La fuga del profeta Giona e di ogni persona transgender per sottrarsi al proprio destino
Testo di Joy Ladin* tratto dal suo libro “The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective” (L’anima dello straniero. Leggere Dio e la Torah da una prospettiva transgender), ed. Brandeis University Press (Stati Uniti), 2018. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata
Avevo più di quarant’anni quando finalmente conobbi dei rabbini disposti ad accettarmi come ebreo transgender, ma sentivo la tradizione ebraica parlare alla mia vita ogni pomeriggio di Yom Kippur, quando gli ebrei leggono tradizionalmente il Libro di Giona. È una storia che ogni persona transgender conosce bene: la storia di qualcuno disperato nel tentativo di evitare di vivere come la persona che sa di essere (nel caso di Giona, un profeta).
Fin dall’inizio del libro, quando Dio gli ordina: “Va’ subito a Ninive… e proclama il giudizio su di essa, perché la loro malvagità è giunta fino a me” (Giona 1:2), Giona sa di essere un profeta. Non chiede a Dio perché abbia scelto proprio lui per portare quel messaggio, né discute, come fa Mosè davanti al roveto ardente, affermando di non essere adatto al compito.
Semplicemente fugge, perché, come spiega nell’ultimo capitolo, sa che Dio non distruggerà Ninive, per quanto il popolo sia malvagio: “Ecco perché sono fuggito… So che Tu sei un Dio misericordioso e clemente, lento all’ira, grande nell’amore, e che desisti dal mandare la rovina” (Giona 4:2). Anche quando Dio gli parla del giudizio imminente, Giona, da vero profeta, sa già che Dio avrà pietà di loro.
Giona è così disperato di non essere un profeta che abbandona la vita che ha sempre conosciuto e si imbarca su una nave diretta a Tarshish. Ma, come molte persone transgender sanno, quando fuggiamo da noi stessi, fuggiamo dalla vita stessa.
Mentre la sua nave è scossa da una tempesta mandata da Dio, Giona dorme nella stiva, in un sonno così profondo da ignorare persino l’istinto di autoconservazione. Quando il capitano lo sveglia e gli dice di “invocare il suo dio” per la salvezza, Giona non risponde con una preghiera, ma con un gesto suicida, dicendo ai marinai: “Gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi” (Giona 1:6, 12).
Perché Giona reagisce in questo modo? Dio ha mandato la tempesta perché lui si è rifiutato di andare a Ninive, quindi avrebbe avuto senso cercare di placare la collera divina promettendo di compiere la missione.
Ma la sua risposta autodistruttiva riflette uno schema psicologico fin troppo familiare alle persone transgender: fuggire da sé stessi il più a lungo possibile, e quando non si riesce più a sopportare la tempesta interiore ed esteriore, scegliere di morire per il bene degli altri, pur di non dover mai vivere come chi si è realmente.
Giona potrebbe aver pensato di sacrificarsi per i marinai, ma la verità è che è così disperato di evitare di essere un profeta da preferire la morte alla vita.
Molte persone transgender si raccontano che il suicidio risolverà il conflitto tra il bisogno di essere e la paura di essere ciò che sono. Pensiamo che le nostre famiglie, le nostre comunità, il mondo staranno meglio senza di noi, e che noi, liberati dalla vergogna di nasconderci e dal terrore di vivere come siamo, troveremo finalmente pace.
Nel caso di Giona, questa fantasia suicida sembra realizzarsi: quando viene gettato in mare, la tempesta si placa e lui sprofonda pacificamente “negli abissi, nel cuore del mare”, dove viene “inghiottito da un grande pesce” (Giona 1:15, 2:3).
Ma miracolosamente, Giona non muore. Negli abissi, nel ventre del pesce, si ritrova solo con il Dio da cui era fuggito. Dio lo circonda letteralmente, dandogli respiro, calore e protezione, sostenendo la sua vita in mezzo alla morte. In altre parole, la fuga di Giona da sé stesso lo porta contemporaneamente più vicino alla morte e più vicino a Dio.
Questo paradosso spirituale è il cuore della sua storia, ed è stato il cuore della mia vita quando vivevo come un uomo che sapevo di non essere.
Come Giona, ero così disperato di non vivere come la persona che ero davvero che preferivo scegliere la morte anziché la vita, la disperazione invece della speranza, l’isolamento invece della connessione umana. Anche circondato da famiglia e amici, mi sentivo come se fossi solo sul fondo dell’oceano.
Ma non ero solo: anche se la depressione suicida mi ha inghiottito per decenni, Dio era lì, attorno a me, a sostenermi, a tenermi in vita. Anche mentre era nel ventre del pesce, Giona vede la sua salvezza come una svolta: “Sprofondavo fino alle basi delle montagne; le porte della terra si chiudevano su di me per sempre; eppure, Tu hai fatto risalire la mia vita dalla fossa, Signore mio Dio!” (Giona 2:7).
Giona è così grato di essere stato salvato che, quando il pesce lo vomita sulla riva, supera la sua riluttanza a presentarsi come profeta e si dirige a Ninive. A differenza di Giona, io non ho mai visto Dio come qualcuno che mi stava liberando per farmi vivere davvero. Mi dicevo che Dio non voleva che vivessi come chi ero realmente. Mi dicevo che Dio voleva—e mi stava aiutando—a sommergere per sempre il mio vero io. Mi convincevo che l’amore fosse questo: fingere di essere ciò che gli altri volevano che fossi. Soffrire in silenzio. Abbracciare la solitudine. Rinunciare alla gioia.
Anno dopo anno, quando il suono dello shofar risuonava a Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione, piangevo. Non perché stessi confessando i miei peccati, ma perché sapevo che, per quanto sincere fossero le mie parole, finché avessi vissuto come un uomo, non avrei mai potuto sentirmi grato, né davvero vivo. Dio poteva preservarmi negli abissi della disperazione suicida, ma neanche Dio poteva liberarmi da quelle profondità finché non facevo ciò che aveva fatto Giona: accettare che dovevo vivere come chi ero realmente. […]
* Joy Ladin è una poetessa e saggista statunitense, nota per essere stata la prima docente apertamente transgender in un’istituzione ebraica ortodossa. Ha pubblicato dodici libri, tra cui l’autobiografia “Through the Door of Life: A Jewish Journey Between Genders” (2012) e “The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective” (2018). Le sue opere esplorano temi legati all’identità di genere e alla spiritualità, offrendo una prospettiva unica che unisce esperienza personale e analisi letteraria.
Testo originale: Introduction Shipwrecked with God