La fragilità, stella cometa del nostro cammino
Riflessioni di Federica Mandato del gruppo Ressa di Trento del 19 dicembre 2010
Esistono momenti della vita in cui ha un senso diverso rivolgersi a Dio. Per esempio nella malattia, la propria e quella di chi abbiamo più vicino. Essere omosessuali o eterosessuali non fa differenza, come direbbe il ministero nella sua campagna contro l’omofobia.
Nulla di nuovo, Totò parlava della ‘livella’, di quel qualcosa che nella sua ‘democraticità’ colpisce tutti e rende l’essere umano completamente nudo e senza ‘prezzo’ appunto, di fronte alla caducità.
Ricco o potente che tu sia il valore della tua vita sta in altre cose e la fragilità che ci rende pezzi di cristallo nel tumulto della tempesta esistenziale, assottiglia ogni divario. Chissà che questa non possa essere una buona lezione per molti.
E la fede? Come rivolgersi a Dio in questi casi? Spesso è la rabbia ad avere il sopravvento.
Dio non è più il Babbo Natale portatore di doni su richiesta, non è una magica soluzione ai problemi, non dice con voce possente dal cielo, non suggerisce alternative, non dà pacche sulle spalle, sembra che lasci l’uomo al suo destino.
Il silenzio di Dio è un tema ricorrente, dopo l’olocausto e in molti altri frangenti della storia recente sembra ci siano mille dimostrazioni della sua non onnipotenza.
Se Dio fosse davvero onnipotente come potrebbe permettere tutto questo? E se è onnipotente e lascia che certe cose accadano, come può definirsi ‘buono’, innamorato dell’uomo?
E’ la tesi per esempio del ‘silenzio di Dio dopo Auschwitz’ dell’ebreo Hans Jonas, ma lo stesso Giovanni Paolo II non ha potuto non parlare di questo ossimoro, della contraddizione dilaniante tra amore e morte, amante divino e il suo apparente oblio. Martin Buber parlò di eclissi di Dio, perché “l’ora in cui viviamo è caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio”.
Molti salmi sono poi caratterizzati dal grido dell’afflitto a un Dio in penombra, lontano dal cuore dell’uomo. Per non dire che lo stesso Gesù si sentì abbandonato in croce. Questo grido, al padre assente, è forse il segno più potente della fede lacerata, il dolore umano, fisico e morale, che si sprigiona in un’invocazione universale, che trascende da ogni appartenenza e diviene il simulacro che purifica da superficialità, velleità e senso di onnipotenza.
E’ nei Fratelli Karamazov, nella figura di Ivan, che erompe tutto lo scandalo di questa sofferenza, sperimentata soprat¬tutto dagli idioti e dai bambini.
Essa, restando senza senso, risulta incompatibile con l’esistenza stessa di un Dio giusto. “Ivan – ha scritto Pareyson – è disposto ad ammettere il carattere trionfale ed esaltante dell’armonia finale, in cui non rimarrà nulla d’ingiustificato e d’incomprensibile per la mente umana, e ogni contrasto sa¬rà eliminato fra gli uomini, tutti ugualmente redenti e redenti dal male, riscattati dal dolore, liberati dal bisogno e saziati dalla sete di giustizia”.
Ma di fronte alla sofferenza dei bambini l’utopia di una riconciliazione finale finisce in pezzi. E’ dunque inconciliabile la fede con un senso di ragionevole realismo?
Crescere ci dimostra che le paure del bambino non sono mai definitivamente superate, i sogni passano, gli incubi spesso no.
Ma essere adulti non è essere persone invulnerabili o indifferenti al male e al dolore, come potevamo credere fossero i nostri genitori dai quali pretendevamo salvezza e rifugio.
Da adulti noi stessi siamo chiamati ad affrontare le nebbie della speranza, senza fermarci nella palude del disincanto, ma attraversare con fragili mezzi i nostri fantasmi e il male, verso mete non sempre facili da definire…eppure camminare e camminare ancora. La spiritualità occidentale è molto legata a questa drammatica antitesi-sintesi: fede-ragione.
Fin anche a teorizzare un senso ‘progettuale’ divino nel soffrire: Dio vuole così, non chiediamoci perché. Il martirio, il soffrire per amore di Dio addirittura. Ma possiamo davvero credere che un padre buono possa volere questo per i suoi figli?
Buddha, in una tradizione spirituale completamente diversa, parla di un necessario distacco dalle passioni, dal desiderio del possesso, del trattenere, del controllare corpo, anima, affetti, tempo, vita.
Essere illuminati, non padroni. Abbiamo forse la capacità di opporci minimamente al male? Non come lo crediamo. Lo stesso Vangelo ci ricorda che non abbiamo il potere di controllare nemmeno la caduta di un solo capello.
Gesù stesso non esaudisce le nostre curiosità, non consegna date o riferimenti precisi, non spiega come o quando verrà la fine, ma vuole spostare la nostra attenzione sul come ci si prepara.
Tutto questo è molto importante: non deve essere il quando o il dove della fine del tempo a incuriosire o, peggio ancora, ad occupare le energie.
La nostra attenzione dev’essere sul come. Per questo l’opposizione al male e al dolore non è in sella ad un cavallo bianco, armati di pretese e rivendicazioni.
Forse davvero l’unica arma è l’abbandono. Abbandono la mia vita come goccia che si perde in un mare più grande. Sciolgo il mio sale nel catino del divenire, mi lascio ‘mangiare e bere’ in un cammino mai definitivo.
Assottiglio il mio orgoglio e la mia brama di materiale appagamento, fino a purificare il mio sguardo e riappacificarmi coi miei demoni, se ne avrò la forza.
La mia singolare fine del resto è drammatica e inconsolabile tanto più se isolata da un contesto più ampio, quando sento perso il legame con la comunità umana, con una riferimento relazionale, per una deriva individualistica e esiliante, perché altrimenti aver pensato a cerimonie pubbliche collettive del trapasso, cosa presente in ogni cultura e tradizione religiosa?
La fretta con la quale spesso minimizziamo questi riti è grave sintomo e rischio di alienazione, così come la lontananza che oggi si cerca sempre più dal sofferente fisico o mentale, dal morente, dal debole, medicalizzando, circoscrivendo, separando i malati dai sani e creando ancora più malati e in procinto di ammalarsi.
Ciò porta a soffrire anche senza avere ‘ferite’ corporali. La solitudine e il nulla, la perdita di senso, di legame, di familiarità sono forse la ferita più grande. Il non saper dire, il non saper o poter lanciare un ponte tra il cielo e la terra.
Sento dirmi in questi giorni da una persona cara che sta patendo una grave malattia: forse non posso fare nulla, ma posso parlarne…ne ho bisogno.
Cosa chiedere dunque a Dio, a questo Dio che nasce bambino? La massima dice: finché c’è la salute… Forse possiamo andare oltre, potremmo essere così folli da chiedere piuttosto una voce capace di gridare.
Una mente capace di sgretolare le barriere che l’imprigionano alla sofferenza, forse chiedere un sonar per rilevare i segnali sottotraccia del divino, quando la voce tonante del mondo invita a lasciarsi travolgere dal nulla. E avere la grazia di qualcuno vicino che pur senza mezzi ha ‘tempo’ per noi.
Ognuno trovi i suoi strumenti, la ricerca nella consapevole fragilità è già un cammino di speranza che porta verso una mangiatoia tiepida, in cui rivolgersi al volto di Dio.
Buon, disarmato Natale!