, se il rapporto è tra chi si considera anfora piena e chi è considerato anfora vuota o tutt’al più anfora fessurata.
Possiamo oggi, in presenza di tante altre realtà che non si collocano tra le famiglie cosiddette “normocomposte”, affermare che non esistono vere relazioni di famiglia al loro interno e dunque non possono essere considerate famiglia? Lo possiamo dire senza ferire la verità e le persone? Siamo entrati nelle loro case, siamo rimasti in silenzio ad ascoltare, a guardare, con occhi fatti aperti dall’amore, la vita che vi pulsa, per coglierne tutta la passione e la verità, le gioie e le sofferenze?
Non assistiamo forse a esperienze di profondi legami familiari anche in altre case? E non è forse la verità della relazione a dire l’intensità di una vita famigliare? Come abbiamo sentito sottolineare più volte in questi mesi in incontri promossi a Milano dal Coordinamento 9 marzo, in incontri in cui si diede voce a persone che vivono situazioni che sbrigativamente, molto sbrigativamente, alcuni chiamano “non normali”. “Ma che cosa caratterizza la relazione che fa famiglia?” abbiamo letto in una introduzione a un loro Convegno “Ovviamente il punto di partenza è la coppia, che sceglie di entrare in un rapporto particolare basato sull’amore, sullo scambio di attenzione e accompagnamento, sul reciproco riferirsi, su un progetto comune, su una prospettiva di vita; e che considera la ‘relazione’ un cammino, un percorso, una specie di ‘lavori in corso’ da incrementare continuamente. Non un dato da considerarsi scontato, ma appunto,un percorso dinamico”.
Rifiutare il pane della Cena del Signore?
Non possiamo non chiederci che cosa significhi dire vicinanza e accoglienza se da un lato invitiamo alla Cena del Signore e, nell’atto stesso in cui invitiamo, escludiamo, rifiutando a chi è venuto il pane della Cena del Signore. Non ci fa problema, da un punto di vista del vangelo, dire: “Venite alla cena che racconta l’inimmaginabile” – ci racconta di Gesù, di lui che il suo pane, la sua vita, li dona a noi che non meritiamo – creando all’interno della sua memoria la categoria di quelli che meritano il pane e di quelli che non lo meritano? Noi forse lo meritiamo? Ma non è tradire l’inimmaginabile, l’incondizionatezza del suo amore?
Sono domande che pesano sul cuore. Sul nostro cuore e sul cuore di coloro che in questi mesi abbiamo incontrato. Sono domande che pesano, a nostro avviso, come macigni sul vangelo. Le poniamo per fedeltà al vangelo che abbiamo ricevuto.
Abbiamo desiderato che questa nostra lettera desse voce a chi non ha avuto e forse non ha voce. Per questo con grande rispetto, simpatia e passione abbiamo raccolto tra i documenti che accompagnano la nostra lettera – e osiamo indicarle come le pagine da privilegiare in una lettura – le voci che ci raccontano storie di altre famiglie, storie sofferte di esperienze di chiesa dove la legge a volte sembra uccidere lo spirito, dove l’assenza di rispetto per il viso dell’altro sembra svelare una impietosa stellare distanza dal modo di pensare, di atteggiarsi, di agire, dal modo di essere di Gesù. Come se se ne fossero dimenticate le orme. Una assenza di pietas, a dir poco inquietante in coloro che seguono un Rabbi che scopriva fede in territori pagani, a volte più grande che non in quelli del suo popolo.
Ebbene la nostra lettera aperta vorrebbe risvegliare la memoria di Gesù di Nazaret e del suo vangelo in particolare in chi fosse stato allontanato da chiusure e spietatezze e dare segno di una presenza di sorelle e fratelli che, pur con tutte le loro fragilità e debolezze, credono nelle orme di Gesù e cercano di custodirne la memoria.
Un gruppo di credenti, diversamente credenti e non credenti